In occasione del XXV anniversario dell'inizio dei Congressi UNIV, che ogni anno riuniscono a Roma rappresentanti di più di quattrocento università dei cinque Continenti, S.E.R. Mons. Alvaro del Portillo ha inviato al Congresso UNIV '92 il seguente discors
L'università nel pensiero e nell'attività apostolica
di Mons. Josemaría Escrivá
E' ormai imminente la solenne Beatificazione del
Venerabile Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, che ideò e sempre sostenne con il suo incoraggiamento questi congressi, che si celebrano a Roma da ormai venticinque anni con la partecipazione di professori e studenti provenienti da tante università dei cinque continenti.
Questa duplice circostanza, e cioè la celebrazione del XXV anniversario dell'UNIV e la prossimità della Beatificazione del Fondatore dell'Opus Dei, ha indotto gli organizzatori del Congresso a suggerirmi di illustrare, in quest'intervento, il profondo rapporto di Mons. Escrivá con il mondo universitario ed il suo impegno nel campo della cultura. Lo faccio con vivissima soddisfazione, precisando che esporrò, come egli stesso avvertiva, il suo «modo personale di vedere su questo argomento, non il modo di vedere dell'Opus Dei, che in tutto ciò che riguarda gli affari temporali ed opinabili, non vuole né può fare nessuna scelta»[1]. E' chiaro d'altronde che l'ampiezza dell'argomento mi obbliga a limitare la mia esposizione solo ad alcuni aspetti di particolare rilievo.
1. Amore per l'università
Sin dai tempi in cui era studente presso l'Università di Saragozza, città in cui, mentre svolgeva gli studi sacerdotali, si iscrisse anche alla Facoltà di Giurisprudenza, Mons. Escrivá si interessò in modo spiccato alla realtà universitaria e per tutta la vita espresse più volte la grande stima che fin da allora aveva imparato a nutrire per tale realtà. Così, nell'omelia pronunciata nella Cattedrale di Pamplona il 30 novembre 1964, disse: «Amo l'università: considero un onore essere stato alunno dell'università spagnola. Serbo un ricordo pieno di affetto per maestri e compagni...»[2]. In un'altra occasione, intervistato da un giornalista su alcune questioni universitarie, presentò il proprio punto di vista come «la mia opinione, quella cioè di una persona che «dai sedici anni —ora ne ho sessantacinque— a oggi non ha mai perso contatto con l'università»[3]; e in un'altro momento dell'intervista afferma: «Le cose di cui parlo rientrano nella mia competenza, perché mi considero uomo d'università: e tutto ciò che concerne l'università mi appassiona»[4].
Sospinto dal suo anelito apostolico e da un sincero affetto per l'istituzione universitaria, egli promosse la creazione di diverse università e di varie altre istituzioni di ambito universitario: Residenze studentesche, Scuole superiori...
Il suo amore per l'università si è reso particolarmente evidente nello svolgimento delle mansioni di Gran Cancelliere dell'Università di Navarra (Pamplona) e dell'Università di Piura (Perù). Durante la cerimonia in cui, in segno di riconoscimento per la fondazione dell'Università di Navarra, gli venne conferita la cittadinanza onoraria di Pamplona, descrisse così gli ideali che desiderava venissero inculcati in quell'istituzione: «Desideriamo che vengano formati uomini competenti e con senso cristiano della vita; vogliamo che in questo ambiente, propizio alla riflessione serena, venga coltivata una scienza ben radicata nei principi più solidi e la cui luce sia capace di proiettarsi su tutti gli ambiti del sapere»[5].
Questo sentimento d'amore per l'istituzione universitaria emergeva ogni volta che egli si trovava ad accennare alle origini dell'Università di Navarra, frutto di un vivo desiderio, a lungo accarezzato nell'intimità del suo cuore sacerdotale, e per molto tempo argomento costante della sua orazione: «L'Università di Navarra nacque nel 1952 —preceduta da vari anni di preghiera, lo dico con vera gioia— con il proposito di avviare un'istituzione universitaria in cui venissero a realizzarsi gli ideali culturali e apostolici di un gruppo di docenti che sentivano profondamente la missione dell'insegnamento»[6].
Quando dico che il Fondatore dell'Opus Dei amava l'università, intendo parlare di un sentimento personale molto profondo di Mons. Escrivá, un sentimento che si sviluppò tangibilmente in un'attività apostolica in campo universitario assai feconda di frutti; ed in quest'espressione mi riferisco anche al contributo che il suo messaggio spirituale ed il suo pensiero in questa specifica materia possono offrire all'istituzione universitaria in generale.
2. L'apostolato dell'intelligenza
Il vastissimo impegno di Mons. Escrivá nel campo della cultura, tradottosi —come accennavo— nella creazione di alcune università e nell'ispirare iniziative di vario genere, è un riflesso del particolare apprezzamento in cui egli teneva le professioni intellettuali, per il loro decisivo influsso nella società.
Sebbene insegnasse con insistenza che qualunque professione umana onesta può e deve essere concepita come strumento di santificazione e di apostolato, egli era consapevole della particolare fecondità del lavoro di coloro che, impegnandosi nelle professioni intellettuali, contribuiscono ad illuminare le menti attraverso l'influsso di un retto criterio cristiano.
Con quanta forza affermava che il maggior nemico di Dio è l'ignoranza! E da questa considerazione —che è come una diagnosi sintetica di una delle radici più profonde del processo di disintegrazione morale che travaglia ampi settori della società moderna—, Mons. Escrivá traeva conseguenze pratiche per l'attività apostolica.
«La malizia di alcuni e l'ignoranza di molti: ecco il nemico di Dio, della Chiesa»[7], leggiamo in Forgia. E nel punto successivo: «Dobbiamo fare in modo che, in tutte le attività intellettuali, vi siano persone rette, di autentica coscienza cristiana, dalla vita coerente, che impieghino le armi della scienza al servizio dell'umanità e della Chiesa»[8].
Nel libro Cammino, pubblicato nel 1939, Mons. Escrivá parla dell'importanza dell'«apostolato dell'intelligenza» e ne individua l'origine prettamente evangelica: «"Venite post me, et faciam vos fieri piscatores hominum" — venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini. — Non senza mistero il Signore impiega queste parole: gli uomini —come i pesci— bisogna prenderli dalla testa. Che profondità evangelica ha l'"apostolato dell'intelligenza"!»[9].
Cammino contiene un capitolo intitolato "Studio" (nn. 332_359), che comincia con la seguente considerazione: «A chi può essere un sapiente non perdoniamo di non esserlo» (n. 332). E' un invito assai esplicito, rivolto agli intellettuali, affinché si preparino, in virtù di un'accurata formazione scientifica, ad esercitare l'apostolato dell'intelligenza. Ma, nel corpo del capitolo, il numero 347 ci mostra con chiarezza che Cammino non si riferisce soltanto agli intellettuali: «Ti preoccupi soltanti di edificare la tua cultura. —E bisogna edificare la tua anima. —Così lavorerai come devi, per Cristo: perché regni Lui nel mondo sono necessarie persone che, con lo sguardo rivolto al cielo, si dedichino con prestigio a tutte le attività umane e, per mezzo di esse, esercitino in silenzio —con efficacia— un apostolato di carattere professionale».
3. L'università alla luce della fede
Mons. Escrivá, sin dal momento in cui cominciò a frequentare gli ambienti universitari, era consapevole della straordinaria importanza di quest'istituzione nel quadro della cristianizzazione della cultura e della società. Egli vedeva nitidamente l'influenza decisiva che essa esercita nella trasmissione delle idee, nella formazione della mentalità dei popoli. Conseguenza logica della sua concezione dell"«apostolato dell'intelligenza»" era quindi il particolare interesse che nutriva per l'università.
Questa istituzione, nata otto secoli fa, ha saputo mantenere, in versioni differenti nel tempo e nello spazio, una serie di caratteristiche peculiari, che possono essere considerate sotto un unico denominatore: l'essere allo stesso tempo una comunità di sapere (universitas scientiarum) e una comunità di persone (universitas magistrorum et scholarium). Mons. Escrivá si pone di fronte all'università così com'essa è, ne accetta le caratteristiche tradizionali e la contempla con uno sguardo pieno di fede. Questa prospettiva trascendente si traduce in una concezione dell'università che ne rispetta pienamente l'irrinunciabile autonomia, ma che, allo stesso tempo, aspira a far pulsare in essa uno spirito coerente con le esigenze dell'esistenza secolare cristiana. Una siffatta prospettiva fornisce importanti contributi alla determinazione del contenuto delle funzioni o delle finalità cui l'università deve rispondere; essa può essere di grande aiuto nel tracciare i compiti cui sono chiamati coloro che operano nell'università e nel delineare l'ambiente istituzionale della vita accademica.
4. La ricerca della verità
Compito specifico dell'università è la ricerca della verità. Essa richiede allo scienziato un lavoro tenace, che si estende a tutti i rami del sapere. L'università è perciò una comunità di saperi, sebbene non si limiti al solo impegno della ricerca, perché nell'università i ricercatori sono anche maestri o, se si preferisce, i professori sono anche ricercatori. Senza entrambi gli aspetti non esiste l'università.
Ora, per poter assolvere adeguatamente alle sue funzioni, l'università in quanto istituzione ha bisogno di una condizione previa: deve cioè godere di un certo ambito di libertà, di una certa autonomia. «L'università, come ente —affermava Mons. Escrivá—, deve avere l'indipendenza di un organo in un corpo vivo». E specificava alcune espressioni di tale autonomia: «La libertà di scelta dei docenti e degli amministratori, la libertà di elaborazione dei piani di studio; la facoltà di costituire un proprio patrimonio e di amministrarlo. In altri termini, favorire tutte le condizioni necessarie per far sì che l'università viva di vita propria. Se avrà in sé questa vita, potrà anche trasmetterla, a beneficio di tutta la società»[10].
Ma tale autonomia deve armonizzarsi con l'universalità. Ecco un'altra delle note caratteristiche di tale istituzione: «L'università deve essere aperta a tutti», sicché tutti coloro che sono veramente capaci devono poter accedere agli studi superiori, «qualunque sia la loro estrazione sociale, la situazione economica, la razza o la religione»[11]. L'apertura dell'università —il non rinchiudersi in sé stessa, il mantenersi in contatto con la società circostante e in rapporto attivo con altri centri accademici— è un'esigenza —un diritto e un dovere che le competono in modo particolare— proclamata anch'essa con grande vigore da Mons. Escrivá come Gran Cancelliere dell'Università di Navarra. I discorsi accademici che pronunciò nella città di Pamplona, in occasione del conferimento del dottorato honoris causa ad esponenti delle diverse aree della scienza provenienti da vari Paesi, costituiscono a questo proposito una preziosa eredità[12].
L'universalità dell'istituzione universitaria si esplica immediatamente nella sua apertura a tutte le scienze, in quanto essa dev'essere interessata a tutta la verità. In occasione del conferimento di dottorati honoris causa del 7 ottobre 1967, il Fondatore dell'Opus Dei disse: «La più alta missione dell'università è il servizio agli uomini, l'essere fermento per la società in cui vive: perciò essa deve ricercare la verità in tutti i campi, dalla Teologia, scienza della fede, chiamata a considerare verità sempre attuali, alle altre scienze dello spirito e della natura». Riflessione che ritroviamo in un altro suo discorso, in cui ribadisce che l'università dev'essere fedele «nelle incerte condizioni presenti, alla sua missione di servizio agli uomini, attraverso la ricerca universale della verità»[13].
Nel sottolineare il contributo reso da ogni vero progresso scientifico alla soluzione dei problemi che l'uomo deve affrontare, Mons. Escrivá non esita a riconoscere che il progresso del sapere ci avvicina a Dio: «E' veramente stupendo constatare come il Signore aiuta l'intelligenza umana nelle sue ricerche: esse necessariamente conducono a Dio, perché contribuiscono —se sono veramente scientifiche— ad attingere il Creatore»[14].
Esiste dunque un intimo legame tra fede e scienza, tra Vangelo e cultura, ha scritto Giovanni Paolo II evidenziando come la ricerca scientifica e tecnica debba essere retta dal criterio del servizio all'uomo nella totalità dei suoi valori e delle sue esigenze[15].
L'antropologia soggiacente a molti dei progetti ideologici contemporanei presenta deficienze palesi, che conducono ad una visione riduzionistica dell'uomo e, spesso, al materialismo puro e semplice. Recentemente Giovanni Paolo II ha ripreso una considerazione che costella tutto il suo magistero: lo stretto legame esistente tra antropologia ed evangelizzazione: «Nell'attuale fase storica l'evangelizzazione deve avere, come compito proprio, la verità sull'uomo, superando le diverse forme del riduzionismo antropologico»[16].
E proprio rispetto ai vari riduzionismi antropologici che concepiscono l'uomo separatamente da Dio, Mons. Escrivá affermava in uno dei citati discorsi accademici:
«Salveranno questo nostro mondo —consentitemi di ricordarlo— non coloro che pretendono narcotizzare la vita dello spirito, riducendo tutto a problemi economici o di benessere materiale, ma coloro che hanno fede in Dio e nel destino eterno dell'uomo, e sanno accogliere la verità di Cristo come luce orientatrice per l'azione e la condotta. Perché il Dio della nostra fede non è un essere lontano, che contempla impassibile la sorte degli uomini. E' un Padre che ama ardentemente i suoi figli, un Dio creatore che si è prodigato per amore delle creature. E concede all'uomo il gran privilegio di poter amare, trascendendo in questo modo la dimensione effimera e transitoria»[17].
La volontà di accogliere la verità di Cristo come luce orientatrice per l'azione e la condotta è un'aspirazione pienamente adeguata alla ricerca della verità nell'ambito delle scienze umane: una finalità che non implica alcuna minaccia per la loro legittima autonomia.
«Le scienze umane —anche queste sono parole di Mons. Escrivá—, coltivate con principi e metodi propri, ed arricchite nel confronto con la rivelazione soprannaturale, contribuiscono a risolvere i problemi umani, spirituali e temporali di tutti i tempi e di tutti i luoghi»[18].
La luce della rivelazione, accolta con fede, offre alle scienze qualcosa che esse non riescono a raggiungere da sole: la capacità di servire fino in fondo e in senso pieno l'intera umanità. La verità è l'oggetto del compito specifico dell'universitario: egli deve ricercarla senza posa, sospinto dal desiderio di conoscere sempre più profondamente la realtà; e deve amarla, facendo di essa l'ideale che segna ed informa la sua vita, senza lasciarsi influenzare da attegiamenti poco propizi ad accettare le concrete e gravi esigenze che talvolta la verità, per essere ad essa coerenti, reclama.
«L'università sa che la necessaria obiettività scientifica si oppone giustamente ad ogni neutralità ideologica, ad ogni ambiguità, a tutti i conformismi, alla codardia: l'amore alla verità impegna tutta la vita e l'intero lavoro dello scienziato. Essa sostiene il suo vigore di onestà di fronte a situazioni scomode, sempre possibili, perché a tale impegno di rettitudine non corrisponde sempre un'immagine favorevole nell'opinione pubblica»[19].
L'università che si proponga istituzionalmente di offrire un contributo cristiano allo sviluppo della cultura dovrà fare in modo che tutti i saperi convergano nel servizio disinteressato alla persona e, pertanto, alla società, sviluppando una antropologia che rispecchi un'immagine integrale dell'uomo e che «rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali ed istintive a quelle interiori e spirituali»[20]. A tale compito i ricercatori devono contribuire con l'esempio della propria vita, consapevoli del fatto che, come affermava Mons. Escrivá, «affrontare i problemi con coraggio, senza timore del sacrificio né dei compiti più impegnativi, assumendosi in coscienza le proprie responsabilità, significa rinvigorire la fede, assumere un nuovo impegno d'amore ed affidarsi con costanza alla fermezza della legge divina e alla volontà di Dio, che consente alla povera condizione umana di aprirsi sempre alla Sapienza divina, e alla sua luce di sicura speranza»[21].
5. La missione educativa dell'università
Tutto ciò che abbiamo detto implica che l'università non debba limitare il proprio impegno ad offrire agli studenti una formazione che li abiliti ad esercitare successivamente una determinata professione. Essa deve anche cercare di impartire un'educazione più generale, mirante a consentire allo studente di acquisire quelle convinzioni e quegli atteggiamenti di fondo che gli saranno utili per orientare la propria condotta individuale e sociale.
La considerazione dell'unità di vita del cristiano è una costante degli insegnamenti di Mons. Escrivá. Non è possibile separare nell'uomo la dimensione soprannaturale e quella umana, la vita dello spirito e le attività materiali, la luce della fede e le attività professionali.
Nel Decreto pontificio sull'esercizio eroico delle sue virtù, leggiamo: «Vero pioniere, già alla fine degli anni Venti, dell'intrinseca unità della vita cristiana, il Servo di Dio proiettò la pienezza della contemplazione "nel bel mezzo della strada" e richiamò tutti i fedeli ad inserirsi nel dinamismo apostolico della Chiesa, ognuno dal posto che occupa nel mondo»[22].
La connessione vitale del divino e dell'umano, caratteristica dell'antropologia cristiana presente nel messaggio che il Signore volle affidare al Fondatore dell'Opus Dei, tende a ristabilire l'unità di vita del cristiano, ricucendo quella frattura in cui il Concilio Vaticano II vede una delle principali insidie del nostro tempo: «Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo»[23]. Essa è volta a superare la rottura, che di fatto è frequente ma che non dovrebbe esistere, tra la fede e la condotta personale, tra il soprannaturale e ciò che è autenticamente umano; mira a sanare la separazione tra Vangelo e cultura, che va considerata —con parole di Paolo VI— il dramma della nostra e di tante altre epoche[24].
In tutti i suoi insegnamenti riguardanti l'educazione, Mons. Escrivá ha sempre mantenuto compresenti entrambe le dimensioni suddette, l'umana e la soprannaturale, in quanto soltanto la loro armonia consente all'educazione di raggiungero lo sviluppo integrale della persona. In questo senso affermava che l'educazione è indirizzata a formare «dei veri cristiani, uomini e donne integri, capaci di affrontare con spirito aperto le diverse situazioni della vita, capaci di porsi al servizio dei loro simili, di contribuire alla soluzione dei grandi problemi dell'umanità, e di testimoniare Cristo nella società a cui domani apparterranno»[25]. L'attività educativa non può dimenticare il destino eterno, trascendente, dell'uomo. Ecco un brano di un'intervista rilasciata dal Fondatore dell'Opus Dei:
«La religione è la più grande ribellione dell'uomo che non si rassegna a vivere come una bestia, dell'uomo che non si adatta —non si dà pace— finché non conosce e non stabilisce una comunicazione con il suo Creatore: lo studio della religione è una necessità fondamentale. Un uomo privo di formazione religiosa non è del tutto formato. Per questo la religione deve essere presente nell'università; e deve essere insegnata al livello più alto, scientifico, di buona teologia. Un'università in cui la religione è assente, è un'università incompleta: perché ignora una dimensione fondamentale della persona umana, che non esclude —anzi richiede— le altre dimensioni»[26].
La presenza della religione nell'università non si può considerare soddisfatta dal semplice inserimento di una specifica disciplina nell'ordinamento degli studi. La verità religiosa deve ispirare il senso di tutta l'attività universitaria.
«L'università tradirebbe la propria vocazione —afferma Giovanni Paolo II— se si chiudesse all'assoluto e al trascendente, poiché limiterebbe arbitrariamente la ricerca su tutta la realtà o verità e finirebbe per danneggiare l'uomo stesso, la cui aspirazione più alta è quella di conoscere il vero, il bene, il bello e di sperare in un destino trascendente»[27].
Nei suoi discorsi accademici Mons. Escrivá si sofferma a sottolineare l'importanza della formazione integrale degli studenti e la responsabilità che in proposito compete ai professori: aiutare gli studenti a forgiarsi il proprio avvenire, dice, «è un dovere che spetta a molti, ma è particolarmente impegno vostro, carissimi professori universitari. Non c'è vera università in quelle Scuole dove, alla trasmissione della cultura non va unita la formazione integrale della personalità dei giovani. L'umanesimo ellenico era già cosciente di tale ricchezza di sfumature, ma allorché —giunta la pienezza dei tempi— Cristo ha illuminato per sempre le supreme altezze del nostro destino eterno, è stato stabilito un nuovo ordine, allo stesso tempo umano e divino, nel servizio del quale l'università trova la sua massima grandezza»[28].
6. L'ambiente istituzionale della vita accademica
L'università è un'impresa comune di coloro che ne fanno parte: i professori e gli studenti, e anche il personale amministrativo e di servizio, al quale Mons. Escrivá si è sempre riferito con affetto particolare nei suoi incontri con coloro che sostengono, con il loro lavoro, lo svolgimento della vita universitaria. «La vita di questo centro universitario —disse una volta nell'Università di Navarra— dipende principalmente dall'impegno, dalla dedizione e dal lavoro seriamente compiuto dai docenti, dagli studenti, dagli impiegati, dagli uscieri, dalle benemerite donne delle pulizie. Se non fosse per questo, l'università non si sosterrebbe»[29].
E come ogni impresa, l'università deve assegnarsi obiettivi istituzionali ben determinati, indispensabili per coagulare l'impegno di tutte le sue componenti al raggiungimento dei fini dell'università. Se tali obiettivi fossero disattesi, l'università verrebbe a snaturarsi, perché in quanto istituzione essa ha le proprie regole, il proprio campo di azione e i propri valori caratterizzanti, che vanno vissuti sempre in piena libertà. La vita accademica deve costituire un ambito di convivenza colta, grazie alla quale il lavoro di tutti risulta agevolato. C'è tutto un insieme di qualità e di atteggiamenti che concorrono a determinare tale clima: ed è necessario che tutti coloro che operano nell'università lo condividano.
Caratteristica comune di tutti i membri della comunità accademica dev'essere l'impegno a svolgere con serietà e rigore la propria attività, con la dedicazione e lo sforzo necessari. Il lavoro universitario richiede —se si vogliono raggiungere gli obiettivi educativi in tutta la loro ampiezza— anzitutto un rapporto individuale, personalizzato, tra professori e studenti. La massificazione è infatti uno dei problemi che maggiormente gravano sull'università attuale. Inoltre esso richiede generosità da parte di tutti ed esige un fattivo spirito di collaborazione tra i diversi centri in cui l'università è strutturata.
Come ha ricordato recentemente Giovanni Paolo II, «sono proprie della vita universitaria la fervida ricerca della verità e la sua trasmissione disinteressata»[30]. La linfa della vita universitaria sta nell'entusiasmo per la verità, unito al comune desiderio di professori e studenti di continuare sempre ad imparare: «Mentre impariamo una cosa —ci dice Mons. Escrivá—, ne scopriamo molte altre di cui non sospettavamo l'esistenza, e che ci stimolano a continuare il lavoro senza mai dire "basta"»[31].
Nel discorso accademico del 1967 egli si rivolse ai nuovi dottori honoris causa, esortandoli ad impostare la ricerca scientifica alla luce dei dati offerti dal Magistero:
«Siete, in effetti, servitori nobilissimi della scienza, perché dedicate la vostra vita a un'avventura meravigliosa, che consiste nello sviscerare le ricchezze del sapere; e, nel solco della tradizione culturale del cristianesimo, che infonde alla vostre attività il più alto valore umano, siete spinti a comunicare in tutta generosità tali ricchezze agli studenti con la vostra attività di docenza, che è fucina di uomini, per mezzo dell'elevazione dello spirito».
In questo, come in altri testi riguardanti l'impegno degli universitari, ritroviamo l'idea di servizio, applicata in quest'ultimo caso ai professori: essi sono chiamati a non appropriarsi egoisticamente del frutto delle proprie ricerche, bensì a trasmettere con generosità agli studenti i risultati scientifici raggiunti con tanto sforzo.
Un altro aspetto fondamentale, al quale mi sono già riferito e su cui mi piace insistere, è quello che mira allo spirito di servizio con il quale deve essere svolto il lavoro universitario. L'università deve dare risposte adeguate alle nobili aspirazioni di realizzazione personale degli studenti che riempiono le sue aule. Gli allievi, d'altra parte, devono assolvere ai doveri che la società assegna loro e alle speranze in essi riposte. Traguardi che risulterebbero impossibili se l'impegno professionale dei docenti non fosse ispirato al necessario rigore, scientifico e accademico, e non stimolasse negli studenti un sano spirito di emulazione. Tale qualità tecnica del lavoro costituisce la base per l'esercizio competente di qualunque professione.
Insieme con la preparazione professionale e con lo spirito di servizio, l'attività universitaria mostra un'altra caratteristica essenziale: essa è un vero e proprio tessuto, una scuola, di convivenza umana. L'università «è la casa comune, il luogo di studio e di amicizia; il luogo in cui debbono convivere in pace persone di diverse tendenze che esprimono in ogni momento il legittimo pluralismo esistente nella società»[32], in un clima di rispetto e di libertà per tutti, in cui possano esprimersi con serenità i pareri e le opinioni personali. Educazione alla libertà, ma anche alla responsabilità personale. E' nella convivenza che si forma la persona; è lì che ciascuno apprende come, per poter esigere che la propria libertà sia rispettata, debba rispettare la libertà degli altri[33]. Insieme con rispetto per gli altri, per i loro diritti, per le loro opinioni e la loro libertà, lo spirito universitario include anche la capacità di collaborazione, che rende possibile il lavoro d'équipe, oggi indispensabili in tanti campi.
7. La responsabilità sociale dell'universitario
Mons. Escrivá insiste spesso nel dire che l'università deve contribuire al progresso umano ed affrontare perciò i problemi più disparati. Ma non è compito suo offrire soluzioni immediate a quei problemi che richiedono una valutazione prudenziale che esula dalle sue competenze.
«L'università —diceva in uno dei suoi discorsi accademici— non volge le spalle a nessuna incertezza, a nessuna inquietudine, a nessuna necessità umana. Ma non è suo compito offrire soluzioni immediate. Studiando con profondità scientifica i problemi, essa riesce ad imprimere nuovo slancio ai cuori, sprona la passività, risveglia forze addormentate e forma cittadini disposti a costruire una società più giusta. Contribuisce così, con un impegno di prospettive universali, a superare ostacoli che impediscono la mutua comprensione tra gli uomini, ad allontanare i timori per l'incerto futuro e a promuovere —con l'amore alla verità, alla giustizia e alla libertà— la vera pace e la concordia tra gli spiriti e tra le nazioni»[34].
I problemi attuali della società sono molteplici e complessi:di ordine spirituale, culturale, sociale, economico, ecc. Mons. Escrivá pensa sia necessario che la formazione universitaria abbracci tutti questi aspetti[35]. Essa deve plasmare uomini e donne capaci di raggiungere una buona preparazione tecnica, «dotata di una caratteristica che —sono parole di Mons. Escrivá— dovrebbe essere fondamentale per ogni cristiano: lo spirito di servizio, il desiderio di lavorare per contribuire al bene comune»[36].
Ne consegue che lo studio è considerato da Mons. Escrivá un lavoro come gli altri, forse addirittura più importante degli altri, per il rilievo e l'influsso sociale e culturale che è chiamato ad esercitare. Perciò «è necessario studiare... Ma non basta. Che cosa si potrà ricavare da chi si ammazza per alimentare il proprio egoismo, o da chi non persegue altro obiettivo se non quello di assicurarsi la tranquillità, da qui a qualche anno?»[37].
Rispondendo alle domande di un giornalista, Mons. Escrivá ha avuto modo di esprimere il proprio pensiero anche sui rapporti tra università e politica. Le questioni politiche, per lui, rientrano senz'altro nell'ambito della ricerca scientifica. Ho già ricordato come egli affermasse che compito dell'università è la «ricerca della verità in tutti i campi»[38]; «non è tuttavia compito suo offrire una soluzione immediata»[39] ai problemi politici. Nell'insegnamento il professore universitario deve proporre orientamenti sui grandi problemi dell'uomo, e quindi anche rispetto alla politica, col massimo rispetto per la libertà degli studenti; questi ultimi devono essere messi in condizione di «formarsi liberamente un'opinione su tutti i problemi temporali (...), e di assumersi personalmente la responsabilità del proprio pensiero e del proprio operato»[40]. L'università deve sempre mantenere una delle sue più intime caratteristiche istituzionali: l'essere un luogo di convivenza serena e di rispetto per la diversità delle opinioni dei suoi membri.
Rispondendo alla domanda del giornalista sui rapporti tra università e politica, Mons. Escrivá si serve di una distinzione fondamentale:
«Se dicendo politica intendiamo l'interesse e l'impegno per la pace, la giustizia sociale, la libertà di tutti, allora, in questo senso, tutti coloro che fanno parte dell'università, e l'università come tale, hanno il dovere di ispirarsi a questi ideali e di promuovere l'impegno per risolvere i grandi problemi della vita umana.
Se per politica invece intendiamo la soluzione concreta di un determinato problema, scartando altre soluzioni possibili e legittime, in contrapposizione a quanti propongono il contrario, allora penso che non è l'università la sede in cui debba prendersi una decisione in merito»[41].
Comportarsi secondo un diverso criterio significa correre il rischio di snaturare l'istituzione universitaria in quanto tale, perché «se l'università si trasforma in una tribuna di discussione e di decisione su problemi politici concreti, è facile che si finisca per perdere la serenità accademica e che gli studenti acquistino una mentalità faziosa»[42].
8. L'università nella nuova evangelizzazione
Nel 1960 Mons. Escrivá ricevette il dottorato honoris causa dell'Università di Saragozza, per la quale nutriva profondo affetto. Nel discorso pronunciato nell'occasione disse fra l'altro:
«La Chiesa, nel compiere il mandato di Cristo, ha saputo sempre, con eterna giovinezza, colmare di spirito evangelico ogni momento della storia e fornire risposte adeguate agli aneliti e alle aspettative dei tempi». E più avanti: «Gesù non ha vincolato la sua Chiesa a nessun mondo, a nessuna civiltà, a nessuna cultura; al contrario: come nella parabola evangelica, il lievito deve agire senza requie, "informando" una massa in continuo rinnovamento»[43].
E' ciò che verifichiamo anche al giorno d'oggi. Le attuali condizioni della società, che presenta tanti segni di scristianizzazione anche nei Paesi di più antica tradizione cristiana, esigono una nuova evangelizzazione, invocata con insistenza da Giovanni Paolo II in non pochi documenti e allocuzioni, sin dall'inizio del pontificato.
Dall'Europa sono partiti i missionari per l'evangelizzazione degli altri continenti. Il Santo Padre lo ricordava ai messicani nel 1990: «Fra due anni celebreremo un avvenimento di importanza capitale: il quinto centenario dell'incontro tra il mondo europeo e il vostro continente, il Nuovo Mondo (...). L'evangelizzazione allora iniziata è ancora in cammino, e questo quinto centenario deve essere per tutti occasione propizia per darle nuova vitalità e nuova spinta»[44].
Nel 1985, nel discorso al IV Simposio delle Conferenze Episcopali dell'Europa, il Papa, dopo aver ricordato come l'attuale ateismo pratico abbia riflessi soprattutto in campo antropologico, disse che l'uomo europeo deve spalancare le porte ai valori dello spirito. E proprio in questo contesto riprese il proprio richiamo alla seconda evangelizzazione: «L'Europa, che ad Ovest nella filosofia e nella prassi ha dichiarato talora la "morte di Dio" e nell'Est è giunta a imporla ideologicamente e politicamente, è anche l'Europa in cui è stata proclamata la "morte dell'uomo" come persona e come valore trascendente»[45].
Di tale nuova evangelizzazione si è occupata di recente un'Assemblea del Sinodo dei Vescovi per l'Europa, riunitasi a Roma dal 28 novembre al 14 dicembre 1991. Il Santo Padre l'ha definita come un avvenimento straordinario per la Chiesa, per l'Europa e per il mondo[46]. Il Pontefice l'aveva annunciata il 12 aprile 1990, a Velchrad, assegnandole il compito di riflettere attentamente sull'importanza di quest'ora storica per l'Europa e per la Chiesa, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino e dei repentini cambiamenti avvenuti nei Paesi dell'Europa centro_orientale. Gli stessi Vescovi, nella Dichiarazione finale, si riferiscono alla scristianizzazione come fenomeno che riguarda in qualche modo tutti i popoli dell'Europa[47].
Il Discorso dei Padri sinodali, pur essendo circoscritto alle regioni dell'Europa, è applicabile per analogia ad altri continenti, in cui è altrettanto necessaria una più profonda ed vasta evangelizzazione, in quanto, come disse Papa Pio XII: «E' tutto un mondo, che occorre rifare dalle fondamenta»[48].
Nella Dichiarazione finale i Padri sinodali proclamano che l'evangelizzazione deve raggiungere non solo gli individui, ma anche le culture; che la situazione culturale di ateismo pratico e di materialismo in cui si trova l'Europa implica una sfida cui dobbiamo rispondere al meglio delle nostre capacità; e per farlo «è indispensabile l'apporto degli uomini e delle donne di cultura e dei teologi in cordiale sintonia con la Chiesa». Ma avvertono che, nel quadro della nuova evangelizzazione, non è sufficiente prodigarsi per difendere i "valori evangelici" come la giustizia e la pace. Soltanto se tali valori sono annunciati come incarnati nella persona di Gesù Cristo, l'evangelizzazione si potrà dire autenticamente cristiana: i valori evangelici non possono essere separati da Cristo stesso, che ne è la fonte e il fondamento, e che costituisce il centro di tutto l'annuncio evangelico[49].
Giovanni Paolo II sottolinea il fatto che debbono essere i comuni cristiani a portare Cristo ai loro eguali: «Occorrono araldi del Vangelo, esperti in umanità, che conoscano a fondo il cuore dell'uomo d'oggi, ne partecipino gioie e speranze, angosce e tristezze, e allo stesso tempo siano dei contemplativi innamorati di Dio»; e aggiunge: «I grandi evangelizzatori dell'Europa sono stati i santi. Dobbiamo supplicare il Signore perché accresca lo spirito di santità della Chiesa e ci mandi nuovi santi per evangelizzare il mondo d'oggi»[50].
Di fronte alla crisi e alle tensioni che attraversano la nostra società, il Signore vuole uomini e donne che percorrano tutti i cammini della terra per offrire, con la propria vita e con le proprie parole, una testimonianza luminosa dell'indefettibile santità della Chiesa. Insieme a Mons. Escrivá dobbiamo convincerci che «queste crisi mondiali sono crisi di santi»[51]. Ogni cristiano deve chiedersi personalmente come può prendere parte alla ricristianizzazione della società, a cominciare dal proprio ambiente. Gli universitari, professori e studenti, devono prendere coscienza del fatto che la società e la Chiesa hanno bisogno —con urgenza vitale— della dimensione seriamente cristiana del loro lavoro.
L'insegnamento di Mons. Escrivá, che ho cercato di tratteggiare per voi, potrà aiutarvi efficacemente a contribuire, per ciò che vi spetta in quanto universitari, all'impresa evangelizzatrice che i tempi invocano e alla quale con tanta insistenza ci spinge il Santo Padre Giovanni Paolo II.
Presto potremo affidarci anche pubblicamente all'intercessione del Beato Josemaría Escrivá, affinché il Signore si serva di noi, umili strumenti, come di un fecondo lievito di santità in mezzo al mondo.
Non mi resta che esprimere di nuovo la mia gioia per aver partecipato a questo congresso, nel quale ricordate con legittima soddisfazione l'inizio dei vostri lavori, venticinque anni fa, grazie all'incoraggiamento di Mons. Escrivá.
+ Alvaro del Portillo
Prelato dell'Opus Dei
[1] Colloqui con Mons. Escrivá, Milano, 4ª ed., 1982, n. 76.
[2] Cfr. "Nuestro Tiempo", n. 127, gennaio 1965, p. 96.
[3] Colloqui, n. 76.
[4] Colloqui, n. 77.
[5] Discorso pronunciato in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Pamplona (25 ottobre 1960), "Nuestro Tiempo", n. 78, 1960, p. 627.
[6] Colloqui, n. 82.
[7] J. Escrivá de Balaguer, Forgia, Milano 1987, n. 635.
[8] Forgia, n. 636.
[9] J. Escrivá de Balaguer, Cammino, Milano 1988, n. 978.
[10] Colloqui, n. 79.
[11] Colloqui, n. 74.
[12] Si tratta di quattro discorsi pronunciati il 28-XI-1964, il 7-X-1967, il 7-X-1972 e il 9-V-1974: cfr. "Redacción", Pamplona, XI-76.
[13] Discorso accademico (9-V-1974).
[14] Discorso accademico (7-X-1972).
[15] Cfr. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Christifideles laici (30-XII-1988), n. 62.
[16] Giovanni Paolo II, Discorso di chiusura dell'Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per l'Europa (14-XII-1991), n. 3: "L'Osservatore Romano", 15-XII-1991, pp. 4-5.
[17] Discorso accademico (9-V-1974).
[18] Discorso accademico (7-X-1972).
[19] Discorso accademico (9-V-1974).
[20] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1-V-1991), n. 36.
[21] Discorso accademico (9-V-1974).
[22] Congregatio de Causis Sanctorum, Romana et Matriten., Decretum super virtutibus heroicis in causa canonizationis Servi Dei Iosephmariae Escrivá de Balaguer (9-IV-1990): AAS 82 (1990), pp. 1450-1455.
[23] Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 43.
[24] Cfr. Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, n. 20: AAS 68 (1976), p. 19.
[25] J. Escrivá de Balaguer, E' Gesù che passa, Milano, 3ª ed., 1982, n. 28.
[26] Colloqui, n. 73.
[27] Giovanni Paolo II, Mensaje al mundo universitario, desde Guatemala (7-III-1983): Insegnamenti, VI/1 (1983), p. 644.
[28] Discorso accademico (28-XI-1964).
[29] Colloqui, n. 83.
[30] Giovanni Paolo II, Cost. ap. Ex corde Ecclesiae (15-VIII-1990), n. 2.
[31] J. Escrivá de Balaguer, Amici di Dio, Milano 1978, n. 232.
[32] Colloqui, n. 76.
[33] Cfr. Colloqui, n. 84.
[34] Discorso accademico (7-X-1972).
[35] Cfr. Colloqui, n. 73.
[36] E' Gesù che passa, n. 51.
[37] J. Escrivá de Balaguer, Solco, Milano 1986, n. 526.
[38]. Discorso accademico (9-V-1974).
[39] Discorso accademico (7-X-1972).
[40] Colloqui, n. 90.
[41] Colloqui, n. 76.
[42] Colloqui, n. 77.
[43] J. Escrivá de Balaguer, Discorso pronunciato il 21-X-1960, in occasione della nomina a Dottore honoris causa da parte dell'Università di Saragozza: "Revista Universidad de Zaragoza", 37, 1960.
[44] Giovanni Paolo II, Omelia, Veracruz (7-V-1990): AAS 82 (1990), p. 1409.
[45] Discorso (11-X-1985), n. 11: Insegnamenti, VIII/2 (1985), p. 917.
[46] Cfr. Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa celebrata per gli universitari nella Basilica di San Pietro (17-XII-1991): "L'Osservatore Romano", 19-XII-1991, p. 6.
[47] Cfr. Dichiarazione, n. 3: Supplemento a "L'Osservatore Romano", 16-17-XII-1991.
[48] Pio XII, Esortazione ai fedeli di Roma (10-II-1952): AAS 44 (1953), p. 159.
[49] Cfr. Dichiarazione, n. 3.
[50] Giovanni Paolo II, Discorso al Simposio dei Vescovi europei (11-X-1985), n. 13: Insegnamenti, VIII/2 (1985), pp. 918-9.
[51] Cammino, n. 301.
Romana, n. 14, Gennaio-Giugno 1992, p. 102-113.