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LA LEGITTIMA AUTONOMIA DELLE REALTÀ TEMPORALI

IIl tema della legittima autonomia delle realtà temporali rappresenta uno degli argomenti cardine della teologia contemporanea, sia in rapporto al costituirsi delle scienze che in relazione all'attività dei fedeli cristiani. In queste pagine si espone innanzitutto la dottrina della Costituzione pastorale "Gaudium et spes", testo fondamentale di riferimento per questa materia. In un secondo momento si presentano alcuni suggerimenti per lo sviluppo di tale dottrina secondo il magistero di Giovanni Paolo II. L'articolo si conclude con una breve sintesi degli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá sulla santificazione in mezzo al mondo e sul rapporto fra l'unità di vita e il rispetto della legittima autonomia delle realtà temporali.

1. Il testo della Gaudium et spes

All'interno del capitolo sull'attività umana nel mondo, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, troviamo un paragrafo (n. 36) che si intitola "La legittima autonomia delle realtà terrene". Una formulazione interessante, perché al tempo stesso pone un problema ed implicitamente risponde ad una domanda tutt'altro che scontata: quale rapporto deve intercorrere tra le cose terrene e la realtà soprannaturale? Esiste forse un'autonomia che non può considerarsi legittima?

Questo punto del documento esordisce ricordando il timore, oggi assai diffuso, che "se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l'autonomia degli uomini, delle società, delle scienze". È un problema reale, che affonda le sue radici storiche in un supposto antagonismo tra ragione e fede, scienza e religione, Chiesa e società civile, condizione di cittadino e di cristiano... Coloro che avvertono tale timore indubbiamente concepiscono l'attività umana come un qualcosa di totalmente isolato —chiuso in se stesso—, e la religione —con la corrispondente attività sacra— separata da essa, quasi si trattasse di due forze in conflitto, ciascuna delle quali si contrappone all'altra nel tentativo di impedirle di invadere il proprio terreno. Nell'introdurre questa tematica, il Concilio —pur senza esprimersi in questi termini— accenna alla piaga del laicismo, aperta e molto estesa nella società attuale, come dice un altro passo dello stesso documento: "Il distacco, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo"[1].

Il affronta l'argomento in termini affermativi: l'autonomia delle realtà temporali è un'esigenza giusta, legittima, purché con questo termine si intenda "che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare"[2]. Segue l'affermazione che la legittimità di quest'autonomia non scaturisce da fattori sociologici, né costituisce una concessione alle rivendicazioni di determinati settori del mondo contemporaneo. Essa ha un fondamento ontologico: si basa sulla realtà stessa della creazione, e il Concilio non esita ad affermare che è "volere del Creatore".

È evidente quindi che per comprendere rettamente tale autonomia è necessario riflettere sulla verità della creazione, con tutto ciò che essa implica. Il testo conciliare rimanda esplicitamente al dogma della creazione, così come fu definito dal Concilio Vaticano I[3]. L'argomentazione che ne trae è metafisica: "Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte"[4]. Il testo latino è ancora più preciso e vale la pena di riflettere su ciascuno dei termini che vi compaiono:

—firmitas: designa l'essere, partecipato analogicamente, che è proprio di ogni cosa e le dà consistenza, ma che dipende dall'azione creatrice e conservatrice di Dio; contingenza, pertanto, e al tempo stesso solidità. Si può vedere qui implicata anche l'unità dell'ente costituito, che si fonda sul suo essere;

—veritas: nel presente testo indica la verità "ontologica", come espressione effettiva del progetto divino in ciò che Dio conosce e vuole che esista;

—bonitas: un altro dei trascendentali che esprime la bontà di tutto il creato; una verità, questa, rivelata[5]e dichiarata dal Magistero[6].

—La consistenza ontologica di ogni creatura ha una dimensione dinamica: la causalità propria, all'interno dell'ordine del creato ("propriis legibus ac ordine"), che si fonda sull'essere e sulla natura delle creature.

Agendo sulle altre cose create, l'uomo deve riconoscere e rispettare l'ordine stabilito da Dio, nei quattro aspetti appena indicati:

—relativamente all'essere delle cose, in quanto dotate della loro propria firmitas: infatti egli non ha il dominio sull'essere, giacché non è stato lui a costituirlo, così come non è neppure causa dell'essere che egli stesso possiede;

—relativamente alla verità delle cose, deve rispettare la loro natura, in quanto non è stato lui a stabilirla, come del resto non è lui l'autore della natura umana. Questa è una sfida all'onestà intellettuale nel lavoro scientifico: occorre ricercare secondo la verità, con il metodo adeguato a "ciò che" le cose sono, operare secondo la verità —se ci riferiamo all'attività trasformatrice dell'uomo nel mondo— e agire secondo la verità nella propria vita;

—relativamente alla bontà delle cose, che ha la sua radice nella creazione, l'uomo non deve pervertirla facendo cattivo uso di essa e di se stesso;

—infine egli deve operare in conformità con l'ordine dei fini stabilito da Dio, che dirige tutto il creato verso il suo fine ultimo.

Questi due ultimi aspetti contengono un forte richiamo all'onestà etica dell'uomo nell'uso delle cose create e, in generale, nella propria condotta che deve sempre riferirsi all'ordine e alla legge iscritta da Dio in tutto il creato: "Legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Iddio, con sapienza e amore, ordina, dirige e governa l'universo e la società umana", come dice il Concilio in un altro documento[7].

Se l'uomo imposta secondo queste coordinate la propria attività nel mondo, egli non troverà certamente ostacoli da parte della fede, poiché si muove in un ambito di unità: non ci può essere opposizione tra l'azione sulle cose temporali (quelle che il Concilio chiama res profanæ) e le realtà della fede (res fidei), perché ambedue gli ordini di realtà hanno la loro origine in uno stesso ed unico Dio[8].

Ma come si pone il problema per un non-credente? L'obiezione è frequente da parte dei fautori della soluzione di continuità tra le realtà terrene e la fede: sembra loro che chi si dichiara non-credente non sia tenuto a rispettare i limiti di origine "sacra". Una volta chiarita la non-opposizione tra le realtà terrene e quelle della fede, il Concilio ribatte quest'obiezione rifacendosi all'ordine naturale: "Anzi, chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza avvertirlo viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono"[9].

L'espressione "con umiltà e con perseveranza" sembra giustificata da un implicito riferimento a ciò che costituisce le cose: l'essere, la verità, la bontà e l'ordine (insomma, la legge eterna che l'uomo di retta coscienza percepisce con certezza come legge naturale). L'umiltà, in tale contesto, appare come atteggiamento di accettazione della realtà così come essa ci viene "data"; e la perseveranza è sforzo costante fino a trovare una risposta di fronte a ciò che è "nascosto" nelle cose.

L'attività umana che possiede queste caratteristiche gode dell'aiuto di Dio e in un qualche modo "tocca" il suo potere e la sua sapienza, anche laddove sia assente una conoscenza esplicita del Creatore da parte di chi svolge questo compito. E ciò per ineludibili ragioni di ordine metafisico, come afferma il testo: egli viene guidato da Dio nel suo lavoro e pertanto si trova in cammino verso la verità, perché Dio fonda la verità delle cose e le ordina al fine ultimo. Il testo latino lo esprime con maggior chiarezza: facit ut sint id quod sunt.

Con tutta franchezza il Concilio riconosce la presenza di atteggiamenti deplorevoli, talvolta fra gli stessi cristiani, derivanti dal non avere sufficientemente percepito e rispettato tale legittima autonomia nel lavoro scientifico. Atteggiamenti che, "suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro." La nota inserita nel testo conciliare richiama il caso di Galileo[10], spesso invocato come precedente per mostrare che può essere giustificato il rifiuto degli orientamenti etici offerti dal Magistero in materia scientifica concernente la fede o la morale. Il Concilio, ponendosi al di sopra delle polemiche e delle discussioni, evidenzia i principi e mette in guardia tutti —a cominciare dagli stessi cristiani— dai pericoli derivanti dal loro mancato rispetto.

Ma l'espressione «autonomia delle realtà temporali» si può intendere anche in un altro senso, rispetto al quale non ha titolo per esser presa in considerazione nell'attività di ricerca e di intervento sul reale: se affermando l'autonomia delle realtà temporali si vuole sostenere "che le cose create non dipendono da Dio e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa"[11].

Appare evidente che la rottura fra il mondo e Dio, di cui qui si parla nasce dall'interno dell'uomo e può dipendere da diversi atteggiamenti erronei:

—l'ateismo, che nega apertamente l'esistenza di Dio;

—l'agnosticismo, che, non vedendo accesso conoscitivo a Dio, prescinde da Lui;

—l'ateismo pratico, che, assorbito dalle cose temporali, non si interessa del "problema di Dio";

—il secolarismo laicista, oggi molto diffuso, che, pur senza negare Dio né fare a meno di Lui, lo situa in un recinto chiuso, in modo che tutte le realtà religiose sono considerate come eterogenee e prive di un qualsiasi rapporto con quelle temporali. Non si tratta sempre dell'affermazione di una indipendenza totale e assoluta da Dio, come se Egli non fosse il Creatore dell'universo, ma di un'indipendenza pratica, a livello dell'attività umana.

Da opzioni siffatte scaturisce la presunta opposizione tra fede e scienza, religione e società, legge di Dio e legge civile... La negatività delle conseguenze che tali posizioni hanno per l'attività dell'uomo nel mondo è palmare: egli perde la luce di cui avrebbe bisogno per penetrare nei "segreti" della realtà —giacché "l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa"—, non raggiunge la comprensione dell'universo perché non ascolta "la voce e la manifestazione di Lui nel linguaggio delle creature", travisa e quindi "abusa" delle cose create. E allora perde non solo il dominio su ciò che per natura gli è inferiore, ma persino la padronanza di se stesso e verifica —anche se non lo riconosce— che la creazione gli si rivolge contro.

Il progresso storico e culturale è voluto da Dio, ma è legittimo solo se risponde ad un requisito: che cioè l'uomo riconosca Dio come Creatore e Signore e orienti tutta la propria attività alla gloria di Dio, fine dell'universo[12].

Se nel n. 36 il Concilio si esprime in termini ampi —parlando di tutti coloro che credono in Dio e di coloro che lo cercano inconsapevolmente—, più avanti analizza —alla luce della Rivelazione— la deformazione dell'attività umana causata dal peccato. Così il progresso, se da un lato giova all'uomo, dall'altro costituisce per lui una grande tentazione: "infatti, sconvolto l'ordine dei valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi guardano solamente alle cose proprie, non a quelle degli altri; e così il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l'aumento della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano"[13]. Il testo ricorda, indirettamente, la rottura implicita nel peccato: trasgredendo l'ordine stabilito da Dio, l'uomo non solo si separa da Lui, ma perde anche la propria unità interna e provoca una frattura rispetto alle creature inferiori, che ne rende assai più difficile il dominio. A questa difficoltà si aggiunge l'azione delle "potenze delle tenebre", risultato del peccato delle creature puramente spirituali.

Tutto ciò comporta per l'uomo una lotta costante, che si riflette sulla sua attività. Per superare questa situazione, il Concilio ricorda la norma cristiana per cui "tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall'amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo. Redento, infatti, da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito Santo, l'uomo può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve e le guarda e le onora come se al presente uscissero dalle mani di Dio"[14].

Più avanti la stessa Costituzione pastorale precisa la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo, missione che ogni cristiano deve rispettare affinché l'attività umana si sviluppi in conformità con il disegno di Dio. È un appello alla coerenza: "Il Concilio esorta i cristiani, che sono cittadini dell'una e dell'altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo"[15]. E, in questo contesto, rileva la possibilità un duplice errore, che conduce al "distacco tra la fede e la vita quotidiana": trascurare le realtà temporali col pretesto di avviarsi verso la vita eterna; oppure fare delle realtà temporali, intese come estranee ai valori religiosi, il centro della propria esistenza e ridurre la vita religiosa a semplici atti di culto esterno e al compimento di determinati obblighi morali.

E' un invito ad evitare ogni scissione, ad unire ciò che è separato, alla luce del mistero del Verbo Incarnato: "Siano contenti piuttosto i cristiani, seguendo l'esempio di Cristo, che fu un artigiano, di poter esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio"[16]. La ricerca dell'unità nella vita personale costituisce la chiave di volta per riuscire ad indirizzare la propria attività e quella degli altri verso il fine ultimo. Il testo latino appena citato sottolinea l'unità di questa sintesi vitale: in unam synthesim vitalem.

Questo è il compito che spetta propriamente, anche se non esclusivamente, ai laici, "testimoni di Cristo in mezzo alla società umana"[17], mediante l'esercizio della propria libertà e il rispetto di quella altrui nelle questioni opinabili, senza rivendicare l'autorità della Chiesa a sostegno delle proprie opinioni personali. Nella loro attività nel mondo essi debbono rispettare la legittima autonomia delle realtà temporali: "Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in quei campi"[18]. Da dove nascono questa rettitudine e questo sforzo di coerenza cristiana? Il Concilio risponde: "Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena"[19].

2. La dottrina di Giovanni Paolo II

La tematica dell'autonomia delle realtà temporali torna ripetutamente nella dottrina di Giovanni Paolo II, sia nelle encicliche come nella predicazione e nella catechesi delle udienze generali. In qualche occasione egli ha commentato con ampiezza il n. 36 della Gaudium et spes. Nel corso della catechesi sulla creazione, per esempio, ha dedicato un'intera udienza a questo punto, intimamente collegato alla verità della creazione[20]. Qui metteremo in rilievo gli aspetti che proiettano una nuova luce sul testo conciliare, frutto, senza dubbio, della profonda riflessione di Giovanni Paolo II sul contenuto dei diversi documenti.

Egli si sofferma su una doppia dimensione della creazione, nel contesto della riflessione sulla sua finalità:

—una dimensione "trascendentale" nelle creature, che è una manifestazione esterna ed assolutamente libera della gloria interna di Dio, in cui consiste anche il fine di tutto il creato: "Nel mistero della gloria tutte le creature acquistano il loro significato trascendentale: «oltrepassano» se stesse per aprirsi a Colui, nel quale hanno il loro inizio... e la loro meta"[21].

—una dimensione "immanente", che è il perfezionamento delle creature e implica la scienza, la tecnica, la cultura, la storia...[22]

All'interno di questa dimensione immanente, inseparabile dalla prima, si colloca il problema dell'autonomia delle realtà terrene.

Giovanni Paolo II attribuisce speciale importanza al fatto che il Concilio inserisca questo tema nella verità della creazione, la quale non solo è una verità di fede, rivelata nell'Antico e nel Nuovo Testamento, ma è anche una verità che unisce tutti i credenti, vale a dire, tutti coloro che —come dice la Gaudium et spes nel n. 36— "hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Lui nel linguaggio delle creature". Questa verità, benché manifestata pienamente nella Rivelazione, è infatti accessibile di per sé alla ragione umana. I termini con cui si esprime il testo conciliare, commenta Giovanni Paolo II, indicano —almeno in modo indiretto— "che il mondo delle creature ha necessità della Ragione Ultima, e della Causa Prima. È in forza della loro stessa natura che gli esseri contingenti hanno bisogno, per esistere, di un appoggio nell'Assoluto (nell'Essere Necessario), che è Esistenza per sé («Esse Subsistens»). Il mondo contingente e fugace «svanisce senza il Creatore»"[23].

Nella catechesi sulla provvidenza divina il Santo Padre affronta la questione in un'altra prospettiva, sottolineando in particolare il ruolo dell'uomo all'interno dell'ordine creato. Bisogna partire dal presupposto che "tutto ciò che è creato, per il fatto stesso di essere stato creato, appartiene a Dio suo Creatore e, di conseguenza, da Lui dipende. In un certo senso ogni essere è più «di Dio» che «di se stesso». È prima «di Dio» e poi «di sé». Lo è in modo radicale e totale che sorpassa infinitamente tutte le analogie del rapporto tra autorità e sudditi sulla terra"[24].

Giovanni Paolo II ha ben presente la domanda relativa all'autonomia del creato e al ruolo dell'uomo: "Ebbene, secondo la fede cattolica è proprio della trascendente Sapienza del Creatore far sì che Dio sia presente nel mondo come Provvidenza, e contemporaneamente che il mondo creato possieda quell'«autonomia», di cui parla il Concilio Vaticano II"[25].

Commentando Sap 8,1, circa l'azione di Dio che governa l'universo suaviter et fortiter, egli esclude ogni possibile opposizione tra l'autonomia delle realtà create e la provvidenza divina: "La Provvidenza Divina si esprime proprio in siffatta «autonomia delle cose create», nella quale si manifestano sia la potenza che la «dolcezza» proprie di Dio. In essa si conferma che la Provvidenza del Creatore, come trascendente e per noi sempre misteriosa sapienza comprende tutto («si estende da un confine all'altro»), si realizza in tutto con la sua potenza creatrice e la sua fermezza ordinatrice (fortiter), pur lasciando intatto il ruolo delle creature come cause seconde, immanenti, nel dinamismo della formazione e dello sviluppo del mondo, come si può vedere indicato in quel «suaviter» del Libro della Sapienza"[26].

All'interno di quest'ordine, l'uomo occupa una posizione e svolge un ruolo speciale, in conformità con la natura che Dio gli ha dato: "In ciò che riguarda l'immanente formazione del mondo, l'uomo possiede, dunque, fin dall'inizio e costitutivamente, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, un posto del tutto particolare. Secondo il Libro della Genesi, egli viene creato per «dominare». Partecipando, come soggetto razionale e libero, ma pur sempre come creatura, al dominio del Creatore sul mondo, l'uomo diventa in un certo senso «provvidenza» per se stesso, secondo la bella espressione di S.Tommaso (S. Teol. I, 22, 2 ad 4). Per la stessa ragione però, grava su di lui sin dall'inizio una particolare responsabilità sia davanti a Dio che davanti alle creature, e in particolare, davanti agli altri uomini"[27].

Non si può ignorare l'osservazione che Dio, nella sua azione provvidente, non solo tiene conto dell'autonomia che Egli stesso ha accordato alle creature, ma rispetta la libertà dell'uomo nel suo cammino sulla terra: "Nell'uomo e con l'uomo l'azione della Provvidenza acquista una dimensione «storica», nel senso che segue il ritmo e si adatta alle leggi di sviluppo della natura umana, pur permanendo immutata e immutabile nella sovrana trascendenza del suo essere indiveniente. La Provvidenza è un'eterna Presenza nella storia dell'uomo: dei singoli e delle comunità. La storia delle nazioni e dell'intero genere umano si svolge sotto l'«occhio» di Dio e sotto la sua azione onnipotente"[28].

L'uomo non solo deve usare legittimamente le cose create che gli sono state consegnate, ma "è donato a se stesso da Dio" e pertanto deve rispettare la struttura naturale e morale che Dio gli ha dato[29]. Anzi, nell'uomo tutta la creazione visibile deve avvicinarsi a Dio e incamminarsi verso la propria definitiva pienezza: "Il vero sviluppo —cioè il progresso— che l'uomo è chiamato ad operare nel mondo, non deve avere solamente carattere «tecnico», ma soprattutto «etico», per portare a compimento nel mondo creato il regno di Dio[30].

In tale contesto acquista un particolare rilievo la questione ecologica, cui Giovanni Paolo II attribuisce grande importanza e che considera come un problema etico[31]. Il dissesto ecologico nasce da un uso arbitrario delle creature, il cui l'ordine naturale viene violato ignorando la «finalità immanente» all'opera della creazione. Tale tipo di intervento è legato ad una falsa interpretazione dell'autonomia delle cose terrene e viene a costituire una minaccia per l'uomo stesso[32]: "L'uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di «creare» il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire"[33].

La manipolazionne illegittima di tale autonomia si ritorce sulla vita in tutti i suoi gradi e assume una particolare gravità laddove coinvolge la vita umana nelle sue diverse fasi e, in concreto, in quelle in cui essa si trova meno protetta[34]: "Ma è facile cedere all'abbaglio di una pretesa autosufficienza nel progressivo «dominio» delle forze della natura, fino a dimenticarsi di Dio o a mettersi al suo posto. Oggi questa pretesa giunge in alcuni ambienti a forme di manipolazione biologica, genetica, psicologica... che se non è retta dai criteri della legge morale (e quindi dalla finalizzazione al Regno di Dio) può risolversi nel predominio dell'uomo sull'uomo, con conseguenze tragicamente funeste"[35].

L'«autonomia» che prescinde da Dio —non esita ad affermare Giovanni Paolo II— non soltanto è illegittima ma anche inutile.[36]

Giovanni Paolo II riconosce tutti i valori positivi del mondo attuale, ma, oltre ad additare con chiarezza ciò che in esso non concorda col disegno di Dio, ne propone soluzioni definitive: "L'uomo, oggi più che in ogni altro tempo, è particolarmente sensibile alla grandezza e all'autonomia del suo compito di investigatore e dominatore delle forze della natura. È tuttavia doveroso notare che vi è un grave ostacolo nello sviluppo e nel progresso del mondo. Esso è costituito dal peccato e dalla chiusura che esso comporta, cioè dal male morale"[37]. Superare il male significa insieme volere il progresso morale dell'uomo e dare una risposta alle esigenze essenziali di un mondo «più umano». In questa prospettiva, dice Giovanni Paolo II, il Regno di Dio trova la sua "«materia» e i segni della sua efficace presenza"[38].

La soluzione si pone dunque sul piano della salvezza che si sta realizzando: "Se la crescita del Regno di Dio non si identifica con l'evoluzione del mondo, è però vero che il Regno di Dio è nel mondo e prima di tutto nell'uomo, il quale vive e opera nel mondo. Il cristiano sa che con il suo impegno per il progresso della storia e con l'aiuto della grazia di Dio coopera alla crescita del Regno, verso il compimento storico ed escatologico del disegno della Divina Provvidenza"[39].

Di fronte alla situazione attuale del mondo —indifferentismo religioso, ateismo nelle sue più diverse forme, secolarismo e scristianizzazione di popoli dall'antica tradizione cristiana—, Giovanni Paolo II ritiene necessario intraprendere una nuova evangelizzazione, rivalutare la dignità della persona umana, promuovere la pace[40]. In questo contesto egli richiama la vocazione dei fedeli laici alla santità, in virtù del battesimo, e ricorda che questa ricerca della santità o "vita secondo lo spirito" deve esprimersi in modo specifico "nel loro inserimento nelle realtà temporali e nella loro partecipazione alle attività terrene"[41].

Ciò richiede una formazione specifica, capace di prevenire e guarire, se necessario, il secolarismo: "Nella loro esistenza non possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta «spirituale», con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall'altra, la vita cosiddetta «secolare», ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei rapporti sociali, dell'impegno politico e della cultura"[42]. In contrapposizione a questo «distacco tra fede e vita, tra Vangelo e cultura», Giovanni Paolo II ribadisce la chiamata all'«unità di vita» proclamata dal Concilio Vaticano II nel testo precedentemente citato[43].

3. Santificazione del mondo e unità di vita

Fin dal 2 ottobre 1928 è risuonato nella Chiesa, con sempre maggior forza, l'annuncio che tutti gli uomini sono chiamati da Dio alla santità e che è possibile raggiungerla attraverso la santificazione del lavoro professionale e delle circostanze della vita ordinaria. Quel giorno un giovane sacerdote —il Beato Josemaría Escrivá de Balaguer— lo percepì con assoluta chiarezza, come una luce proveniente da Dio stesso. Da quel momento, con la consapevolezza di essere stato scelto come strumento al servizio della Redenzione, dedicò tutte le proprie forze a mettere in pratica questa volontà di Dio. Così fu fondato l'Opus Dei. Grazie alla risposta fedelissima e generosa del Beato Josemaría Escrivá, malgrado le numerose e gravi difficoltà, questo messaggio si è fatto strada all'interno della Chiesa e fuori di essa, diffondendosi in ogni parte del mondo. Il Fondatore dell'Opus Dei è morto a Roma il 26 giugno 1975, in fama di santità, e a Roma è stato beatificato da Giovanni Paolo II il 17 maggio 1992. Come afferma il Decreto che dichiarò l'eroicità delle sue virtù, "grazie ad una vivissima percezione del mistero del Verbo Incarnato, egli comprese che l'intero tessuto delle realtà umane si compenetra, nel cuore dell'uomo rinato in Cristo, con l'economia della vita soprannaturale e diviene luogo e mezzo di santificazione"[44].

In forza di questa profonda comprensione della verità della creazione e del mistero di Cristo, la legittima autonomia delle realtà temporali non costituiva un problema per il Beato Josemaría Escrivá; tuttavia egli era chiaramente consapevole dei problemi che questa tematica solleva: "Con ricorrente monotonia, alcuni cercano di risuscitare una presunta incompatibilità tra fede e scienza, tra intelligenza umana e Rivelazione divina. Tale incompatibilità può presentarsi, ma solo apparentemente, quando non si comprendono i termini reali del problema"[45].

Il problema cessa di essere tale, la frattura è sanata se si comprende bene la portata dell'ordine naturale e di quello soprannaturale, se si pongono correttamente i due poli di questo rapporto: "Dato che il mondo è uscito dalle mani di Dio, ed Egli ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza e gli ha dato una scintilla della sua luce, il lavoro dell'intelligenza —ancorché richieda un duro sforzo— deve sviscerare il senso divino già insito naturalmente in tutte le cose; e con la luce della fede ne percepiamo anche il valore soprannaturale, reso comprensibile dalla nostra elevazione all'ordine della grazia. Non possiamo aver paura della scienza, perché qualsiasi ricerca, se è veramente scientifica, tende alla verità. E Cristo ha detto: Ego sum veritas, io sono la verità"[46].

Un'omelia del 1960 parla di due posizioni contrarie, che conducono entrambe alla scissione tra fede e vita —come poi avrebbe detto la Cost. Gaudium et spes nel citato n. 43—: "Si osservano a volte degli atteggiamenti che derivano dall'incapacità di penetrare in questo mistero di Gesù. Per esempio, la mentalità di chi vede nel cristianesimo soltanto un insieme di pratiche e atti di pietà, senza coglierne il nesso con le situazioni della vita ordinaria, con l'urgenza di far fronte alle necessità degli altri e di sforzarsi per eliminare le ingiustizie". Solo apparente è il contrasto fra questo pregiudizio e quello di coloro che "tendono a immaginare che per poter essere umani bisogna mettere in sordina alcuni aspetti centrali del dogma cristiano, e agiscono come se la vita di preghiera, il colloquio continuo con Dio, costituissero un'evasione dalle proprie responsabilità e un abbandono del mondo"[47].

Con la crescita della vita soprannaturale in noi, la nostra percezione della realtà acquista, secondo il Beato Josemaría Escrivá, una "terza dimensione"[48], grazie alla quale tutte le cose create, poste in rapporto a Dop, assumono il giusto rilievo. Il Fondatore dell'Opus Dei afferma decisamente che non ci sono "realtà esclusivamente profane", con ciò escludendo a priori qualunque scissione tra fede e vita quotidiana: "Parlando con rigore teologico, senza limitarci a una classificazione funzionale, non si può dire che ci siano realtà —buone, nobili, e anche indifferenti— esclusivamente profane: perché il Verbo di Dio ha stabilito la sua dimora in mezzo ai figli degli uomini, ha avuto fame e sete, ha lavorato con le sue mani, ha conosciuto l'amicizia e l'obbedienza, ha sperimentato il dolore e la morte"[49].

In quest'ottica, la santificazione del lavoro non è un impegno "sovrapposto" alla vita cristiana, ma è conseguenza del sapersi figli di Dio e, in quanto tali, imitatori di Cristo: "E questo è il segreto della santità che vi sto predicando da tanti anni: Dio vi ha chiamato tutti ad essere suoi imitatori; e voi e io siamo stati chiamati affinché, vivendo in mezzo al mondo —da persone qualsiasi—, sappiamo mettere Cristo nostro Signore al vertice di tutte le attività umane oneste"[50].

Ed ecco un testo tratto da un'omelia del 1956: "Desidero parlare sempre della vita quotidiana e concreta: quella della santificazione del lavoro, dei rapporti famigliari, dell'amicizia. Se non siamo buoni cristiani in queste occasioni, dove mai lo saremo?"[51] Nell'omelia pronunciata l'8-X-67 nel campus dell'Università di Navarra —un testo che costituisce quasi un canto di lode alla santificazione delle realtà terrene all'interno del mondo—, si esprimeva con parole simili ed altrettanto incisive: "Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai. Per questo vi posso dire che la nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni il loro nobile senso originario, metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle, facendone mezzo ed occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo"[52].

Il Beato Josemaría Escrivá amava soffermarsi nella predicazione sull'«unità di vita» come sintesi viva di lavoro, preghiera e apostolato, quella synthesis vitalis che la Cost. Gaudium et spes avrebbe raccomandato come rimedio al "distacco tra fede e vita". Nel 1951 disse: "Ogni lavoro onesto può essere orazione; e ogni lavoro che è orazione, è apostolato. In tal modo l'anima si irrobustisce in un'unità di vita semplice e forte"[53]. L'apostolato non può essere un'appendice dell'esisitenza cristiana, ma è intimamente connesso con la santificazione del lavoro: "Dobbiamo evitare lo sbaglio di ritenere che l'apostolato si riduca alla testimonianza di qualche pratica di pietà. Tu e io siamo cristiani, ma nello stesso tempo, e senza soluzione di continuità, siamo cittadini e lavoratori, con dei doveri ben chiari che dobbiamo compiere in maniera esemplare, se vogliamo santificarci davvero"[54].

Per raggiungere quest'unità di vita è necessario mantenere la fede viva e vibrante di carità: "Quando la fede vacilla, l'uomo tende a immaginarsi un Dio lontano, che quasi non si prende cura dei figli. Pensa la religione come un qualcosa di estrinseco, cui attingere quando non ci sono altre risorse; si aspetta, allora, e non si capisce su che base, manifestazioni spettacolari, avvenimenti insoliti. Quando la fede vibra nell'anima, invece, ci si accorge che i passi del cristiano non si allontanano dalla vita normale e quotidiana di ogni uomo. E che la santità grande, che Dio ci richiede, è racchiusa nelle piccole cose di ogni giorno, qui ed ora"[55].

Secondo questo modo di concepire la vita cristiana, la legittima autonomia delle realtà temporali è un presupposto ovvio: e non solo essa viene rispettata, ma l'amore per il mondo in quanto opera di Dio conduce ad amarla. Lo attestano gli orientamenti chiari e sintetici che costellano la predicazione del Fondatore dell'Opus Dei: "La tua vocazione di cristiano ti chiede di stare in Dio e, al tempo stesso, di occuparti delle cose della terra, adoperandole oggettivamente così come sono: per restituirle a Lui"[56].

Mentre, da una parte, le espressioni «del mondo» e «mondano» appaiono sempre accuratamente distinte nelle sue opere, dall'altra l'amore di Dio e del mondo vi sono sempre uniti, come asserisce questo punto di Solco: "Gli uomini mondani si affannano perché le anime quanto prima perdano Dio: e poi, perché perdano il mondo... Non amano questo nostro mondo: lo sfruttano, calpestando il prossimo! —Non essere anche tu vittima di questa duplice trappola"[57]. Viene spontaneo accostare queste parole a quelle della Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 36, dove viene spiegato come l'illegittima autonomia delle realtà temporali non solo allontana da Dio, ma "priva di luce" la creatura stessa.

In realtà, tutto il capitolo "Cittadinanza" di Solco costituisce una guida illuminante per la condotta del cittadino «delle due città» senza che, all'interno dell'uomo, si verifichi una scissione nel suo agire sul mondo né, all'esterno, nel risultato di questo suo agire: "Non si può separare la religione dalla vita, né nel pensiero, né nella realtà quotidiana"[58]. Compito del cristiano è "contribuire a far sì che l'amore e la libertà di Cristo presiedano tutte le manifestazioni della vita moderna: la cultura e l'economia, il lavoro e il riposo, la vita di famiglia e la convivenza sociale"[59].

Se manca questo anelito di santificare il mondo, è facile che si produca il fenomeno del laicismo, perché molte realtà terrene, abbandonate a se stesse o in mano a non-credenti, si tramutano in ostacoli per la vita soprannaturale e "formano come un recinto chiuso e ostile alla Chiesa". Perciò, continua il Beato Josemaría Escrivá: "Tu, in quanto cristiano —ricercatore, letterato, scienziato, politico, lavoratore...— hai il dovere di santificare queste realtà. Ricorda che tutto l'universo —scrive l'Apostolo— sta gemendo come nei dolori del parto, aspettando la liberazione dei figli di Dio"[60].

In questo sforzo convergono, senza confondersi, quelle che il Fondatore dell'Opus Dei chiama "anima veramente sacerdotale" e "mentalità pienamente laicale". La legittima autonomia delle realtà temporali è mantenuta intatta e, allo stesso tempo, nell'attività del cristiano e attraverso di essa, queste realtà temporali vengono «santificate». Ove, in nome di un programma di santificazione del mondo, non si rispettasse tale autonomia del temporale, si darebbe luogo al clericalismo, un fenomeno che il Fondatore dell'Opus Dei stigmatizza in diversi modi: "Non voler fare del mondo un convento, perché sarebbe un disordine... Ma nemmeno della Chiesa una fazione terrena, perché equivarrebbe a un tradimento"[61]. Non gli piaceva parlare di "operai cattolici, di medici cattolici, di ingegneri cattolici e così via, come per indicare una specie all'interno di un determinato genere, come se i cattolici formassero un gruppetto separato dagli altri uomini, perché così si dà la sensazione che esista un fossato tra i cristiani e il resto dell'umanità"[62]. Preferiva parlare di "cattolici che sono operai", "cattolici che sono ingegneri, o medici", e così via.

Un'altra caratteristica della "mentalità laicale" e del rispetto dell'autonomia delle realtà temporali è l'amore alla libertà in tutto il vastissimo campo dell'opinabile. "Che triste cosa è avere una mentalità dispotica, «cesarista», e non comprendere la libertà degli altri cittadini, nelle cose che Dio ha lasciato al giudizio degli uomini"[63]. Oppure, come diceva nel 1960 in termini ancor più netti: "Impoverisce la fede chi la riduce a un'ideologia terrena, inalberando una bandiera politico-religiosa per condannare, in virtù di non si sa quale investitura divina, tutti quelli che non la pensano come lui su problemi che, per la loro stessa natura, ammettono le soluzioni più diverse"[64]. Nell'omelia pronunciata nel campus dell'Università di Navarra di fronte a varie migliaia di persone, esortò a diffondere ovunque una vera "mentalità laicale" ed espresse in sintesi le conseguenze pratiche che ne derivano:

"ad essere sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità;

ad essere sufficientemente cristiani da rispettare i fratelli nella fede che propongono —nelle materie opinabili— soluzioni diverse da quelle che sostiene ciascuno di noi;

e ad essere sufficientemente cattolici da non servirsi della Chiesa, nostra Madre, immischiandola in partigianerie umane"[65].

La profonda compenetrazione raggiunta con il mistero del Verbo Incarnato —non solo in ambito dottrinale, ma anche attraverso la sua costante contemplazione— lo ha portato, come per analogia, a comprendere il mondo nella sua vera prospettiva: come in Cristo la natura divina e la natura umana —distinte, senza commistione né confusione[66]- sono unite nella Persona del Verbo, nel mondo creato si distinguono realmente le realtà naturali da quelle soprannaturali; non si devono confondere, ma anche quelle naturali —comprese tutte le attività umane legittime— sono ordinate alla Redenzione in Cristo, a "mettere Cristo al vertice di tutte le attività umane". Secondo questa prospettiva cristologica, non esistono per il Fondatore dell'Opus Dei realtà esclusivamente profane, come detto più sopra[67]. E non esiste neppure conflitto fra «autonomie» né scissione fra i diversi ambiti.

Ed è nell'intimo di ciascuno che deve essere coltivato questo atteggiamento autenticamente cristiano, auspicato dal n. 43 della Cost. past. Gaudium et spes. Una conferma ci viene offerta nella già citata omelia dell'8-X-67, attraverso un'immagine suggerita dal luogo in cui il Fondatore dell'Opus Dei stava officiando la Santa Messa all'aperto: "Il cielo e la terra, figli miei, sembra che si uniscano laggiù, sulla linea dell'orizzonte... E invece no, è nei vostri cuori che si fondono davvero, quando vivete santamente la vita ordinaria..."[68]

Lo studio dei suoi insegnamenti sull'autonomia delle realtà temporali e la considerazione delle soluzioni pratiche sorte dal suo zelo pastorale mostrano una evidente affinità con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Tanto che si può a buon diritto parlare di una "coincidenza profetica con il Concilio Vaticano II", come afferma il Decreto sull'eroicità delle sue virtù[69].

Elisabeth Reinhardt

Dottore in Teologia

Laureata in Scienza dell'Informazione

[1] Cost. past. Gaudium et spes, n. 43.

[2] Ibid., n. 36.

[3] Concilio Vaticano I, Cost. dogm. De fide catholica, c.1: Denz.—Schön. 3002-3003.

[4] Cost. past. Gaudium et spes, n. 36.

[5] Gn 1, 31.

[6] Concilio Lateranense IV: Denz.—Schön. 800.

[7] Concilio Vaticano II, Dich. Dignitatis humanæ, n. 3.

[8] Cost. past. Gaudium et spes, n. 36. Il testo conciliare fa riferimento al Concilio Vaticano I, Cost. dogm. De fide catholica, c. 3: Denz.—Schön. 3004-3005.

[9] Cost. past. Gaudium et spes, n. 36.

[10] Ibid., nota 7.

[11] Ibid., n. 36.

[12] Cfr. Ibid., n. 34.

[13] Ibid., n. 37.

[14] Ibid.

[15] Ibid., n. 43.

[16] Ibid.

[17] Ibid.

[18] Ibid.

[19] Ibid.

[20] Giovanni Paolo II, Discorso, 2-IV-86: "Insegnamenti di Giovanni Paolo II" IX, 1 (1986) 900-903.

[21] Giovanni Paolo II, Discorso, 12-III-86: "Insegnamenti di Giovanni Paolo II" IX, 1 (1986) 683.

[22] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso, 2-IV-86, cit.

[23] Cfr. Ibid.

[24] Giovanni Paolo II, Discorso, 14-V-86: "Insegnamenti di Giovanni Paolo II", IX, 1 (1986) 1411.

[25] Ibid., 1413.

[26] Ibid., 1414.

[27] Ibid. Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso, 21-V-86: "Insegnamenti di Giovanni Paolo II", IX, 1 (1986) 1645-1649.

[28] Giovanni Paolo II, Discorso, 21-V-86, cit., 1648.

[29] Cfr. Giovanni Paolo II, Litt. enc. Centesimus annus, 1-V-1991, n. 38.

[30] Giovanni Paolo II, Discorso, 21-V-86, cit., 1647.

[31] Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 8-XII-89: "Insegnamenti di Giovanni Paolo II" XII, 2 (1989) 1463-1473.

[32] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso, 2-IV-86, cit., 903.

[33] Giovanni Paolo II, Litt. enc. Centesimus annus, n. 37.

[34] Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 8-XII-89, cit.

[35] Giovanni Paolo II, Discorso, 18-VI-86: "Insegnamenti di Giovanni Paolo II" IX, 1 (1986) 1845.

[36] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso, 2-IV-86, cit., 902.

[37] Giovanni Paolo II, Discorso, 25-VI-86: "Insegnamenti di Giovanni Paolo II" IX, 1 (1986) 1915.

[38] Cfr. Ibid., 1916.

[39] Ibid., 1919.

[40] Cfr. Giovanni Paolo II, Esort. apost. Christifideles laici, 30-XII-1988, nn. 4-7.

[41] Ibid., n. 17.

[42] Ibid., n. 59.

[43] Cfr. Cost. past. Gaudium et spes, n. 43.

[44] Congregazione per le Cause dei Santi, Decreto sull'esercizio eroico delle virtù del Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, Fondatore dell'Opus Dei, 9-IV-90.

[45] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, Ares, Milano 1988, 5ª ed. it., n. 10.

[46] Ibid.

[47] Ibid., n. 98; cfr. Josemaría Escrivá, Amici di Dio, Ares, Milano 1988, 4ª ed. it., n. 58.

[48] Cfr. Josemaría Escrivá, Cammino, Ares, Milano 1988, 23ª ed. it., n. 279.

[49] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, cit., n. 112; cfr. n. 120.

[50] Josemaría Escrivá, Amici di Dio, cit., n. 58.

[51] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, cit., n. 36.

[52] Josemaría Escrivá, Colloqui, Ares, Milano 1987, 5ª ed. it., n. 114.

[53] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, cit., n. 10.

[54] Josemaría Escrivá, Amici di Dio, cit., n. 61.

[55] Ibid., n. 312.

[56] Josemaría Escrivá, Solco, Ares, Milano 1987, 4ª ed. it., n. 295; cfr. Josemaría Escrivá, Forgia, Ares, Milano 1989, 2ª ed. it., n. 678.

[57] Josemaría Escrivá, Solco, cit., n. 304.

[58] Ibid., n. 308.

[59] Ibid., n. 302.

[60] Ibid., n. 311.

[61] Ibid., n. 312.

[62] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, cit., n. 53; cfr. Ibid., n. 184.

[63] Josemaría Escrivá, Solco, cit., n. 313.

[64] Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, cit., n. 99.

[65] Josemaría Escrivá, Colloqui, cit., n. 117.

[66] Cfr. Concilio di Calcedonia, Denz.—Schön. 301.

[67] Cfr. nota n. 49

[68] Josemaría Escrivá, Colloqui, cit., n. 116.

[69] Cfr. Congregazione per le Cause dei Santi, Decreto, 9-IV-90, cit.

Romana, n. 15, Luglio-Dicembre 1992, p. 323-335.

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