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Omelia pronunziata da Mons. Alvaro del Portillo nella Basilica di Sant'Eugenio, a Roma, in occasione della Messa celebrata nell'undicesimo anniversario del transito del Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, Fondatore dell'Opus Dei.

Beati mortui qui in Domino moriuntur!, "Beati i morti che muoiono nel Signore!...", leggiamo nel libro dell'Apocalisse di San Giovanni Apostolo[1]. E' questa l'ultima beatitudine goduta dall'amatissimo Fondatore dell'Opus Dei che oggi ricordiamo nell'undicesimo anniversario del suo transito al Cielo: la beatitudine riservata dal Signore a quelli che in vita hanno cercato sempre e in tutto di compiere la Sua volontà, anelando alla Sua maggior gloria e percorrendo l'arduo cammino delle grandi beatitudini proclamate da Cristo agli esordi della Sua predicazione.

Mons. Escrivá de Balaguer ha ben compreso e vissuto l'insegnamento dell'Apostolo Paolo: nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore[2]. E così è stato, in vita e in morte, per il Servo di Dio che fin dagli adolescenziali presagi della vocazione, cui la Provvidenza lo chiamava, ha risposto sempre "sì" ai voleri del Signore, come traspare da quell'atto d'identificazione con la Volontà divina riportato in Cammino: "Tu lo vuoi, Signore?... Anch'io lo voglio!"[3].

La morte improvvisa, inattesa, gli giunge come l'ultimo comando del Signore, l'ultimo invito a seguirlo. E fu l'occasione in cui pronunziò il suo definitivo fiat che —accompagnato dallo sguardo supplicante e amoroso a Maria— lo ha spinto soavemente nelle braccia di Dio.

Ricordando quel repentino transito dalla terra al Cielo, ci tornano di getto alla mente quei sapienti avvisi che in tutta la Sua vita sacerdotale non si è stancato di ripetere sul valore del tempo e dell'eternità. "Questo mondo, figli miei —diceva—, ci sfugge dalle mani. Non possiamo perdere il tempo che è breve: è necessario impegnarsi sul serio nel compito affidatoci dal Signore, della nostra santificazione personale e del nostro lavoro apostolico. Il tempo bisogna spenderlo fedelmente, lealmente, amministrando bene —con senso di responsabilità— i talenti che abbiamo ricevuto... Comprendo assai bene —aggiungeva nostro Padre— l'esclamazione di S. Paolo ai Corinzi: Tempus breve est! E' così breve il nostro passaggio sulla terra! Per un cristiano coerente, queste parole rimarranno nel più intimo del suo cuore come un rimprovero di fronte alla mancanza di generosità, e come un invito costante ad essere leale. E' veramente breve il nostro tempo: per amare, per dare, per espiare"[4].

E poi quello struggente ed insistente desiderio degli ultimi tempi: "Quelli che si amano —sono parole del Servo di Dio—, cercano di vedersi. Gli innamorati hanno occhi soltanto per il loro amore... Mentirei se negassi che mi punge un grande desiderio di contemplare il volto di Gesù. Vultum tuum, Domine, requiram: cercherò, Signore, il tuo volto! Mi piace chiudere gli occhi e pensare che giungerà il momento, quando Dio vorrà, in cui potrò vederlo, non come in uno specchio, in un'ombra..., ma faccia a faccia. Sì, figli miei, l'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?"[5].

L'Amore misericordioso di Dio lo ha predisposto e formato mediante un lungo e travagliato tirocinio ad essere Padre e modello di una famiglia destinata a servire la Santa Chiesa, "così come Essa desidera essere servita", teneva sempre puntigliosamente a precisare. Egli ricordava agli uomini del nostro tempo alcune grandi verità dalle quali conseguono fondamentali e irrinunciabili impegni da parte di tutti i battezzati in Cristo: la chiamata universale alla santità, "il dolce incontro con Cristo nelle occupazioni di ogni giorno, diceva Mons. Escrivá, accessibile a persone di ogni ceto e condizione, senza discriminazioni di razza, di nazione, di lingua"; la santificazione del lavoro e della vita quotidiana; la filiazione divina; lo spirito contemplativo in mezzo al mondo: "il viavai del mondo è per noi luogo di preghiera", ha ribadito innumerevoli volte il Servo di Dio, "la nostra cella è la strada".

Guardando ai drammatici problemi del nostro tempo, alle tensioni e ai conflitti che pervadono la cristianità, e alla grave crisi di valori che è alla base del decadimento dei costumi, del dissolvimento delle famiglie e di tanti altri mali sociali, denunciati con forza dalla Sacra Gerarchia ed in particolare da Papa Giovanni Paolo II felicemente regnante, non si può fare a meno di rilevare la provvidenzialità delle peculiari connotazioni della spiritualità e dell'impegno apostolico dell'Opus Dei, che costituiscono uno specifico antidoto alle tendenze disumanizzanti e suicide della nostra società. "Le condizioni della società contemporanea —faceva osservare il Servo di Dio ad un giornalista— che valorizza sempre più il lavoro, agevolano evidentemente agli uomini del nostro tempo la comprensione di questo aspetto del messaggio cristiano che lo spirito dell'Opera è chiamato a sottolineare. Ma più importante ancora è l'influsso dello Spirito Santo, che nella sua azione vivificante ha voluto che il nostro tempo fosse testimone di un grande movimento rinnovatore di tutto il cristianesimo..."[6].

Invero, per mezzo di questo suo Servo "buono e fedele" e dell'Opera divina che gli ha affidato, il Signore ha voluto offrire alla sua Chiesa un concreto aiuto per l'evangelizzazione del mondo fin nelle sue più capillari propaggini: in particolare, l'Opera si appresta a fornire alla Chiesa il contributo delle sue fresche energie per l'evangelizzazione nel terzo millennio, partendo dalla rievangelizzazione degli antichi Paesi cristiani tormentati dalla piaga del secolarismo e dell'ateismo che pretendono di strappare Dio dal cuore dell'uomo.

Ma un programma così genuinamente evangelico, che si rifà al modello di vita dei primi cristiani, non poteva non suscitare —come già nei confronti di Cristo, pietra d'inciampo e segno di contraddizione, che lo ha ispirato— resistenze ed opposizioni come lascia intendere il nostro Fondatore in un'omelia pronunziata, venticinque anni or sono, nel marzo 1961: "Da oltre trent'anni ho detto e ho scritto in mille modi che l'Opus Dei non ha nessun fine temporale, politico, ma cerca soltanto ed esclusivamente di diffondere tra le genti di ogni razza, di ogni condizione sociale e di ogni Paese la conoscenza e la pratica della dottrina di salvezza portata da Cristo: cerca soltanto di contribuire a far sì che vi sia più amore di Dio sulla terra e quindi più pace, più giustizia tra gli uomini, figli di un solo Padre.

Molte migliaia di persone —milioni— hanno capito questo in tutto il mondo. Altri, piuttosto pochi, sembra che non lo abbiano capito, per i motivi che siano. Se il mio cuore è vicino ai primi, tuttavia rispetto e amo anche i secondi, perché in tutti è da rispettare e stimare la dignità personale e tutti sono chiamati alla gloria dei figli di Dio"[7].

Se qualcuno perciò non capisce, o non vuol capire, non ce ne possiamo stupire, ma dobbiamo invece continuare il nostro servizio alla Chiesa ed alle anime con imperturbabile gioia spirituale.

Il Santo Padre ha delineato recentemente le caratteristiche degli uomini e delle donne di cui ha bisogno oggi la Chiesa per adempiere la sua missione: "Occorrono araldi del Vangelo esperti in umanità, che conoscano a fondo il cuore dell'uomo d'oggi, ne partecipino gioie e speranze, angosce e tristezze, e nello stesso tempo siano dei contemplativi innamorati di Dio. Per questo occorrono nuovi santi"[8]. Si tratta di un insegnamento che è stato diffuso sin dal 1928 dal Servo di Dio, come viene affermato nel Decreto d'introduzione della sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione.

Fratelli e sorelle carissimi, il momento storico presente esige che ognuno di noi sappia accogliere questo pressante invito alla santità, e coltivi fattivamente il desiderio di far parte della nuova schiera di santi di cui ha bisogno la Chiesa. A tale scopo è necessario anzitutto attingere alle fonti della grazia, frequentare l'orazione —il colloquio personale con Gesù— e i sacramenti, in particolare la Penitenza e l'Eucarestia. Infatti, "per il dono della grazia, che viene dallo Spirito —ci ha ricordato Giovanni Paolo II nell'Enciclica Dominum et Vivificantem—, l'uomo entra in 'una vita nuova', viene introdotto nella realtà soprannaturale della stessa vita divina e diventa 'dimora dello Spirito Santo', 'tempio vivente di Dio' (cfr. Rm 8, 9; 1 Cor 6, 19)"[9]. La nostra forza di cristiani è tutta qui: nella grazia dello Spirito Santo che dimora nei nostri cuori, e che ci porta ad amare tutti, senza escludere nessuno, come Cristo che pregò per i suoi crocifissori ed offrì la propria vita anche per loro.

Al termine della sua vita —appena tre mesi prima di lasciare questo mondo—, in occasione del suo cinquantesimo anniversario di sacerdozio, Mons. Escrivá chiese ai suoi figli di aiutarlo a ringraziare Dio per il "cumulo immenso, enorme, di favori, di provvidenze, di affetto..., di bastonate!..., che —aggiungeva— pure sono affetto e provvidenza". E proseguì: "un panorama immenso: tanti dolori, tante gioie. E adesso, tutte gioie, tutte gioie. Perché abbiamo esperienza che il dolore è il martellare dell'Artista, che vuol fare di ciascuno, della massa informe che ciascuno di noi è, un crocifisso, un Cristo, l'alter Christus che dobbiamo essere"[10].

Invochiamo, da buoni figli, l'aiuto di Maria Santissima, refugium nostrum et virtus, per imparare ad amare, servire, soffrire e gioire in questo modo.

[1] Ap 14, 13

[2] Rm 14, 7-8.

[3] Josemaría Escrivá de Balaguer, Cammino, n. 762.

[4] Dal Notiziario sul Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, nº 1.

[5] Ibid.

[6] Josemaría Escrivá de Balaguer, Colloqui con Mons. Escrivá de Balaguer, n. 55.

[7] Josemaría Escrivá de Balaguer, E' Gesù che passa, n. 70.

[8] Giovanni Paolo II, Discorso al Simposio del Consiglio della Conferenza Episcopale d'Europa, 11-X-1985.

[9] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Dominum et Vivificantem, 18-V-1986, n. 58.

[10] Josemaría Escrivá de Balaguer, 27-III-1975.

Romana, n. 2, Gennaio-Giugno 1986, p. 92-94.

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