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Mons. George Gänswein ordina 27 sacerdoti della Prelatura

Il 22 maggio mons. George Gänswein, prefetto della Casa Pontificia e segretario di Benedetto XVI, ha ordinato 27 sacerdoti della prelatura dell’Opus Dei nella basilica di Sant’Eugenio a Roma. Il prelato dell’Opus Dei, mons. Fernando Ocáriz, ha partecipato alla cerimonia e ha imposto le mani ai nuovi sacerdoti dopo il vescovo consacrante.

A causa delle misure per contenere la pandemia, è stata consentita la partecipazione ad alcuni familiari dei nuovi sacerdoti e a un ridotto numero di fedeli. L’ordinazione è stata trasmessa in diretta attraverso la pagina web dell’Opus Dei.

Nell’omelia il vescovo George Gänswein ha esortato i nuovi sacerdoti a «rimanere in Cristo». «Può esserci progresso nella fede, nella speranza e nell’amore solo se rimaniamo nella Sua parola. Chi riceve l’ordinazione sacerdotale ha deciso di rimanere presso di Lui, presso il Signore». Poi ha detto loro: «Nessuno può farsi sacerdote da sé. Il sacerdote è vincolato al mandato di condurre gli uomini a Cristo e di incoraggiarli a rimanere in Lui e nella Sua parola».

Secondo mons. Gänswein, «l’espressione più bella per descrivere il compito del sacerdote è “l’uomo che benedice”. E può benedire attraverso il Signore. Per far questo deve mettere la propria vita sotto il mistero della Croce, con coraggio e umiltà».

Il sacerdote «non è semplicemente il funzionario di una istituzione che svolge certe funzioni – ha aggiunto –: no, egli fa qualcosa che nessun uomo può compiere a partire da sé stesso, ma in nome di Gesù Cristo». In questo senso, «il sacerdozio non è semplicemente una funzione ma un sacramento. Dio si serve di un uomo per esserci e operare attraverso di lui per gli uomini.

«Fa pena – ha aggiunto – quando un sacerdote o un vescovo non annuncia il Vangelo con forza e integralmente, ma elargisce le proprie opinioni, le idee personali».

Il vescovo consacrante ha concluso l’omelia affidando i 27 nuovi sacerdoti alla Madre del Signore: «Rimanete per tutta la vostra vita accanto alla Madre: sotto il suo manto siete al sicuro, perché siete all’ombra di Cristo nella luce della Risurrezione. Stando presso la Madre di Dio, state nel posto giusto».

Alla fine della cerimonia mons. Fernando Ocáriz ha ringraziato per la sua presenza il vescovo Georg Gänswein, «che ci porta direttamente a quella del Santo Padre Francesco, che vogliamo sostenere con la nostra preghiera». Poi si è rivolto alle famiglie dei nuovi sacerdoti: «A tutti voi dico grazie, grazie per aver collaborato con Dio nel far germogliare nei vostri figli la vocazione al sacerdozio». «Il nostro ringraziamento – ha aggiunto – si rivolge in modo particolare a san Josemaría, del quale questi nuovi sacerdoti sono figli, perché vi guidi dal Cielo nella missione di servire tutte le anime».

I nuovi sacerdoti

I 27 nuovi sacerdoti provengono da Inghilterra, Germania, Romania, Slovacchia, Spagna, Lituania, Giappone, Costa d’Avorio, Kenya, Nigeria, Messico, Brasile, Perù e Canada. Questi sono i loro nomi: Francisco Javier Alfaro, Mariano Almela, Pablo Álvarez, Juan Manuel Arbulú, Francisco Javier Barrera Bernal, Alexsandro Bona, Branislav Borovský, Gaspar Ignacio Brahm, Kevin de Souza, Borja Díaz de Bustamante, Juan Diego Esquivias, Rafael Gil-Nogués, André Guerreiro, Alejandro Gutiérrez de Cabiedes, Casimir Kouassi N’gouan, Fernando López-Rivera, Josemaría Mayora, José Ignacio Mir, Jaime Moya, Juan Prieto, Héctor Razo, Vytautas Jonas Saladis, Fadi Sarraf, Fumiaki Shinozaki, Marc Teixidor, Álvaro Tintoré e Obilor Bruno Ugwulali.

Tra i nuovi sacerdoti c’è Fadi Sarraf, di 49 anni. Nato a Damasco (Siria), è arrivato in Canada a 17 anni per studiare ingegneria all’Università McGill. Ha conosciuto l’Opus Dei nel 1989, quando un compagno di corso lo ha invitato a visitare Riverview Study Centre, una residenza di studenti vicina al campus universitario. Sarraf afferma che, a parte la disposizione a servire, un’altra caratteristica del sacerdote è la disponibilità: «Il sacerdote è lì per aiutare tutti – spiega –. È l’esempio che dà Gesù nel Vangelo. Perciò il messaggio del sacerdote, il messaggio cristiano, non è solo per pochi ma per tutti. Il sacerdote deve accogliere tutti e fare in modo che ogni persona con la quale entra in contatto possa scoprire l’amore di Dio e desideri corrispondere a questo amore».

Un altro dei nuovi sacerdoti è Mariano Almela, che proviene da Vallecas, a Madrid. Fu a Vallecas – ricorda Mariano – che il beato Álvaro del Portillo ricevette una botta in testa quando, negli anni ’30, andava là per fare la catechesi ai bambini della zona: «Grazie a Dio le cose sono cambiate e molte persone di Vallecas oggi stanno pregando per me. Mi rendo conto che ho molto bisogno di queste preghiere, perché essere sacerdote significa mettersi a disposizione di tutti per camminare insieme verso Dio, che è Colui che ci dà la felicità». Durante gli anni trascorsi in Italia ha conciliato i suoi studi di Teologia nella Pontificia Università della Santa Croce con attività formative nei centri giovanili di Napoli.

Tra coloro che hanno ricevuto l’ordinazione sacerdotale vi sono diversi africani, come Casimir Kouassi, nato in Costa d’Avorio, che ha studiato Contabilità ed Economia e ha lavorato nel suo Paese in una società di consulenza. Ora sta concludendo gli studi in Scienze Sacre con una tesi sulla Liturgia. Con riferimento alla gioventù del suo continente, afferma: «Mi entusiasmo pensando che, come sacerdote, con la grazia di Dio, darò speranza e gioia a molta gente dell’Africa e del mio Paese».

Un altro degli ordinandi era il nigeriano Obilor Ugwulali, il cui nome significa rasserena il cuore. Suo nonno morì nello stesso momento in cui lui nasceva, sicché i suoi genitori gli dicevano che egli era venuto al mondo per rasserenare i loro cuori. Oriundo di Afikpo, Obilor ha studiato Contabilità nella sede di Enugu dell’Università della Nigeria. Ha lavorato per alcuni anni prima di andare a Pamplona (Spagna) per frequentare i corsi di teologia all’Università di Navarra. Attualmente sta svolgendo il dottorato presso la Pontificia Università della Santa Croce con un lavoro su Il contributo di Ratzinger/Benedetto XVI alla specificità della morale cristiana. Vuole vivere come suggerisce il suo nome: rasserenando il cuore delle persone che incontrerà nel suo nuovo ministero.

José Ignacio Mir è di Palma de Mallorca (Spagna). Con i suoi 57 anni, era il veterano degli ordinandi. Dopo gli studi di Filosofia e Teologia all’Università di Navarra, ha lavorato per 20 anni come direttore di due scuole a Pamplona e a San Sebastián. Dieci anni fa si è trasferito in Romania per promuovere l’attività apostolica della prelatura dell’Opus Dei nella sua fase iniziale in quel Paese. Lì ha lavorato come rappresentante di diverse ditte e ha coordinato la costruzione di una residenza di studenti a Bucarest. «Il sacerdozio – spiega – non è un riconoscimento di nulla, ma piuttosto è una opportunità ineguagliabile di poter dedicare tutta la tua vita a servire Dio e gli altri”.

Il messicano Josemaría Mayora chiede preghiere «affinché tutti noi sacerdoti sappiamo essere mediatori fra Dio e gli uomini». È nato a Città del Messico e fin da piccolo è vissuto a Guadalajara (Messico). Prima di trasferirsi a Roma per studiare Teologia alla Pontificia Università della Santa Croce, ha frequentato Ingegneria Industriale all’Università Panamericana. Per 10 anni ha lavorato come professore e dirigente al Liceo Del Valle.

Vytautas Saladis, della Lituania, ha 30 anni e ha studiato Diritto all’Università di Vilnius. Ha lavorato per alcuni anni in uno studio legale. Ora sta per laurearsi a Roma in Diritto Canonico. È il primo sacerdote dell’Opus Dei della Lituania, dove la Prelatura ha iniziato l’attività apostolica stabile nel 1994.

Pablo Álvarez è nato in Gran Canaria (Spagna). Dice che il 23 maggio, il giorno successivo all’ordinazione sacerdotale, festeggerà il suo compleanno con il più grande regalo possibile: «Poter celebrare la Messa!». È entusiasta di poter contribuire alla felicità delle persone attraverso i sacramenti, la predicazione della Parola e l’accompagnamento spirituale. Considera un dono l’essere vissuto per un certo tempo in Libano: «Gli anni da me trascorsi in Medio Oriente, lavorando con i profughi della guerra siriana, mi hanno aperto gli occhi su un mondo ferito, che può guarire solo se mettiamo Dio al centro. Ora mi sento come chi sta per lanciarsi dall’aereo col paracadute. Dio ha in serbo per noi un’avventura meravigliosa, piena di lavoro per le anime. Ci appoggiamo sulla preghiera di tutti per essere quei sacerdoti santi che Dio si aspetta da noi».

Ecco il testo completo dell’omelia di mons. Georg Gänswein

Eminenza, Reverendissimo e carissimo prelato don Fernando, Eccellenze, Reverendi fratelli nel ministero sacerdotale e diaconale, cari genitori e parenti, cari sorelle e fratelli e, anzitutto, cari ordinandi.

Ogni epoca – anche la nostra – ha il suo linguaggio. Ogni epoca ha la sua sensibilità linguistica. E ogni epoca ha anche le sue parole preferite. Oggi, ai primissimi posti nella classifica delle parole preferite figura una parola: progressivo o, ancora più di moda, progressista. Compare ovunque, il contemporaneo progressista, il politico progressista, la donna progressista, il cristiano progressista, il parroco, il vescovo progressista. Essere progressisti va di moda, è considerato “in”.

Che cosa si attendono i fedeli da un giovane che tra poco dovrà e potrà accompagnarli da sacerdote? Un vice parroco progressista? Un lavoratore progressista nella vigna del Signore? E chi può mai permettersi di non essere progressista? Si verrebbe irrimediabilmente accantonati, amen!

Ma dai testi della liturgia odierna che abbiamo appena ascoltato, e speriamo anche capito – gli Atti degli Apostoli (At 10, 35-43), la Lettera dell’Apostolo Paolo ai Corinzi (2 Cor 5, 14-20) e il Vangelo di Giovanni (Gv 10, 11-16) – ci vengono incontro parole del tutto diverse, che vanno in tutt’altra direzione. Soltanto tre parole: testimoni,ambasciatori di Cristo, Buon Pastore. Sono, queste, espressioni che è possibile sintetizzare con un altro termine, con un’altra parola: con rimanere.

Oggi rimanere è una parola poco quotata, per niente amata. Sa di insistere sulle proprie posizioni, di immobilismo. Suscita il sospetto della debolezza, della paura, della testardaggine e dell’ostinazione. Non pochi dicono: «Resto sulle mie » oppure: «Rimango all’antica» e perdono il treno, restano indietro, non al passo con i tempi. Ce ne sono altri che si dolgono di non essere rimasti: un tempo si erano rimessi volontariamente in cammino oppure si erano fatti trascinare più o meno controvoglia, e ora vedono che le cose stanno sfuggendo loro di mano. Iniziano ad avere paura del loro stesso coraggio: “Ah se solo avessimo, ah se solo fossimo rimasti!”. “Se fossimo rimasti nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne!” (cfr. Es 16, 3), dicevano anche gli israeliti dopo aver sperimentato il deserto: fosse come allora! È un atteggiamento pericoloso. Non si può riavvolgere il nastro del tempo, non si può fermarlo! Colui che rimane fermo non necessariamente è saldo, può anche essere fiacco.

Ma c’è un altro modo di rimanere: andare avanti e, tuttavia, rimanere, ma non seduti o bloccati, bensì fedeli a una decisione presa: rimango fedele alla parola data. Questa è tutt’altro che testardaggine: è fermezza, è fedeltà. Sto a quello che un giorno ho promesso, anche in condizioni difficili, anche controcorrente. E ci sono situazioni in cui – lo sappiamo tutti – si è facilmente tentati di dire: «Basta, me ne vado, getto tutto a mare». Situazioni in cui vale tanto dire: «Io rimango».

Ma il solo rimanere non basta. La questione è: dove si intende rimanere? Presso chi rimanere? Rimanete in me senza se e senza ma, dice Cristo (cfr. Gv 15, 9). Andare via da Lui non significa progresso – progressismo –, ma declino, caduta, caduta libera. Può esserci progresso nella fede, nella speranza e nell’amore solo se rimaniamo in Cristo e nella sua parola. Chi riceve la consacrazione sacerdotale, cari diaconi, ha deciso di rimanere presso di Lui, presso il Signore. La sua vita sta e cade con il Signore. La vostra vita sta e cade con il Signore. Sì, il sacerdozio, il sacerdote sta e cade con il rimanere in Cristo.

Nella comunione con Cristo il sacerdote è al sicuro: il sacramento dell’ordine gli dà questa certezza. E quello che costituisce il vostro futuro, cari diaconi, e il vostro servizio sacerdotale non è il prodotto delle vostre conoscenze, delle vostre capacità. Attraverso il sacramento voi venite consacrati a Cristo; attraverso il legame con lui voi ricevete quello che non potreste procurarvi da soli. Nel vostro ministero potrete trasmettere quello che non proviene da voi stessi, e per questo nessuno può farsi sacerdote da sé. Il sacerdote è vincolato al mandato di condurre gli uomini a Gesù Cristo e di incoraggiarli a rimanere in Lui e nella sua parola.

L’essere – e ripeto – sacerdote sta e cade con il rimanere nel Signore, con la fede nel Signore. Altre professioni non sono vincolate alla fede, possono sussistere a prescindere da essa. Il sacerdozio no. Per questo essere sacerdote sta e cade anche con l’esplicita promessa di Dio da cui questa fede è sostenuta: lo Spirito Santo, che tra poco invocheremo insieme con i candidati all’ordinazione con il Veni Creator Spiritus. L’ordinazione sacerdotale è il sigillo sacramentale con questo Spirito; essa è segno della iniziativa di Dio che precede ogni decisione umana e nonostante ogni umana debolezza. Il sigillo porta l’immagine di Cristo impressa con il fuoco dello Spirito, e che dunque nessuna mano d’uomo può cancellare, è incancellabile. Il sacramento dell’Ordine imprime nell’anima un caracter indelebilis, un marchio spirituale indelebile, una volta per tutte (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1582).

Cari diaconi, una delle domande che tra poco vi verrà posta è: «Tu sei disposto a essere sempre più strettamente unito a Cristo, consacrando te stesso a Dio, per la salvezza degli uomini?» (cfr. Rito di ordinazione, n. 124). Questo è il punto, è questa la questione: è chiesta fedeltà, è chiesto coraggio, è chiesta fermezza, è chiesta fede. Spero che ognuno di voi possa dire, e voglia dire: mantengo la mia parola e rimango fedele.

Cari sorelle e fratelli, da sempre la Chiesa dona la benedizione con il segno della Croce perché, a partire da Cristo, la Croce è divenuta il segno distintivo dell’amore, la caratteristica esclusiva dell’essere cristiani. Per mezzo del segno della Croce la Chiesa ci dice dove sta la fonte di ogni benedizione, di ogni trasformazione e di ogni fecondità. E così possiamo dire che l’espressione più bella per descrivere il compito del sacerdote è che dev’essere «un uomo che benedice». È in grado di esserlo, può esserlo e deve esserlo, a partire dal Signore. Ma questo compito comporta il mettere la propria vita sotto il mistero della Croce. E per questo sono necessari coraggio e umiltà insieme. Coraggio e umiltà perché non sgorgano dalla fiducia nelle proprie capacità e nei propri talenti, bensì dalla fedeltà alla parola data e dalla fede, poiché il sacerdote ha da dare qualcosa che trascende tutto ciò che è umano, che racchiude in sé il divino.

Il sacerdote infatti non è semplicemente un funzionario di una istituzione, così come è richiesto dalla società affinché siano svolte determinate funzioni. No, egli fa qualcosa che nessun uomo può compiere a partire da sé stesso. Nel nome di Gesù Cristo egli pronuncia le parole di remissione dei nostri peccati, e modifica così, a partire da Dio, la nostra condizione di vita. E sulle offerte del pane e del vino egli pronuncia le parole della transustanziazione che rendono presente Lui stesso, il Risorto, la sua Carne, il suo Sangue, aprendo così gli uomini a Dio e conducendoli a Lui. Il sacerdozio non è semplicemente una funzione, ma è sacramento. Dio si serve di un uomo per esserci e operare tra gli uomini. Questa è l’audacia di Dio che, nonostante conosca le nostre debolezze, si affida a uomini e si fida di uomini per agire e per esserci, e questa audacia divina è la vera grandezza racchiusa nel sacerdozio cattolico.

Per tutti noi, cari fratelli e sorelle, tutto questo significa che nel sacerdote non dobbiamo vedere anzitutto una personalità eccezionale, che egli magari neppure è. Dobbiamo certamente onorare le buone qualità che un sacerdote ha, ma dobbiamo guardarci dall’apprezzare nel sacerdote solo l’uomo: è anche quello, ma è ancora di più. Meglio ancora, dobbiamo riconoscere che il sacerdote ci dà qualcosa che non è deducibile dalle possibilità di questo mondo.

Cari ordinandi, se siete consapevoli di queste cose, a esse impronterete il vostro futuro servizio nella vigna del Signore. Se siete persuasi di poter dirigere la rotta della vita degli uomini perché annunciate il Verbo di Dio che si è fatto carne, Gesù Cristo, allora avendo successo non lo ascriverete a voi stessi. Allora subirete una sana relativizzazione, un sano ridimensionamento, la vostra persona retrocederà di fronte al vostro servizio, al vostro compito.

Quando i sacerdoti e gli stessi Vescovi non hanno più il coraggio di annunciare il Vangelo con forza e integralmente, ma dispensano proprie opinioni e idee è una sventura. Non ne abbiamo forse avute più che abbastanza di recente? E chi vuole persino inventare una nuova Chiesa abusa – abusa, ripeto – della sua autorità spirituale. E detto in termini un po’ più umoristici e leggermente provocatorii, cari diaconi, potrete raccontarne di molto più grosse di quelle che fareste se parlaste solo in nome vostro. Potete, dovete, annunciare agli uomini la Buona Novella con la quale voi stessi vi confronterete finché vivrete, perché è un ideale che non avete inventato voi. E vi auguro il coraggio necessario per assumere con tutto il cuore questa sfida. E vi auguro l’umiltà necessaria per riconoscere che siete i portatori della Buona Novella e non voi stessi siete la Buona Novella. Vi auguro il coraggio e, al contempo, l’umiltà di dire e di fare ciò che va detto e va fatto nel nome di Gesù Cristo, importune et opportune (2 Tm 4, 2). E se vivrete e opererete in base a questa consapevolezza, allora non sarete né codardi né presuntuosi, ma grati dal profondo del cuore. Nel profondo dell’anima potrete sperimentare che in tutto quello che fate siete sostenuti e guidati da Colui che vi ha chiamato al suo servizio: Gesù Cristo, il Figlio risorto del Dio vivente.

Cari diaconi, in quest’ora della vostra ordinazione sacerdotale vi affidiamo tutti a Maria, alla Madre del Signore. La Chiesa vi affida a Lei, così come Cristo le ha affidato tutti i futuri discepoli nel discepolo che Egli amava. Stando presso la Madre di Dio state nel posto giusto. Ma non dimenticate che Egli ha anche affidato la Madre a Giovanni. Egli affida la Chiesa ai nostri sacerdoti, e solo con grande umiltà e incondizionata fiducia nella sua grazia possiamo avere l’ardire di compiere questo servizio per gli uomini ma anche di viverlo perciò come servizio della gioia. Rimanete tutta la vostra vita presso la Madre: sotto il suo manto siete al sicuro perché siete all’ombra di Cristo, nella Luce della Risurrezione. Amen.

Romana, n. 72, Gennaio-Giugno 2021, p. 79-85.

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