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La dimensione sociale della carità: l’inserimento degli emigranti e dei profughi

Pablo García Ruiz

Professore di Sociologia

Università di Saragozza (Spagna)

Nel 1967, durante una chiacchierata nella scuola madrilena Tajamar, san Josemaría ricordava le sue avventure pastorali nel quartiere di Vallecas: «Quando avevo venticinque anni, venivo spesso fra questi sopravvissuti ad asciugare lacrime, aiutare quelli che avevano bisogno di aiuto, trattare con affetto i bambini, i vecchi, i malati; e ricevevo in cambio molto affetto…, e qualche volta delle sassate»[1]. Un’altra volta, facendo orazione ad alta voce, ricordava così quegli anni: «Ore e ore dappertutto, tutti i giorni, a piedi da un capo all’altro, tra poveri che cercavano di nasconderlo e poveri miserabili, che non avevano nulla di nulla. […] E negli ospedali, e nelle case in cui c’erano ammalati, se si possono chiamare case quei tuguri... Erano persone abbandonate e malate»[2].

Mosso dal suo zelo sacerdotale, tra il 1927 e il 1931, san Josemaría fece molte visite ai malati in diversi quartieri di Madrid, collaborando all’intensa attività apostolica che sostenevano e dirigevano le Dame Apostoliche del Sacro Cuore attraverso il Patronato degli Infermi[3]. Quando non fu più il cappellano del Patronato, cercava il modo di proseguire le attività di servizio ai malati e ai poveri. Conobbe allora l’attività della Congregazione di San Filippo Neri e cominciò a collaborare alle attività che svolgeva nell’Ospedale Generale. Sempre in quel periodo decise di unirsi al suo amico sacerdote don José María Somoano, che si dedicava ai malati dell’Ospedale del Re nei dintorni di Madrid. Le Figlie della Carità, che lavorarono lì nel difficile decennio dal 1926 al 1936, testimoniarono la generosità di san Josemaría nel prendersi cura di tante anime che reclamavano la sua attenzione sacerdotale: tubercolotici inguaribili, in maggioranza giovani, si affidavano a questo sacerdote allegro, che li invitava a passare dalla speranza terrena alla sicurezza di Dio. Non aveva paura del contagio; e neppure delle incomprensioni né delle minacce anticlericali, allora assai frequenti[4].

Questo impegno di servizio e di carità ha avuto una grande importanza nella maturazione della personalità umana e soprannaturale di san Josemaría, fino al punto di riconoscere, anni dopo, che lì trovò la forza, l’impulso e la grazia per portare avanti il compito fondamentale che Dio gli aveva affidato[5].

Così spinge i primi giovani che si propongono alle incipienti attività apostoliche dell’Opus Dei a compiere opere di misericordia simili: assistere i malati, insegnare il catechismo ai bambini, frequentare le periferie per aiutare quelli che scarseggiano di mezzi. Dio invita tutti noi a vivere la carità: amare Lui e, attraverso Lui, tutti gli uomini. Ogni uomo e ogni donna sono immagine di Dio e meritano di essere amati. Dobbiamo «venerare l’immagine di Dio insita in ogni uomo»[6], specialmente in quelli che hanno più bisogno. Ce lo ha insegnato lo stesso Gesù Cristo: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

San Tommaso d’Aquino ritiene che, tra le virtù che guidano la nostra relazione con il prossimo, la misericordia sia la più grande[7]. Sant’Agostino definisce la misericordia come la compassione che prova il nostro cuore davanti alle miserie dell’altro, sentimento che ci spinge a soccorrerlo, se possiamo[8]. La misericordia è quell’aspetto della carità che si rivolge verso chi è afflitto da un male considerevole, specialmente quando non è il risultato delle sue azioni o delle sue scelte[9].

La carità è una virtù ordinata. Dev’essere orientata, prima di tutto, verso i più vicini: «Non credo al tuo interessamento per l’ultimo povero della strada – scriveva san Josemaría – se maltratti i tuoi famigliari, se resti indifferente alle loro gioie, ai loro dispiaceri e ai loro dolori»[10]. Tuttavia, la urgente ed estrema necessità costituisce un motivo più forte per aiutare il prossimo che non, anche, le esigenze dei legami familiari o di amicizia. Sono il tipo e la portata della necessità ciò che detta quello che si deve fare, e non chi ha tale necessità[11]. La carità non fa favoritismi.

La misericordia è una virtù decisiva per la crescita della vita cristiana. Lo stesso san Josemaría lasciò conferma di questo, quando scrisse nei suoi Apuntes íntimos: «Nel Patronato degli Infermi il Signore ha voluto che io trovassi il mio cuore di sacerdote»[12].

Le necessità umane cambiano con il passare del tempo e il corso della storia. Lo sviluppo economico ha reso possibile, in molte società, di ridurre la povertà e migliorare le condizioni di vita della popolazione. Eppure, altri problemi e altre necessità sorgono in ogni epoca e continuano a richiedere l’esercizio della carità.

L’era delle migrazioni

Papa Francesco ha chiamato la nostra epoca «l’era delle migrazioni»[13]. Non c’è dubbio che il flusso migratorio dei primi decenni del XXI secolo, come faceva notare Benedetto XVI, «impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale. Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale»[14].

Le migrazioni non sono un fatto nuovo. Sempre vi sono state persone che, abbandonando il loro luogo di nascita, si sono trasferite in altre città o in altri Paesi in cerca di un futuro migliore per sé stesse e per la loro famiglia. Durante la prima industrializzazione, l’esodo dalle campagne verso le zone urbane è stato molto importante, così come i problemi delle città per accogliere adeguatamente queste persone. Sorsero così tanti sobborghi come quelli che san Josemaría frequentò negli anni Venti e Trenta del XX secolo. Dopo la seconda guerra mondiale, e per due o tre decenni, milioni di persone provenienti dai Paesi del Sud Europa hanno cercato lavoro in Paesi del Nord, dove lo sviluppo economico era maggiore.

Le attuali migrazioni sono certamente un fenomeno nuovo per la sua estensione e per la sua intensità. Secondo i dati delle Nazioni Unite[15], nel 2020 erano più di 270 milioni le persone che vivevano stabilmente in un Paese diverso da quello in cui erano nate. In quell’anno l’Europa accoglieva 82 milioni di migranti internazionali. A causa soprattutto della immigrazione, dal 2009 al 2019 è aumentata la popolazione di Paesi come la Norvegia (12%), la Svizzera (12%) o la Svezia (8%). In Germania vivevano 13 milioni di immigranti, nel Regno Unito 10 milioni, in Francia 8 milioni, in Italia e in Spagna circa 6 milioni. In termini proporzionali, il Paese europeo che aveva una percentuale maggiore di immigranti in relazione alla sua popolazione era la Svizzera (29%), seguita da Svezia (20%), Austria (19%) e Belgio (17%).

Anche in altre zone del mondo l’immigrazione è un fenomeno importante. Nel 2020 negli Stati Uniti sono stati registrati più di 50 milioni di immigranti, che rappresenta un po’ più del 15% della sua popolazione. In quell’anno in Sudafrica vivevano 4,2 milioni di immigranti, il 7,2% della sua popolazione totale; in Costa d’Avorio 2,5 milioni, ossia il 10% della sua popolazione; in Turchia sfioravano i 6 milioni, mentre in Arabia Saudita superavano i 13 milioni, e cioè il 38% della sua popolazione. I Paesi dell’America del Sud, nel loro insieme, hanno ricevuto 9 milioni di immigranti nello stesso anno in cui da loro partivano 17 milioni di emigranti.

La grande maggioranza di persone che migrano in altri Paesi lo fanno per motivi relativi al lavoro, alla famiglia o agli studi. Per la maggior parte, questi processi migratori non sono causa di problemi né per gli emigranti né per i Paesi che li accolgono. Tuttavia non poche persone abbandonano le loro case e il loro Paese per altri motivi, imperiosi e a volte tragici, come guerre, persecuzioni o disastri naturali.

Sempre secondo dati delle Nazioni Unite, nel 2020 c’erano 26 milioni di persone rifugiate in altri Paesi, la metà delle quali minori di 18 anni, a causa di conflitti armati nei loro Paesi d’origine. Le guerre in Medio Oriente hanno causato un elevato numero di profughi, prima in Irak e poi in Siria, che hanno trovato rifugio nei Paesi confinanti. Così, nel 2020 in Libano c’erano 156 profughi per ogni 1.000 abitanti; in Giordania, 72 per mille; in Turchia, 45 per 1.000. In altre parti del mondo situazioni di violenza estrema, di grave instabilità politica o economica, così come eventi climatici imponderabili o catastrofi naturali, hanno provocato lo spostamento di milioni di persone all’interno dei propri Paesi o verso Paesi terzi che li hanno accolti, come Uganda (1,2 milioni), Etiopia (1 milione), Kenya (400.000), Colombia (1 milione), Perù (0,5 milioni). In Europa, dalla crisi dei profughi del 2015, la Germania ha ricevuto 1,5 milioni di persone provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan; la Francia quasi 400.000 e la Svezia 300.000. A questi si sono aggiunti più recentemente i numerosi profughi per la guerra in Ucraina e in altri luoghi del mondo.

I motivi per emigrare sono, dunque, assai diversi, come lo sono le condizioni di vita di quelli che lo hanno fatto. Le conseguenze per le società di origine e di destinazione sono anch’esse molto diverse, come del resto le esigenze di attenzione, cura e accoglienza per ognuno di loro.

Le nuove necessità e le nuove opportunità

Di solito coloro che decidono di emigrare hanno un livello educativo e delle competenze sociali di livello maggiore che non il resto delle loro comunità di origine, e questo fa pensare anche a una probabilità più alta che non rimangano passivi nei Paesi di destinazione. Spesso diventano dei tramiti di unione, dei canali per la conoscenza reciproca e il progresso condiviso tra le due società[16]. Aiutano le loro famiglie di origine con rimesse economiche e scambi culturali. Danno un loro contributo nel luogo di destinazione, fra l’altro, svolgendo un loro lavoro, pagando le tasse e i contributi sociali, con il risparmio e il consumo, con eventuali attività imprenditoriali e con la generazione di capitali sociali.

Le necessità degli immigranti, inoltre, sono molto varie, in base alla loro situazione. I profughi e le persone che si sono spostate, pur essendo una piccola percentuale degli emigranti, sono quelli che hanno più bisogno di assistenza e di appoggio perché hanno dovuto abbandonare le loro case e le loro proprietà quando sono fuggiti dai loro luoghi di origine. Sono particolarmente vulnerabili anche quegli immigranti che si trovano in una situazione giuridica irregolare, sia perché sono entrati nel Paese che li ha accolti senza i permessi richiesti o perché questi sono scaduti. Particolarmente bisognose di aiuto sono quelle persone che sono rimaste coinvolte nelle reti delittuose di tratta delle persone. La grande maggioranza degli immigranti non si trova in tali situazioni di vulnerabilità; tuttavia si trova di fronte a problemi specifici che si traducono in problemi quotidiani.

I migranti, come ricorda Papa Francesco, «sperimentano la separazione dal proprio contesto di origine e spesso anche uno sradicamento culturale e religioso»[17]. In genere quelli che migrano in un altro Paese hanno una conoscenza relativamente scarsa della società nella quale arrivano. Per molti, la prima barriera è costituita dalla lingua. Non avere una sufficiente competenza linguistica rende difficile cavarsela personalmente anche nelle situazioni ordinarie: come comprendere e farsi comprendere nel lavoro, in una visita medica, al supermercato, nelle operazioni amministrative, nelle riunioni nelle scuole dei figli, nei rapporti quotidiani con gli altri e nel fare amicizie al di là del proprio gruppo linguistico. Anche con una sufficiente conoscenza della lingua, gli immigranti arrivati da poco tempo di solito mancano delle reti primarie di appoggio, di parenti e di conoscenti, ai quali rivolgersi in caso di difficoltà. Compaiono allora reti sociali sostitutive, composte abitualmente da immigranti della stessa origine, che facilitano la conoscenza e l’accesso a importanti risorse, ma che nello stesso tempo rischiano di inibire l’inserimento nella società di accoglienza. Molti immigranti riescono a svolgere i loro progetti di vita, approfittando delle occasioni lavorative, educative e sociali che vengono loro offerte. Tuttavia, non sono pochi quelli che si trovano in mancanza di occasioni e sono i primi a scivolare nella crisi, finendo tra i disoccupati o in impieghi precari e mal pagati, poco adeguati alla loro qualifica professionale.

I giovani migranti, scriveva Benedetto XVI, «sono particolarmente sensibili alla problematica costituita dalla cosiddetta “difficoltà della doppia appartenenza”: per un verso, sentono vivamente la necessità di non perdere la cultura di origine mentre, d’altra parte, nasce in loro il comprensibile desiderio di inserirsi nella società che li accoglie»[18]. Testimonianze di questa realtà non mancano in un gran numero di forum online:

«Come figlia di due immigranti ritengo che debba lavorare il doppio dei miei amici di famiglie che vivono qui da generazioni, semplicemente per dimostrare ai miei genitori che è valsa la pena venire in questo Paese, fare quel viaggio e cominciare una nuova vita da zero. Essere una figlia di immigranti significa vivere in equilibrio fra due culture diverse. Da bambina, e poi da adolescente, non mi è stato facile accettare che appartenevo a questi due mondi diversi e tanto opposti fra loro»[19].

Per alcuni giovani questa dualità conduce a un contrasto con i genitori, che rimangono ancorati alla loro cultura, mentre i figli fanno propri, con grande rapidità, i loro nuovi contesti sociali. Anche altri giovani, studenti di altri Paesi, che sono lontani da casa, spesso si sentono soli, sotto la pressione dello studio, a volte oppressi dalle difficoltà economiche.

Una sfida sociale e politica

I Paesi di accoglienza sono consapevoli dei problemi che sorgono come conseguenza dei flussi migratori e già da qualche decennio hanno cominciato ad avviare alcune politiche pubbliche e sociali per tentare di affrontarli. La migrazione è diventata una questione politica di prim’ordine, nella quale si intrecciano questioni relative ai diritti umani, allo sviluppo economico e alla geopolitica a livello nazionale, regionale e internazionale. Inoltre, l’immigrazione sta generando polemiche sociali e mediatiche in alcune delle società che accolgono. Sentimenti contrari agli immigranti compaiono nella retorica politica e alimentano le richieste di ridurre gli ingressi e di rendere più severe le condizioni di accoglienza.

Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa constata che, nei Paesi più sviluppati, spesso l’immigrazione «è considerata come una minaccia agli alti livelli di benessere raggiunti grazie a decenni di un’elevata crescita economica», e tuttavia asserisce che, adottando sistemi adeguati, «l’immigrazione può essere una risorsa più che un ostacolo per lo sviluppo» (n. 297).

Papa Francesco ha osservato ripetutamente che l’atteggiamento di rifiuto dell’immigrazione «costituisce un segnale di allarme, che ci avverte della decadenza morale che rischiamo se continuiamo a dare spazio alla cultura dello scarto». Il Santo Padre non smette di richiamare l’attenzione sul rischio che i membri delle società sviluppate si disinteressino dei problemi e delle sofferenze dei migranti, come se l’unico responsabile fosse lo Stato, come se l’approvazione di certe leggi fosse sufficiente, come se potessimo considerare alcune situazioni come impossibili o senza soluzione. Con il suo primo viaggio, nel 2013, al centro di accoglienza dell’isola di Lampedusa, cercò di smuovere le coscienze:

«Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?»[20].

Ora che è trascorso del tempo, muoiono ancora, annegate nel Mediterraneo, più di duemila persone ogni anno nel tentativo di raggiungere in fragili imbarcazioni le coste dell’Europa[21].

La missione della Chiesa ha una dimensione pubblica, profetica, irrinunciabile, che rispetta l’autonomia della sfera politica ma non circoscrive la propria azione all’ambito del privato, né si limita alle attività di assistenza e di educazione. La Chiesa «non può e non deve neanche restare ai margini nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di risvegliare le forze spirituali che possano fecondare tutta la vita sociale»[22]. D’accordo con questa missione, esorta le istituzioni dei Paesi che ricevono gli immigranti a «vigilare con cura perché non si diffonda la tentazione di sfruttare i lavoratori stranieri privandoli dei diritti garantiti agli altri lavoratori»[23]. In attesa che si procurino maggiori possibilità di lavoro nei luoghi di origine e si regolino i flussi migratori secondo criteri di equità e di equilibrio, «gli immigranti debbono essere accolti in quanto persone e aiutati, insieme alle loro famiglie, a integrarsi nella vita sociale»[24].

Questa politica richiede una sincera collaborazione tra i Paesi di provenienza e quelli di destinazione degli emigranti, accompagnata da normative internazionali adeguate, «nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati»[25]. Non si deve trattare di un’accoglienza indiscriminata, ma si deve procedere sulla base di meccanismi che garantiscano il bene comune tanto del Paese che accoglie, quanto degli immigranti. Negli ultimi anni sono sorte alcune iniziative incoraggianti, come il Patto Mondiale per la Migrazione Sicura, Ordinata e Regolare, promosso nel 2018 dalle Nazioni Unite[26] per ottenere una maggiore collaborazione internazionale e migliorare il coordinamento dei flussi migratori.

Sfide pastorali provenienti dalla immigrazione

Per stimolare la collaborazione con gli agenti sociali e politici, dare impulso all’attenzione pastorale ai migranti ed evitare che siano esclusi o ignorati, Papa Francesco ha avviato nel 2017 la Sezione Migranti e Rifugiati, un dipartimento della Curia vaticana la cui missione è quella di aiutare i vescovi e tutti quelli che assistono le persone vulnerabili in movimento. Nello stesso tempo ha invitato la Chiesa Universale a occuparsi dei profughi causati da conflitti, persecuzioni, disastri naturali e povertà estrema, di coloro che fuggono in cerca di sicurezza, di quelli che non riescono a proseguire il loro viaggio, delle vittime della tratta.

I rifugiati e le persone vittime della tratta occupano un posto privilegiato nel cuore di Papa Francesco. Lo dimostrava nella Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2020: «Nella fuga in Egitto il piccolo Gesù sperimenta, assieme ai suoi genitori, la tragica condizione di sfollato e profugo, segnata da paura, incertezza, disagi. Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di famiglie possono riconoscersi in questa triste realtà. [… ]. In ciascuno di loro è presente Gesù, costretto, come ai tempi di Erode, a fuggire per salvarsi. Nei loro volti siamo chiamati a riconoscere il volto del Cristo affamato, assetato, nudo, malato, forestiero e carcerato che ci interpella»[27]. «La Chiesa contempla questo mondo di sofferenze e di violenza con gli occhi di Gesù, che si commuoveva davanti allo spettacolo delle moltitudini che andavano erranti come pecore senza pastore»[28]. Come può agire la Chiesa se non ispirandosi all’esempio e alle parole di Gesù Cristo? La risposta del Vangelo è la misericordia (Lc 6, 36).

L’azione misericordiosa della Chiesa è multiforme. In ogni diocesi sono numerose le attività che, attraverso parrocchie, associazioni e istituzioni, portano avanti iniziative con la speranza, il coraggio e la «immaginazione della carità»[29]. Non si tratta di calare dall’alto programmi di assistenza sociale, ma di accogliere, promuovere e integrare, percorrendo insieme un cammino[30]. A parte l’aiuto materiale, si tratta di offrire un sostegno sinceramente fraterno, che aiuti ad affrontare i rispettivi problemi, promuovendo la loro dignità di persone[31]. Come esorta Papa Francesco, si tratta di «vedere nel migrante e nel profugo non solo un problema, ma un fratello e una sorella che debbono essere accolti, rispettati e amati»[32].

Quando si riceve di cuore una persona diversa, le si permette di continuare a essere sé stessa e le si dà la possibilità di una nuova crescita. È importante valutare il contributo che gli immigranti possono dare al benessere e al progresso di tutti. È necessario stabilire una comunicazione, scoprire le ricchezze di ciascuno, apprezzare quello che ci unisce e considerare le differenze come delle opportunità per la crescita nel rispetto reciproco. Occorre un dialogo paziente e fiducioso, perché le persone, le famiglie e le comunità possano trasmettere i valori della propria cultura e accogliere quello che c’è di buono nell’esperienza degli altri[33].

La presenza degli immigrati e dei profughi rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali dell’esistenza cristiana che corrono il rischio di assopirsi in uno stile di vita pieno di comodità. A volte, dinanzi a questo invito la prima reazione è di timore, di dubbi su come agire. Si tratta di una reazione naturale, umana, davanti a ciò che è diverso o sconosciuto, davanti a ciò che consideriamo rischioso, forse pericoloso, possibile origine di inganni o di malintesi, del fatto che alcuni si possano approfittare della nostra buona volontà. Altre volte il timore è dovuto a una mancanza di preparazione, a non sapere come aiutare. Il problema è «quando questi dubbi e questi timori condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto di renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro»[34].

La misericordia ci porta, anzitutto, a riconoscere l’altro come prossimo, come membro di una stessa comunità. Perciò avere misericordia con gli altri vuol dire estendere i legami di comunità fino a includere questi altri in tali relazioni. E, a partire da quel momento, preoccuparci di loro come ci preoccupiamo degli altri membri della nostra comunità[35]. La Chiesa si comporta così nel promuovere gruppi e associazioni, stimolati da parrocchie, organizzazioni e istituzioni diverse, dove è possibile l’incontro. Insieme ad altri agenti sociali, includendo le associazioni di migranti, rifugiati e altri destinatari di sostegno, si lavora congiuntamente alla nascita delle soluzioni, mentre si tessono reti di collaborazione in termini di uguaglianza e di rispetto, dove nascono «circuiti di doni reciproci»[36]. Si aprono così, per i comuni cristiani, alcune possibilità di partecipazione che li aiutano a vincere i timori, i dubbi e le incertezze.

A questo si riferiva san Josemaría nella tertulia del 1967 già ricordata, quando diceva: «Oggi per me questo è un sogno, un sogno benedetto, che vivo in tanti quartieri estremi di grandi città, dove trattiamo la gente con affetto, guardandola negli occhi, in faccia, perché siamo tutti uguali». Parlava, prima di tutto, di Tajamar, la scuola che aprì le porte negli anni Cinquanta in un quartiere periferico di Madrid, dove allora non esisteva nessun centro educativo di insegnamento medio. C’erano più di dodicimila bambini non scolarizzati e i dintorni erano discariche a cielo aperto e baracche. Comunque, in queste parole san Josemaría includeva anche altri progetti educativi e sociali che, col suo impulso, stavano iniziando il loro percorso nei luoghi dove l’Opus Dei andava svolgendo il suo lavoro. Così, grazie all’impulso congiunto dei fedeli dell’Opera, dei cooperatori, degli amici e degli stessi destinatari di queste attività, comparvero un po’ alla volta diverse iniziative destinate a migliorare le opportunità e a elevare le condizioni di vita di persone e di comunità socio-economicamente vulnerabili o meno abbienti.

L’impulso di san Josemaría: l’immaginazione della carità

Durante la sua vita san Josemaría diede impulso, in posti molto diversi tra loro, a numerose iniziative dirette a persone bisognose e vulnerabili, tra le quali si trovavano anche immigranti e profughi. Sorsero così alcune opere di apostolato corporativo a sostegno di bambini, giovani e adulti sotto forma di opportunità di crescita accademica e personale; abilitazione professionale in diverse mansioni nelle città e nelle zone rurali; educazione alla gestione domestica e attenzione alla salute; assistenza medica, sostegno spirituale; e, soprattutto, la capacità di mobilitare risorse all’interno e al di fuori delle comunità di appartenenza per adattare continuamente le attività alle necessità e alle capacità dei destinatari.

«L’Opus Dei – diceva san Josemaría – deve essere presente dove c’è povertà, dove c’è mancanza di lavoro, dove c’è tristezza, dove c’è dolore, in modo che il dolore sia sopportato con gioia, in modo che la povertà scompaia, in modo che non manchi il lavoro – perché formiamo la gente ad averlo –, in modo che mettiamo Cristo nella vita di ciascuno, nella misura in cui voglia, perché siamo molto amici della libertà»[37].

In una delle sue omelie san Josemaría, grazie al suo amore alla libertà, proclamava: «Non devo, non è mio compito, proporvi le soluzioni pratiche di questi problemi; però, come sacerdote di Cristo, è mio dovere ricordarvi ciò che dice la Sacra Scrittura»[38]. Invitava così a lasciarsi coinvolgere con intelligenza e responsabilità personale in attività di solidarietà, di carità, di misericordia, a favore di quelli che Dio ha posto vicino a noi, soprattutto i più bisognosi. I suoi insegnamenti hanno portato frutto, non solo per la crescita di opere di apostolato corporativo, ma forse soprattutto per le numerose iniziative di persone che – fedeli o no dell’Opus Dei – accolgono il suo invito e cercano di metterlo in pratica.

In generale, le attività ordinarie delle persone comuni non sono conosciute al di là di una cerchia ristretta. Tuttavia, nell’epoca delle reti sociali è possibile far arrivare le parole e le azioni più lontano e con maggiore intensità. La pagina web dell’Opus Dei offre testimonianze di persone comuni che cercano di vivere lo spirito dell’Opera nella loro vita ordinaria. Alcune volte si tratta di opere che dimostrano la «creatività della carità» propria del cristiano. Sono esempi correnti che illuminano il cammino ad altri, e in un modo amabile ci ricordano che Dio ci chiama a prenderci cura gli uni degli altri, in particolare dei più bisognosi. Tra questi, oggi, si trovano, indubbiamente, gli immigranti e i profughi.

Per esempio, alcuni studenti universitari e giovani professionisti di Londra raccontano che hanno dedicato un paio di fine settimana per dare aiuto in un campo di profughi situato a Calais. L’idea è sorta durante un seminario organizzato dalla Caritas in cui diverse parrocchie e istituzioni hanno presentato iniziative di solidarietà. Durante il primo viaggio il gruppo è stato inviato a «Utopia 56», un nuovo campo costruito a Dunkirk e gestito da Medici Senza Frontiere, dove hanno aiutato a montare piccole abitazioni in legno occupate da curdi. Nel secondo fine settimana si sono recati a «La Jungla», un altro campo per profughi, più precario ed etnicamente diverso dal precedente. Questa volta hanno dato una mano nella distribuzione di materiali e nella pulizia del campo. Hanno dedicato tutta la domenica a raccogliere spazzatura, portando via ogni tipo di rifiuti accumulati. Trascriviamo una breve parte dell’articolo:

«Il compito era scoraggiante, e uno da solo avrebbe abbandonato immediatamente il lavoro; ma il vedere l’impegno profuso da altri volontari ci ha dato il coraggio per continuare finché la montagna di spazzatura un po’ per volta è finita con lo scomparire. La carità è contagiosa. Nessuno avrebbe immaginato che impiegare un fine settimana a ripulire un campo profughi desse tanta gioia e gratitudine a un gruppo di giovani professionisti e di studenti»[39].

Un’altra storia: in un paese dell’Andalusia decine di immigranti lavorano per alcuni periodi in campagna. Molti di loro dormivano all’aperto, senza un posto dove proteggersi dal freddo. Altri vivevano ammucchiati. Da alcuni anni gli abitanti di questo paese si sono messi d’accordo in modo che tutti possano dormire sotto un tetto. Il problema era serio: gli imprenditori hanno bisogno di assumere mano d’opera, ma non esisteva una infrastruttura in cui questi immigranti potessero alloggiare. D’altra parte si contavano settecento case vuote per decessi o trasferimento degli abitanti nella capitale, ma i proprietari di queste case non volevano affittarle: non si fidavano degli immigranti. C’era un problema di alloggi e di case vuote, ma quello che mancava era la fiducia. Una abitante del paese che viveva nella capitale, ma tornava spesso in paese per vedere il padre malato, prese l’impegno di trovare una soluzione. Ebbe colloqui con gli imprenditori e con i proprietari delle case. Con l’appoggio di una fondazione, della quale lei stessa è volontaria,

«andarono a cercare i proprietari delle case e li rassicurarono che non sarebbe successo niente se avessero dato in affitto la loro casa. L’iniziativa ebbe successo perché, oltre alla garanzia della fondazione, si poteva contare sull’appoggio del Municipio, che da allora fornisce mobili e quanto necessario per rendere abitabili le case. Gli imprenditori si impegnarono con i proprietari delle case a far fronte a qualsiasi eventuale problema, conteggiandolo nei salari dei lavoratori stagionali. Tutti erano in tal modo interessati a far funzionare la cosa. Molti vicini, contagiati dallo spirito di collaborazione, hanno regalato mobili, offerto indumenti o fornito termosifoni agli immigrati. Io sono dell’Opus Dei e lì ho imparato che le persone sono importanti in corpo e anima. A me importa molto che una persona riposi, che sia ben trattata, come uno dei tanti componenti della popolazione. Ecco perché, quando sono venuta qui e mi sono accorta del problema, mi sono data da fare per collaborare»[40].

Hanno iniziato con solo cinque case alle quali negli anni successivi se ne aggiunsero altre. La fondazione ha assecondato l’iniziativa contribuendo con alcuni volontari, che da allora mettono in contatto gli uni con gli altri e sovrintendono a tutto il processo. Il problema sembra risolto e con tale successo che altri municipi hanno chiesto consiglio su come affrontare da loro questa stessa situazione.

Ancora una storia: una coppia di coniugi francesi ricorda che un mese, in agosto, ricevettero una telefonata di un sacerdote amico che confidava la seria situazione in cui versavano un centinaio di cristiani iracheni, profughi ad Arbil, la capitale del Kurdistan, dopo essere fuggiti una notte dalle loro case, lasciando sul posto tutte le loro cose. Stava cercando in Francia alcune famiglie che li volessero accogliere. La situazione era tragica e rimasero seriamente impressionati per questa telefonata di soccorso. Tuttavia, ricordano,

«eravamo un po’ restii ad accoglierli: abbiamo sette figli, la casa non è grandissima…, abbiamo soppesato i pro e i contro e ci siamo resi conto che la nostra comodità ne avrebbe sofferto. Il nostro amico sacerdote stava cercando un posto che potesse ricevere nove famiglie. Mentre noi eravamo ancora perplessi, alcuni miei parenti avevano già accettato di ricevere un gruppo. Vedendo il loro esempio ci siamo detti che non potevamo continuare a preoccuparci. I nostri figli più grandi, di 15 e 14 anni, ci hanno incoraggiato ad accettare. Potevamo organizzare la casa in altro modo e ricavare gli spazi necessari. Finora l’esperienza è stata straordinaria. Bassam e Raghad e i loro tre figli sono arrivati poco dopo. Naturalmente essi non parlano francese, e tra noi comunichiamo con un po’ di inglese. Pochi giorni dopo i figli cominciarono ad andare a scuola e i genitori a studiare il francese e a cercare lavoro. La nostra vita procede bene grazie alla loro grande delicatezza. Non ci sono mai state lamentele e quando sorgono piccole difficoltà lo spirito dell’Opus Dei, del quale entrambi siamo membri, ci aiuta a scoprire Dio nei piccoli problemi di ogni giorno e ad andare avanti con buonumore»[41].

Ben lontani dall’individualismo oggi dominante nella società, questi racconti lasciano trasparire una volontà di servizio e una capacità di convivere con persone che, come tali, meritano rispetto, comprensione, vicinanza. Come diceva san Josemaría, «convincetevi che unicamente con la giustizia non risolverete mai i grandi problemi dell’umanità». La dignità della persona richiede di più: la carità, che è come un andare oltre la giustizia.

Lo spirito dell’Opus Dei invita a vivere la carità nelle cose ordinarie: nel lavoro, nel riposo, nella vita familiare, nel quartiere, tra gli amici e i concittadini. Per vivere la dimensione sociale della carità, le persone che seguono questo spirito si avvalgono dell’aiuto delle opere corporative di apostolato, e anche delle parrocchie, delle associazioni e delle istituzioni della Chiesa e della società civile che, con una dedizione professionale, demoliscono muri, gettano ponti e aprono canali di collaborazione per tutti, secondo le proprie possibilità. Queste possibilità possono essere accogliere una famiglia di profughi in grande necessità; promuovere l’affitto di appartamenti per operai stagionali; dedicare un fine settimana a lavori di pulizia o, invece, giocare tutti insieme a calcio, conversare al supermercato, condividere un’attività commerciale, cercare borse di studio, fare catechesi, o mille altre cose. Accogliere l’immigrante, chi è arrivato di recente, colui che è vulnerabile, significa anche trattarlo come uno dei tanti, renderlo partecipe della propria quotidianità, collega di lavoro, convivente nel quartiere, amico nella scuola, voce nella conversazione.

[1] San Josemaría, Appunti di una riunione familiare, 1-X-1967, in Obras XII-1967, p. 26 (Archivio Generale della Prelatura, Biblioteca, P03).

[2]San Josemaría, “I cammini di Dio”, ne In dialogo con il Signore, Ares, Milano 2019, p. 433.

[3] Julio González-Simancas, “San Josemaría entre los infermos de Madrid (1927-1931)”, Studia et Documenta 2 (2008), pp. 147-148.

[4] Ana Sastre, Tiempo de Caminar, Rialp, Madrid 1989, p. 112.

[5] Cfr. San Josemaría, “I cammini di Dio”, ne In dialogo con il Signore, Ares, Milano 2019, pp. 433-434.

[6] San Josemaría, Amici di Dio, n. 230.

[7] Cfr. San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q. 30, a. 4.

[8] Cfr. Sant’Agostino, La città di Dio, libro IX, C5, ML 41, 261.

[9] Cfr. San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q. 30, a. 1.

[10] San Josemaría, Amici di Dio, n. 227.

[11] Cfr. San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q. 30, a. 3.

[12] San Josemaría, Apuntes íntimos, n. 731, citato in J. González-Simancas, op. cit., p. 154.

[13] Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 2017.

[14] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, n. 62.

[15] OIM, Informe sobre las Migraciones en el Mundo, 2020.

[16] Amin Maalouf, El desajuste del mundo, Alianza, Madrid 2010, pp. 282-298.

[17] Papa Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti, n. 38.

[18] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 2008.

[19] Un ampio elenco di racconti si può trovare, per esempio, nelle pagine web I am an immigrant, https://www.iamanimmigrant.com...

[20] Papa Francesco, Omelia, 8-VII-2013.

[21] OIM, Relazione sulle Migrazioni nel Mondo 2020, p. 101.

[22] Papa Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti, n. 276.

[23] Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 298.

[24] Idem.

[25] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, n. 62.

[26] https://www.ohchr.org/es/migra...

[27] Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2020.

[28] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2006.

[29] San Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, n. 50.

[30] Cfr. Papa Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti, n. 129.

[31] Cfr. San Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, nn. 48-49.

[32] Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2019.

[33] Cfr. Papa Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti, nn. 133-134.

[34] Papa Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti, n. 41.

[35] Cfr. Alasdair MacIntyre, Animales Racionales y Dependientes, Paidós, Barcellona 2001, pp. 123-125; cfr. anche John Haldane, Practical Philosophy: Ethics, Society and Culture, St. Andrews 2011, cap. 3.

[36] Pierpaolo Donati, Más allá del multiculturalismo, Ed. Cristiandad, Madrid 2017, p. 221.

[37] San Josemaría, Appunti di una riunione familiare, 1-X-1967, in Obras XII-1967, p. 26 (Archivio Generale della Prelatura, Biblioteca, P03).

[38] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 167.

[39] https://opusdei.org/en/article... (data di consultazione: 26-IV-2021).

[40] https://opusdei.org/es-es/arti... (data di consultazione: 26-IV-2021).

[41] https://opusdei.org/es-es/arti... y-raghad-bienvenidos-a-vuestra-casa/ (data di consultazione: 26-IV-2021).

Romana, n. 77, Luglio-Dicembre 2023, p. 257-269.

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