envelope-oenvelopebookscartsearchmenu

Intervento della sottosegretaria del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Gabriella Gambino, nella seconda riunione dei responsabili delle Conferenze Episcopali per la pastorale delle persone con disabilità (Roma, 6-XII-2022)

Oggi abbiamo qui con noi i responsabili di 15 Conferenze Episcopali che da qualche tempo hanno iniziato nei rispettivi contesti geografici un’attività sistematica specificamente dedicata nella pastorale della Chiesa alle persone disabili. Un lavoro di grande importanza: se è vero – come leggiamo nell’introduzione del documento consegnato al Santo Padre lo scorso mese di settembre da alcune persone minorate nel quadro del processo sinodale organizzato dal nostro Dicastero e dalla Segreteria Generale del Sinodo – che «il Signore ha assunto in Sé stesso tutto, ma veramente tutto quello che appartiene all’umanità concreta e storica, in tutte le sue possibili declinazioni, [...] inclusa la minorazione», la dedicazione e l’apertura della Chiesa alle persone minorate sono indispensabili per una Chiesa che vuol essere concretamente unita, consapevole di sé stessa, della sua ricchezza e delle sue possibilità.

Ogni battezzato, grande o piccolo che sia, in qualunque condizione, con la sua vita ha ricevuto da Dio una straordinaria missione da compiere. I fedeli laici, «attraverso il battesimo – cito di nuovo l’introduzione del documento sinodale – [...] resi partecipi, a loro modo, della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, esercitano nella Chiesa e nel mondo la missione di tutto il popolo cristiano [...]. Lì sono chiamati da Dio a contribuire [...] alla santificazione del mondo [...], rendendo così Cristo manifesto davanti agli altri, soprattutto mediante la testimonianza della loro vita». Penso, in questo momento, non solo a quelli che hanno menomazioni e che possono ancora partecipare attivamente alla vita della Chiesa, ma anche, in particolare, a quelle famiglie nelle quali si annuncia la nascita di un bambino con gravi menomazioni, in molti casi un bambino con una menomazione terminale, che non ha voce e non potrà partecipare alla vita attiva della Chiesa; o alle innumerevoli famiglie che accompagnano nel suo cammino esistenziale un figlio, un coniuge, un genitore gravemente minorato. La vita stessa di queste persone è una voce dell’amore infinito di Dio e manifesta Cristo al mondo. Non a parole né in teoria, ma concretamente, con la loro vita, con il loro stare tra noi partecipano alla comunione della Chiesa.

Il recente cammino sinodale, al quale ha potuto partecipare un piccolo gruppo di persone minorate, così come le campagne che il nostro Dicastero va promuovendo da due anni per risvegliare e fare attecchire una pastorale delle persone minorate, protagoniste e corresponsabili delle Chiese particolari, hanno contribuito a mettere in rilievo questo aspetto fondamentale.

Si tratta di un magistero della fragilità – come lo ha definito Papa Francesco nella recente Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità – che ci ricorda saggiamente una condizione iscritta nella nostra natura umana, in quanto la fragilità è una nostra comune condizione antropologica, che riguarda tutti e ciascuno di noi e non loro soltanto.

Perciò è importante che coloro che hanno il dono della consapevolezza della nostra fragilità comune si pronuncino anche per i più fragili che non possono esprimersi, per quelli che la «cultura dello scarto» continua a emarginare e a disdegnare: penso, ancora una volta, ai bambini più piccoli e alle loro famiglie, ai bambini che sono in attesa di nascere con gravi menomazioni, ma anche ai bambini con disabilità che non hanno il calore di una famiglia e hanno bisogno di essere accolti da una madre e un padre adottivi che si preoccupino di loro. Penso a quelli che non sono autonomi, a quelli che non sono nelle condizioni di interagire con il mondo esterno, che hanno bisogno di una assistenza continua, ma che fanno parte della Chiesa, ai quali è possibile inviare un messaggio o fare una visita di speranza e di gioia. Penso alle loro famiglie, che hanno bisogno di sentirsi appoggiate, non solo materialmente, ma anche spiritualmente: per loro occorrono anche procedure competenti e diligenti di sostegno spirituale, e non solo di solidarietà.

Infatti, la pastorale delle persone con disabilità non può essere separata dalla pastorale della famiglia. Sia perché in molti contesti geografici del mondo le famiglie hanno bisogno di una assistenza pedagogica per imparare ad accogliere e accompagnare i loro figli, genitori, coniugi e fratelli disabili, sia perché spesso hanno bisogno di un sostegno spirituale e di una attenzione pastorale nella quale essi possano anche sentirsi protagonisti, per non essere ricettori passivi di servizi decisi altrove.

Come è stato messo in evidenza ripetutamente nel corso dell’Anno «Famiglia Amoris Laetitia», le famiglie – penso in particolare alle famiglie nelle quali è presente una persona con disabilità – sono il nucleo della Chiesa, sono un soggetto pastorale. In alcuni contesti l’attenzione della Chiesa è rivolta alle famiglie con obiettivi e modi di avvicinamento piuttosto generici, quando in esse è presente una persona con disabilità; sarebbe perciò desiderabile prendere coscienza del fatto che in questi casi i soggetti pastorali sono due: da un lato, le persone con disabilità, in quanto fedeli laici battezzati; dall’altro, le famiglie che le assistono. Riequilibrare lo sguardo della Chiesa su queste due realtà personali è necessario per un impegno integrato e integrale, per svolgere la pastorale delle persone con disabilità in modo unificato rispetto alle necessità e alle potenzialità che essa è capace di valorizzare.

Grazie, dunque, a ciascuno di voi, a tutti quelli che si impegnano in una pastorale delle persone con disabilità in un tempo sinodale che non è destinato a terminare con il sinodo, ma ad aprirsi al futuro, a continuare a lasciare tracce significative di una capacità di ascolto e di messa in pratica di una pastorale che ci rende capaci di camminare insieme nella Chiesa.

In questi termini, non sono sicura che la parola inclusione, in riferimento alla partecipazione e al riconoscimento del ruolo insostituibile delle persone con disabilità nella Chiesa, sia la più adeguata. Infatti, a parte la sua efficacia di fronte alla esclusione, se etimologicamente in-cludere significa «chiudere dentro», forse sarebbe meglio abituarsi, in certi contesti, alle parole partecipazione, comunione e missione, esattamente come prevede il titolo del percorso sinodale che ci propone Papa Francesco, alle quali io aggiungerei il termine corresponsabilità. La partecipazione, la corresponsabilità, la comunione e la missione, infatti, comportano una apertura, e non una chiusura in sé stessi; uno stimolo nella Chiesa per evangelizzare il mondo, per annunciare con la propria vita di credenti battezzati con disabilità – in qualunque tappa, età o condizione – l’Amore di Dio, la gioia di essere stati amati e creati, e di avere un destino eterno. Partecipare vuol dire sentirsi corresponsabili di costruire insieme il futuro della Chiesa, con lo sguardo aperto al mondo.

Romana, n. 75, Luglio-Dicembre 2022, p. 167-169.

Invia ad un amico