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Il valore del prendersi cura degli altri negli insegnamenti di san Josemaría sul lavoro

María Pía Chirinos

Facoltà di Lettere, Università di Piura

Nel messaggio intorno alla santificazione del lavoro diffuso da san Josemaría, il tema del prendersi cura degli altri occupa un posto privilegiato e permette di entrare negli argomenti di fondo della spiritualità dell’Opus Dei. I suoi insegnamenti hanno un carattere anticipativo, che gettano luce sulle attuali sfide intorno alle professioni e al valore del prendersi cura degli altri. Il messaggio del fondatore dell’Opus Dei, come si sa, vede la luce e si sviluppa in pieno XX secolo e coincide con il protagonismo del lavoro nella cultura, nella politica, nell’economia, così caratteristico di quel secolo. Ana Marta González, in uno studio sulla proposta di san Josemaría e tenendo presenti pensatori del XX secolo come Martin Heidegger e Hannah Arendt, è arrivata a definire i suoi insegnamenti come una «teoria della mondanità», che «invita a mettere il suo messaggio in relazione con la riflessione filosofica e sociologica su tali questioni»[1]. In effetti questo invito si presenta continuamente in quanto le concomitanze con autori tanto attuali come Alasdair MacIntyre o Richard Sennett, che hanno dedicato diversi studi al lavoro, alla virtù, alla cooperazione, ecc., si mettono molto spesso in evidenza, con le ovvie sfumature che il paragone contiene.

Questo è il caso delle professioni del prendersi cura degli altri, e in modo particolare dei cosiddetti lavori di casa e di ospedale, con un valore profondamente umano e in una società altamente tecnicizzata. Se a ciò si unisce la recente esperienza causata dalla crisi sanitaria e dal Covid-19, è chiaro che molti di noi possono fare un mea culpa per lo scarso interesse prestato a queste professioni e il mancato riconoscimento del ruolo che esse disimpegnano per umanizzare la nostra vita[2]. Non così san Josemaría, perché, come vedremo, molti professionisti di queste Care Professions hanno tratto beneficio dagli insegnamenti e dal sostegno diretto del fondatore dell’Opus Dei per affrontare i problemi incontrati in queste attività. I contributi di Escrivá acquisteranno un maggior rilievo dopo che avremo analizzato e contestualizzato l’attuale protagonismo delle professioni che si dedicano agli altri.

1. Alcune chiavi per capire l’importanza del prendersi cura degli altri nel dibattito contemporaneo

Forse ora, in piena crisi sanitaria, è politicamente scorretto ammettere che c’è un problema di scarso apprezzamento riguardo alle professioni che si dedicano agli altri. Comunque, è evidente che è così. La scarsa valutazione sociale ed economica è stata denunciata da diverse parti, anche femministe, tra le quali emergono quelle di Arlie Hochschild[3] o di Riane Eisler[4]: mentre la onnipresenza del lavoro nella cultura è in continua crescita, il prestigio delle attività quotidiane, manuali, tanto connesse con la cura fisica dell’altro e con le sue necessità, si va estinguendo.

Lungi dall’essere casuale, in questo risultato si riscontrano diverse posizioni ideologiche. Con le loro sfumature e con il rischio di semplificare anziché riassumere, queste correnti sarebbero: l’ideale di autonomia illuminata, alcune versioni più dure del liberalismo e infine il marxismo. Come si sa, a partire dal XIV secolo, la condizione umana inizia un lungo cammino verso l’individualismo. Non abbiamo bisogno degli altri. Né la tradizione né la religione sono necessarie per fare passi avanti. Siamo autosufficienti. Rappresentando il liberalismo economico, la Work Ethic, di chiare radici protestanti, rafforza la carica individualista tradotta in nozioni come il self interest e la mano invisibile di Adam Smith[5]. E in terzo luogo, l’ideologia marxista, che, senza abbandonare la sua posizione contraria al capitalismo e alla proprietà privata, propone anche una definizione dell’essere umano in termini di lavoro.

Specialmente negli anni ’80, questo individualismo si traduce in una tendenza sottile: scompare il valore di impegno o di lealtà verso l’impresa. Non hanno più importanza gli anni di esperienza ma la mobilità. Richard Sennett chiama questo fenomeno “il capitalismo flessibile”[6] e Zygmunt Bauman, malgrado i suoi presupposti relativisti, criticherà questa situazione e consacrerà il termine “modernità liquida”[7]. Il lavoro abbandona ogni narrativa e anche il suo senso di comunità: l’esperienza acquisita non ha più importanza e l’appartenenza a una cultura imprenditoriale, con una traiettoria che definisce la propria biografia, neppure.

Eliminato il senso di comunità, e con ciò venuta meno la ricerca di un bene comune chiaro, la parola servizio percorre un cammino simile. Con le tesi dello Scientific Management di Frederick W. Taylor[8] e della seconda rivoluzione industriale, sorgeranno per la prima volta quelle che poi si chiameranno professioni di servizio nella figura dei white collars in contrapposizione ai blue collars o lavoratori manuali. Però, come ha fatto presente Sennett, nessuno aveva previsto che una buona parte di loro, a causa dell’imprevisto sviluppo della tecnologia, stesse per scomparire al pari dei lavori manuali nelle fabbriche[9]. Ecco perché l’espressione società di servizi fu in breve sostituita da società post-industriale o società della conoscenza o dell’informazione (Bell[10], Touraine[11]). I lavori manuali dei blue collars furono ritenuti meccanici, irrazionali e senza futuro in quanto facilmente sostituibili da macchine e, in linea con tutto questo, pochi anni dopo, molte attività proprie dei white collars ricevettero un identico trattamento, perché cominciarono a essere sostituite da voci metalliche e da applicazioni.

Una prima riflessione su queste idee ci porta a una osservazione importante: lo scarso valore di ciò che è materiale e di tutto ciò che a esso si richiama. E quando mi riferisco a ciò che è materiale, intendo soprattutto a ciò che è corporeo come elemento costitutivo della vita umana o anche – benché non sia perfettamente sinonimo – della nostra condizione di animalità. Negare assolutamente il valore del servizio o la ricerca del bene comune era cosa troppo audace per qualunque proposta sociologica o filosofica, ma svalutare le attività che più si riferivano al mondano, al materiale, al corporeo e quotidiano, alla nostra condizione animale, fu una chiara conquista delle principali correnti di pensiero nel XX secolo, almeno fino agli anni ’80. I lavori di casa e di ospedale rappresentano buoni esempi di questa battaglia culturale. E non solo perché il femminismo della seconda ondata di Simone de Beauvoir[12] e Betty Friedan[13] critichi in modo speciale i lavori della casa e denunci la loro condizione di schiavitù o servitù, con un significato assai peggiorativo del servizio, ma anche e forse soprattutto perché l’invito razionalista a considerare l’essere umano sulla base della res cogitans e a detrimento della sua condizione corporea e vulnerabile continua a essere un bastione quasi inespugnabile. Potremmo affermare che Platone e Cartesio stanno ancora per vincere la battaglia, in quanto mentre l’essere umano viene considerato più razionale, la condizione materiale che è alla base delle necessità quotidiane[14], corporee e mondane, vale a dire, della sua vulnerabilità e dipendenza, rimane in un secondo (e per molti vergognoso) piano. Con parole di Pierpaolo Donati, tutta questa realtà quotidiana è concepita come un «universo residuale»[15].

A questo punto un primo riferimento a san Josemaría appare pertinente. Quando l’espansione del marxismo e del materialismo era in auge – in pieni anni ’60 –, la sua nota difesa di un “materialismo cristiano” rappresenta una audace affermazione della materia evitando di contrapporla allo spirito. Secondo chi forse è il miglior conoscitore del significato di questo ossimoro, Pedro Rodríguez, la tesi sostenuta da san Josemaría è che «le realtà più quotidiane e normali, provenendo dalla materia stessa, sono metafisicamente e teologicamente valide»[16]: «Per questo vi posso dire – affermava san Josemaría nella celebre omelia del campus dell’Università di Navarra nel 1967 – che la nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia, e alle situazioni che sembrano più comuni, il loro nobile senso originario, metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle, facendone mezzo e occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo»[17].

Le radici di queste affermazioni, come è stato osservato in diversi studi su san Josemaría e come si concorda in alcuni testi magisteriali recenti come la Enciclica Laudato si’, si trovano nei primi capitoli della Genesi[18]. San Josemaría fa spesso riferimento alla bontà della creazione così come all’incarico che aveva Adamo nel giardino dell’Eden, dove Dio lo aveva messo con il mandato di «soggiogarlo» (Gen 1, 28) e di «coltivarlo e custodirlo» (Gen 2, 15)[19]. C’è qui un primo e originario riferimento alla custodia della natura come incarico del Creatore all’essere umano. «La vocazione del custodire – affermerà Papa Francesco nella sua prima omelia come Pontefice – ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato»[20]. Infatti, in questa citazione originaria, la custodia è esplicitamente unita al lavoro, come un’attività complementare o anche come suo attributo. Si tratta di una prerogativa inerente alla creazione[21] ed è universale, non circoscritta a un genere né a un tipo di lavori specifici. Ed entrambi – lavoro e custodia – appaiono come attività profondamente umane e partecipazione del potere divino.

Tutti noi, dunque, riceviamo la missione di lavorare, ma tale obbligo, afferma san Josemaría, «non è sorto come conseguenza del peccato originale, e tanto meno è una scoperta moderna. Si tratta di un mezzo necessario che Dio ci affida sulla terra, dilatando le nostre giornate e facendoci partecipi del suo potere creatore, affinché possiamo guadagnare il nostro sostentamento e, nello stesso tempo, raccogliere frutti per la vita eterna: l’uomo nasce per lavorare, come gli uccelli per volare»[22]. L’essere umano, pertanto, è creato con una dignità immensa: l’immagine e somiglianza divina della sua natura si riflette nel lavoro come collaborazione con Dio per prolungare l’opera della creazione con il lavoro delle sue mani, della sua intelligenza e della sua libertà. Ma a questo potremmo aggiungere che, pur essendo questa collaborazione di grande importanza, non basta. Molti lavori che prima erano esclusivamente umani ora li possono fare le macchine grazie alla stessa capacità che Dio ha dato all’uomo di crearle artificialmente. Per questo è necessario capire a fondo il testo della Genesi: l’essere umano deve imparare a prendersi cura dell’ambiente in cui vive, degli altri membri della sua specie e di tutta la natura. Prendersi cura è un’attività strettamente umana che accompagna il lavoro – benché non esclusivamente – e nasce per soddisfare nel modo migliore le necessità, la vulnerabilità, il benessere della persona e anche – perché no? – di altri esseri. Ritorneremo su questo tema.

Tuttavia, c’è dell’altro. Malgrado l’antichità del testo biblico, san Josemaría si oppone alla interpretazione comune del passo: il lavoro non è un castigo di Dio e non è neppure una scoperta della modernità. Infatti essa sembra accettare letteralmente la Genesi e definisce il lavoro in un modo apparentemente innocuo: come un dominio sulla natura[23]. Prima della modernità, questo dominio si spiegava in termini limitati, definiti, ma poi questa capacità umana si è arricchita con la scienza e si è ecceduto fino a passare da un uso a un abuso dell’ambiente[24]. L’irruzione della tecnica ha trasformato anche il valore delle attività manuali e quotidiane. Oltre a essere considerate meccaniche, sono state spogliate della loro dimensione positiva: il servizio compiuto da un essere umano a un altro essere umano è stato considerato come una cosa contraria alla condizione razionale e indipendente di chi serve. La cultura moderna si è progressivamente allontanata dall’ideale, così profondamente radicato nell’antichità, dell’ospitalità come accoglienza dell’estraneo, del povero, di chi ha bisogno[25]. E anche se nulla faceva prevedere una rottura in questo modo di concepire il lavoro, il cambiamento è avvenuto[26].

Per prima cosa, il discorso ecologico e i movimenti ambientalisti hanno reagito energicamente contro la brama di dominio (e di abuso) della natura: è nata l’idea del rispetto e della responsabilità insieme con la nozione di cura riferita alla nostra casa comune. Forse la corrente femminista della Care Ethics[27] (anche su questo ritornerò) rappresenta una alternativa particolarmente attendibile alla ragione scientifica e all’individualismo. Nel rivalutare il corpo, nella sua condizione di fragilità, e l’empatia, come fonte di conoscenza complementare alla ragione scientifica, ha posto le basi per un nuovo umanesimo: quello che concepisce l’essere umano nella sua dimensione dipendente e con una condizione – la sua vulnerabilità – che ancora viene considerata un tabù.

Queste tesi, inoltre, si riflettono nel lavoro, e in modo sorprendente nel lavoro manuale. Voci come quelle di Alasdair MacIntyre[28] o di Richard Sennett[29] propongono di rivendicare le qualità del lavoro manuale e recuperare quello che chiamano lo spirito dell’artigiano, vale a dire, quella figura medievale che, oltre a crescere personalmente attraverso quello che fa, applica l’attenzione, l’impegno e l’accuratezza alla materia che lavora e si inserisce in una tradizione e in una comunità, dalle quali dipende per migliorare il suo lavoro. Realizzazione personale, cooperazione con altri e cura della materia e di ciò che è vulnerabile, attraverso un lavoro manuale e quotidiano: queste sono le proposte che si estendono anche al lavoro intellettuale. Ogni lavoro dovrebbe essere concepito come una professione o craft, compiuta con un senso artigianale e con una impronta più umana e sociale, e meno tecnologica e individuale.

2. Lavoro, servizio e attenzione agli altri nel messaggio di san Josemaría

Con chiare radici cristologiche, il messaggio di san Josemaría sul lavoro appare ben lontano da ogni connotazione di dominio. Questo si mette in evidenza specialmente nei suoi continui riferimenti al servizio e – forse non sempre in modo esplicito, ma certamente nell’intenzione – alla attenzione agli altri, presenti fin dai suoi primi scritti. Aveva l’abitudine di insistere, per esempio, sul fatto che l’Opus Dei aveva come fine quello di servire la Chiesa come essa vuole essere servita[30]. La novità e lo specifico sono che questo servizio lo avrebbero compiuto uomini e donne in mezzo al mondo e soprattutto attraverso l’esercizio del lavoro professionale, dando così testimonianza della loro fede[31]. A tal riguardo, José Luis Illanes sottolinea che la nota più distintiva del lavoro nel messaggio di san Josemaría è proprio la sua dimensione sociale, di contributo al bene comune, di servizio[32]: «Dobbiamo riflettere attentamente – invita Escrivá in una lettera – su che cosa c’è in fondo al nostro lavoro professionale. Vi dirò che c’è una sola intenzione: servire». Eppure, sarebbe ingenuo pensare che questa considerazione sia una novità nella letteratura sul lavoro. Lo stesso Escrivá lo riconosce in seguito non senza un certo tono di sorpresa: «Perché nel mondo, ora, l’importanza della missione sociale di tutte le professioni è chiara: persino la carità è diventata sociale, persino l’insegnamento è diventato sociale»[33].

Per Escrivá, dunque, il lavoro non si riduce a un’attività che s’impadronisce del lavoratore, e che si riflette nel prodotto delle mani o delle macchine. Al contrario, il soggetto del lavoro – l’essere umano, razionale, corporeo, vulnerabile e dipendente – deve trovare una relazione con la sua opera rifuggendo dall’auto-affermazione o dal perfezionismo. Questo è perfettamente compatibile con «la cura delle cose piccole»[34], intesa non come conseguenza diretta di una spiritualità intorno all’infanzia spirituale – che san Josemaría conosce bene – ma come manifestazione proprio di quel messaggio di santificazione della vita quotidiana che costituisce una chiamata divina a tutti i cristiani[35] e induce a «lasciare le cose terminate, con umana perfezione»[36]. Questo interesse per la accuratezza porta il lavoratore a fare quello che deve e a stare in quello che fa, «non per abitudine o per riempire le ore, ma come frutto di riflessione attenta e ponderata. Pertanto è diligente. [...] Diligente deriva dal verbo diligere, che significa amare, apprezzare, scegliere come risultato di un’attenzione delicata, accurata»[37]. Aver cura, pertanto, equivale ad amare, e per Escrivá è intrinsecamente unito a lavorare: «L’uomo, pertanto, non deve limitarsi a fare delle cose, a costruire oggetti. Il lavoro nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore»[38].

Comunque il prendersi cura non si limita al lavoro, ma spesso, a partire dalle diverse situazioni lavorative o personali, si estende alle relazioni familiari o sociali. Sebbene per Escrivá prendersi cura è sinonimo di amare, non si limita “solo” ad amare: prendersi cura dell’altro si traduce nel rispettare la sua libertà, previo l’esercizio di una grande empatia per scoprire «tutti i problemi e le preoccupazioni degli uomini, dato che sono le vostre stesse preoccupazioni e i vostri stessi problemi»[39]; e – nella stessa misura – servire i nostri simili e la natura.

Sulle «professioni inerenti al prendersi cura», benché non ci sia un uso esplicito del termine che – come abbiamo indicato – è piuttosto recente, si può sicuramente dire che c’è stata tutta una serie di considerazioni molto valide che riguardano due di esse, che san Josemaría ha seguito in qualche modo più da vicino e che presentano caratteristiche che, come abbiamo detto, sono centrali nei suoi insegnamenti. In effetti, sia i lavori di casa, che mirano al benessere nella vita quotidiana dei diversi ambienti familiari, lavorativi, ecc., sia l’infermieristica, che – insieme ad altre professioni della salute – si dedica ai malati per curarli o per mitigare la malattia, hanno occupato un posto speciale nella sua predicazione, e ora possono anche esserci di aiuto come pietra di paragone del suo messaggio sulla santificazione del lavoro.

3. I lavori manuali e quelli domestici

Diciamo subito che l’opinione di Escrivá riguardo alla materia è particolarmente positiva. Ma fino a che punto? Nella Laudato si’, per esempio, Guillaume Derville ha individuato fino a tre significati della materia, rispetto alla quale l’Enciclica manifesta anche la sua visione positiva: il corpo umano nella sua condizione sessuata; la sua capacità di dar luogo a una relazione del tu a tu (faccia a faccia); e il suo orientamento spazio-temporale per collocarsi e mettere radici[40]. San Josemaría non li ignora, ma forse è più audace in questa valutazione: «È in mezzo alle cose più materiali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini»[41]. Quali potrebbero essere queste realtà più materiali?

Nel messaggio dell’Opus Dei c’è un riferimento esplicito al grande apprezzamento di quella che è stata chiamata vita quotidiana, e più precisamente di tutti quei lavori che hanno come fine il benessere materiale e corporeo proprio della nostra condizione. In realtà, quando san Josemaría afferma che Dio ci chiama anche attraverso le cose più materiali, la sua proposta può esplicitarsi dicendo che questo si realizza attraverso alcune attività come cucinare, lavare, stirare, pulire..., attività mondane, corporali, manuali e, dunque, forse «le più materiali» e non molto attraenti o politicamente corrette. E tuttavia non si capirebbe appieno il messaggio del fondatore dell’Opus Dei se non accettassimo il significato più profondo della sua proposta quando tratta questo argomento.

Un breve excursus ci permette di ampliare un poco questa sfida che probabilmente ha prodotto una spiegabile perplessità. Dal punto di vista della filosofia e con altre distinzioni di cui ora non è il caso di tener conto, Alasdair MacIntyre, in una delle sue opere più importanti – Animalesracionales y dependientes –, denuncia una situazione simile. Autorità indiscutibile in tema di morale, riconosce che, nei suoi libri più importanti e nelle diverse tradizioni, manca una cosa alla quale si propone di rimediare: l’assenza di qualsiasi riferimento alla nostra condizione animale, alle nostre incapacità e vulnerabilità e alla necessità di riconoscerle[42]. Troviamo qui una coincidenza interessante. Nella storia della filosofia brilla per la sua assenza una profonda, radicale e positiva comprensione della nostra condizione corporale, aperta allo spirito e confrontata con le necessità quotidiane frutto della nostra fragilità. MacIntyre arriva ad affermare che «l’identità umana è fondamentalmente corporale (anche se non solo corporale) ed è, dunque, una identità animale»[43].

Il fatto che la nostra identità sia soprattutto corporale o animale ci pone dinanzi a due questioni: la vulnerabilità quotidiana che si traduce in necessità costanti, anche se forse le diamo per scontate (cibo, igiene personale, comfort, pulizia, ecc.), e la vulnerabilità non quotidiana che appare prima o poi con una malattia. Nessuna delle due suole far parte di un proposito concreto di vita in molte persone. La tecnologia ha permesso che molte attività quotidiane fossero sostituite da macchine e si diminuisse l’attenzione all’effetto umanizzante che presentano le attività domestiche. Nel caso delle misure infermieristiche, sebbene la malattia in questo periodo stia svolgendo un ruolo di primo piano a causa del Covid-19, è molto probabile che, come è successo con altre pandemie, una volta generalizzata la vaccinazione, si ritorni alla situazione precedente. In entrambi i casi, la vulnerabilità ci conduce a vari concetti importanti: quello di necessità corporee, quello di empatia e quello di dipendenza. Lì dove c’è corporeità c’è vulnerabilità, e la vulnerabilità implica una serie di necessità che vengono scoperte empaticamente da altri per aiutarci a superarle. In questo aiuto si svela la nostra dipendenza: abbiamo bisogno della cura degli altri, dell’esempio degli altri, del sostegno degli altri. E gli altri hanno bisogno di noi. Il prendersi cura è pertanto una risposta umana alla nostra condizione vulnerabile. È difficile – molto difficile – che questa cura possa offrirla una macchina o un robot[44]. Ed è così non solo perché si richiede l’empatia, ma perché le nostre necessità non sono dovute a difetti meccanici, ma sono manifestazioni di un corpo vivo, con una biografia, con un proposito e anche con emozioni e sentimenti, impossibili da risolvere grazie a un manuale di istruzioni.

A questo punto è opportuno un breve riferimento allaCare Ethics, che fa distinzione tra una cura «naturale» tra persone vicine, che avviene in modo quasi innato (care about), e un’altra che è «professionale», vale a dire, che richiede una preparazione e uno studio per poterla esercitare in modo adeguato quando le necessità lo esigono (care for)[45]. Non sono cure tra loro incompatibili. Alcuni studi affermano anche che in alcuni Paesi più sviluppati, dove la cura degli anziani è un problema reale, la tendenza è quella di dare una formazione professionale (caring for) ai membri delle famiglie che si dedicano alla cura di altri membri (caring about)[46].

Se ci riferiamo ai lavori di casa, vediamo come san Josemaría li considera «una vera professione»[47] (in vita promosse decine di centri di formazione professionale in tutto il mondo, in Paesi dove non c’era l’abitudine di offrire questi studi), con una «grande funzione umana e cristiana»[48] e una elevata dignità e incidenza sociale[49]. Il focolare «è un ambito particolarmente propizio per lo sviluppo della personalità»[50] e le attività che creano il focolare si prendono cura della «vita umana» nella sua dimensione corporea e incidono nella dimensione psichica. Inoltre gli piaceva ripetere la massima italiana «quando il corpo sta bene, l’anima balla», per mettere in primo piano questa situazione così umana di benessere che molte volte condiziona tanto la salute psichica[51] e che è sempre più difficile soddisfare esclusivamente con delle macchine.

Alla fine del XX secolo la proposta filosofica di MacIntyre collimerà con il messaggio spirituale di Escrivá, quando afferma che queste attività – o la pratica di creare e sostenere la vita familiare – permettono di sviluppare le virtù che più aiutano alla realizzazione delle persone quando cominciano la loro vita professionale[52]. E con Sennett, che si oppone forse al pregiudizio più diffuso che c’è contro di esse: il loro carattere manuale, ripetitivo, monotono. Infatti Sennett fa una distinzione rilevante per superare questo pregiudizio: una cosa è la routine della macchina o la routine burocratica, altra cosa è eliminare la routine dal lavoro o dalla vita, giacché «immaginare una vita in base a impulsi momentanei, azioni a breve termine, prive di atti routinari che l’alimentano, una vita senza abiti, vuol dire immaginare una esistenza irrazionale»[53]. E ne El artesano, Sennett sostiene per tutte le abilità, comprese le più astratte, un inizio come pratiche corporee; associa ogni buona pratica a una esperienza comunitaria; e reclama – non senza ironia – un maggior riconoscimento per i lavori manuali e quotidiani: «La laboriosa impiegata domestica sembra una cittadina migliore della sua noiosa signora»[54].

In realtà rispecchia una verità più antica, vale a dire, la profonda unità di corpo e anima, di mani e di mente, che fa dell’essere umano e del suo lavoro (anche il più intellettuale, come si è già visto) una realtà capace di rispecchiare anche le cose materiali e le cose spirituali. San Josemaría si riferirà a questa compenetrazione tra ciò che è materiale e ciò che è spirituale con una metafora spesso citata: «Il cielo e la terra, figli miei, sembra che si uniscano laggiù, sulla linea dell’orizzonte. E invece no, è nei vostri cuori che si fondono davvero, quando vivete santamente la vita ordinaria...»[55].

4. L’attività delle infermiere nel messaggio di Josemaría Escrivá

Su questo argomento, come su quello precedente, abbiamo a disposizione una dottrina che san Josemaría predicò come frutto della sua diretta esperienza[56], e concretamente, nel caso della infermieristica, durante i primi anni della sua vita sacerdotale. Come si sa, agli inizi del XX secolo le condizioni sanitarie erano in genere ben diverse da quelle attuali e c’erano molti ospedali con malati inguaribili a causa di malattie infettive e allora incurabili come la tubercolosi. Inoltre l’attività infermieristica degli anni ’50 e il suo riconoscimento come professione, specialmente in ambito latino, avrebbe tardato ancora molto ad arrivare. È nota l’affermazione di Amitai Etzioni che la considerava una semi-professione[57]. Infatti, se questo succedeva in un ambito anglosassone come quello nord-americano alla fine degli anni ’60, molto probabilmente nell’ambito latino la situazione sarà stata più critica e il riconoscimento della carriera più difficile.

Il lavoro delle infermiere, che nella maggioranza dei casi erano religiose che si dedicavano alla cura dei malati, con la preparazione di base esistente a quei tempi[58], non mancò di essere osservato da san Josemaría quando andava negli ospedali per l’assistenza sacerdotale ai malati. Non solo, ma erano proprio le infermiere che si preoccupavano di questo genere di assistenza e aprivano la strada per l’attenzione spirituale di malati molto lontani dalla fede. Questa esperienza si è rivelata fondamentale per una iniziativa pionieristica: l’apertura della Scuola di Infermiere nell’Università di Navarra nel 1954[59].

Perché considerarla pionieristica se non fu la prima scuola in Spagna? Può ben meritare questa qualifica per la concezione in base alla quale fu iniziata e che include anche la medicina. San Josemaría volle che i due corsi di studi cominciassero contemporaneamente: non uno prima (la medicina) e dopo l’altro (o viceversa)[60]. E questa idea fu pionieristica perché, in qualche modo, riconosceva la ricchezza che comporta per medici e infermiere questa convivenza accademica e pratica. Oserei dire che nella mente del fondatore dell’Università di Navarra non solo appariva molto chiara la convenienza di incoraggiare fin dall’inizio un aspetto fondamentale delle professioni riguardanti la salute, la collaborazione pratica tra gruppi interprofessionali[61], ma soprattutto l’importanza che i medici capissero sino in fondo il valore e l’efficacia dell’aspetto curativo che le infermiere danno al malato (non solo la cura del suo corpo ma, come vedremo, anche della sua anima). Si applicano a questa professione le idee prima indicate riguardo alla cura e all’empatia, questa volta in riferimento alla vulnerabilità non ordinaria e alla dipendenza che ogni malattia accresce[62], ma inoltre appare un altro importante insegnamento di Escrivá che, riferito a questo caso, è significativo e, in generale, piuttosto rivoluzionario: «Non ha alcun senso dividere gli uomini in categorie diverse secondo il tipo di lavoro, considerando alcune attività più nobili di altre»[63]. E c’è di più: «Poco importa che questa occupazione sia, come suol dirsi, rilevante o modesta, perché agli occhi di Dio una vetta umana può essere bassezza, e quel che chiamiamo umile o modesto può essere un vertice cristiano di santità e di servizio»[64]. Questo pregiudizio sociale, che è ancora radicato in molte culture nelle quali, per fare gli esempi di Amitai Etzioni, si considerano di maggior livello umano professioni come la medicina o l’avvocatura rispetto alla infermieristica, al segretariato o ai lavori domestici, è quello che io di solito chiamo «laburismo aristocratico»[65].

In ogni caso è chiaro che san Josemaría non tenne conto di questi pregiudizi nel promuovere – in seno all’Università di Navarra e all’inizio della sua vita accademica – entrambi gli studi[66]. In qualche maniera fu anche provvidenziale che la prima direttrice della Scuola di Infermiere della Università di Navarra, Maria Casal, fosse di nazionalità svizzera e che, oltre a essere medico (requisito legale per essere la direttrice), mantenesse una stretta relazione con il suo Paese[67]. Fu indubbiamente la migliore interlocutrice della mente di san Josemaría nell’avviare questa concezione pionieristica, strategica[68] e con un alto livello professionale.

Però nel messaggio di san Josemaría c’è ancora un’altra idea di fondo, che lasciamo per la conclusione finale perché, in qualche modo, riassume il suo apprezzamento per questa professione. Rispondendo a una infermiera durante uno degli incontri affollati che ebbe in Spagna negli anni ’70, san Josemaría dirà ciò che segue: «È indispensabile che vi siano molte infermiere cristiane. Il vostro lavoro, infatti, è un sacerdozio, altrettanto e più di quello dei medici. Stavo per dire di più, perché avete la delicatezza – perdonami, non è adulazione –, la immediatezza, in quanto state sempre accanto al malato... Sicché essere infermiera è una vocazione particolare di una donna cristiana. Però, perché questa vocazione si perfezioni, è necessario che siate delle infermiere ben preparate, scientificamente, e poi che abbiate una delicatezza molto grande»[69]. Le scene delle quali siamo tutti testimoni durante questi mesi di pandemia, con esperienze sulla solitudine nelle quali muoiono tanti malati, ci aiutano a capire l’attualità di queste parole. Grazie alla consolazione umana e cristiana propria di donne e – ormai già da vari anni – anche di uomini professionisti ed empatici, molti malati di Covid-19 non hanno provato la solitudine nei loro ultimi momenti. Può anche darsi che un gran numero comunque sia morto nella solitudine. Le parole di san Josemaría acquistano per questo più valore che mai: la immediatezza – o, in altre parole, l’empatia e l’accuratezza – di ogni infermiera e di ogni infermiere verso il dolore del malato, e spesso verso la sua morte, si può ben definire come un inestimabile lavoro sacerdotale, che in un certo senso rende veramente presente la consolazione di Dio e che inoltre è in condizioni di avvicinare al suo fine trascendente chi sta vivendo i suoi ultimi momenti. L’importanza di promuovere questi studi come un esplicito servizio a una società sempre più tecnologica e meno umana, unita a una concezione cristiana del dolore e della vulnerabilità, è indiscutibile.

Conclusioni

Papa Francesco e gli ultimi Pontefici hanno richiamato l’attenzione sulla capacità di umanizzare che ha l’attenzione al malato e il suo ruolo nella società di oggi. Come ha scritto Benedetto XVI, «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. [...] Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana»[70]. Ecco perché le professioni che si dedicano alla cura del malato – compiute con professionalità e con senso di servizio che riflettono valori profondamente cristiani – si erigono in condicio sine qua non per compensare il deficit di umanità di cui soffre il nostro mondo.

Ma oltre a permettere di arrivare a una profonda comprensione dell’essere umano, ogni lavoro – e ancor più le professioni che si dedicano ai lavori domestici o a quelli infermieristici – può essere anche un cammino per contemplare Dio: «Riconosciamo Dio non solo nello spettacolo della natura, ma anche nell’esperienza del nostro lavoro, del nostro sforzo. Sapendoci posti da Dio sulla terra, amati da Lui ed eredi delle sue promesse, il lavoro diviene preghiera, rendimento di grazie»[71]. Il nostro posto sulla terra e il momento che stiamo vivendo ci affidano chiaramente una missione originaria, esplicita e difficile: recuperare il valore del prendersi cura degli altri nella vita quotidiana, e in modo particolare nel nostro lavoro. Il Covid-19 ci lascia questa grande lezione e ci propone una grande sfida. Dipende da noi accettarla.

[1] Ana Marta González, “Mundo y condición humana en san Josemaría Escrivá. Claves cristianas para una filosofía de las ciencias sociales”, Romana, n. 65, luglio-dicembre 2017, p. 369 (p. 363 nell’edizione italiana).

[2] Lo faceva notare Papa Francesco nella Laudato si’ quando invitava a diffondere una cultura della cura. Cfr. Papa Francesco, Lett. enc. Laudato si’ (24-V-2015), n. 231.

[3] Cfr. Arlie Hochschild,The Commercialisation of Intimate Life: Notes from Home and Work, University of California Press, Berkeley, CA - London, 2003.

[4] Cfr. Riane Eisler,The Real Wealth of Nations. Creating a Caring Economics, Berrett-Koehler Publishers Inc., San Francisco, 2008. Cfr. anche David Pilling, El delirio del crecimiento, Taurus, Madrid, 2019, pp. 68-70.

[5] Anche se si tratta di una tesi indiscutibile, rimando all’opera di RichardSennett, The Corrosion of Character, W.W. Norton, New York-London, 1999, cap. VI, pp. 98 ss. È un eccellente studio dell’argomento.

[6] Cfr. Richard Sennett, The Corrosion of Caracter,op. cit., passim.

[7] Cfr. Zygmunt Bauman, Modernidad liquida, Fondo de Cultura Económica, 2004, 3ª ed.

[8] Cfr. FrederickW. Taylor, The Principles of Scientific Management, Harper Bros, New York, 1911.

[9] Cfr. Richard Sennett, The Culture of the New Capitalism, Yale University Press, New Heaven & London, 2006, p. 43.

[10] Cfr. Daniel Bell, El advenimiento de la sociedad post-industrial: un intento de prognosis social, Alianza Editorial, Madrid, 1976.

[11] Cfr. Alain Touraine,La sociedad post-industrial, Ariel, Barcellona, 1969.

[12] Cfr. Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe, Vintage, Parigi, 1989.

[13] Cfr. Betty Friedan, La mistica de la feminidad, Anaya, Madrid, 2009.

[14] Non entriamo nel dibattito sociologico del senso della vita quotidiana; ricordiamo solo che è vasto e relativamente attuale: cfr. PierpaoloDonati, “Senso e valore della vita quotidiana”, La grandezza della vita quotidiana. Vocazione e missione del cristiano in mezzo al mondo, Edizioni Università della Santa Croce, Roma, 2002, vol. I, pp. 221-263.

[15] Ibid, p. 227.

[16] Pedro Rodríguez, «La expresión “materialismo cristiano” in san Josemaría. Teología y mensaje», «Materialismos» e «materialismo cristiano»: propuestas y retos en diálogo con la teología, Catalina Bermúdez Merizalde, Serie Memorias 02, Universidad de la Sabana, 2016, ttps://intellectum.unisabana.edu.co/bitstream/handle/10818/31245/02.pdf?sequencce=4&isAllowed=y. Cfr. anche Ernst Burkhart - Javier López, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de san Josemaría. Estudio de teología espiritual, Rialp, Madrid, 2013, vol. III, pp. 76 ss.

[17] San Josemaría, Colloqui, n. 114.

[18] Cfr., fra gli altri, Ernst Burkhart - Javier López, op. cit., pp. 24 ss.; José Luis Illanes, Voce “Trabajo, Santificación del”, in Diccionario de San Josemaría Escrivá de Balaguer, Coord. J.L. Illanes, Ed. Monte Carmelo-Instituto Histórico San Josemaría Escrivá de Balaguer, 2013, pp. 1.202-1.210.

[19] Utilizzo la traduzione che impiega Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ (cfr. op. cit. n. 66), perché il castigliano è la lingua madre del Pontefice. Per i riferimenti di san Josemaría, cfr., per es., Amici di Dio, n. 57.

[20] Vorrei aggiungere: «Dobbiamo essere “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, guardiani del mezzo ambiente; non permettiamo che i segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo. [...] Custodire il creato, ogni uomo e ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e di amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza» (Omelia della Messa, 19-III-2013).

[21] Cfr. Josemaría Escrivá de Balaguer, Amigos de Dios. Edición crítico-histórica, a cura di Antonio Aranda, Ed. Rialp, 2019, pp. 296-297, commento al n. 57, b.

[22] San Josemaría, Amici di Dio, n. 57. Il corsivo corrisponde al testo della Vulgata di Gb 5, 7, che diceva così: homo ad laborem nascitur et avis ad volatum. Nella Neovulgata il testo è diventato: Sed homo generat laborem, et aves elevant volatum.

[23] Cfr. Discurso del método, trad. e prologo di M. García Morente, 42ª ed., Espasa Calpe, Madrid, 2007, p. 54. Nella filosofia precedente a Descartes si faceva una distinzione tra due tipi di dominio: quello assoluto, proprio del Creatore, e quello limitato, proprio dell’uomo. Cfr. José Justo Megías Quirós, “El dominio sobre la Naturaleza: de la moderación escolástica al relativismo kantiano”, Persona y derecho, vol. 70, 2014, pp. 147-169.

[24] Cfr. Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29-VI-2009), nn. 48-52.

[25] Cfr. María Pía Chirinos, “Hospidalidad y amistad en la cosmovisión griega”, in φιλία: Riflessioni sull’amicizia, a cura di M. D’Avenia e A. Acerbi, Edusc, Roma, 2007, pp. 43-48.

[26] Una delle prime avvisaglie di questo cambiamento è stata quella di Rachel Carson, con la sua opera Primavera silenciosa, Planeta, 2001 (1ª ed. 1962). Cfr. anche David Pilling, op. cit., cap. 9.

[27] Tra le opere principali segnaliamo: Carol Gilligan, In A Different Voice, Harvard University Press, Cambridge, 1982; Eva Kittay, Love’s Labor: Essays on Women, Equality and Dependency, Routledge, New York, 1999;Victoria Held, The Ethics of Care, Oxford University Press, Oxford, 2005; Michael Slote, The Ethics of Care and Empathy, Routledge, Londra e New York, 2007. Per un approfondimento di questo tema da differenti prospettive, raccomando Ana Marta González e Craig Iffland (a cura di), Care Professions and Globalization, Palgrave-MacMillan, New York, 2014.

[28] Cfr. Alasdair MacIntyre, Three Rival Versions of Moral Enquiry: Encyclopaedia, Genealogy, and Tradition, University of Notre Dame Press, Southbend, 1994.

[29] Cfr. Richard Sennett, The Craftsman, Penguin Books, London, 2008.

[30] Nel giugno del 1940 san Josemaría scriveva una lettera mentre svolgeva un’intensa attività pastorale in molte diocesi della Spagna: «Sto dando una di quelle frequenti serie di esercizi per sacerdoti, che la Gerarchia mi affida. Che gioia sento quando servo la Chiesa! Vorrei che fosse sempre questo il nostro impegno: servire». “Lettera di José María Escrivá (Ávila) a quelli di Jenner, 1 luglio 1940”, in AGP, 400701-02, citato in Onésimo Díaz, Posguerra, Rialp, Madrid, 2018, p. 150, citazione 9.

[31] «Per servire la Chiesa [...] non è indispensabile abbandonare il mondo o allontanarsi da esso, e nemmeno c’è bisogno di dedicarsi a un’attività ecclesiastica; la condizione necessaria e sufficiente è compiere la missione che Dio ha assegnato a ciascuno nel luogo e nell’ambiente voluti dalla Sua Provvidenza», Colloqui, n. 60. Cfr. anche Ernst Burkhart - Javier López,op. cit., pp. 204 ss.

[32] Cfr. José Luis Illanes, op. cit., p. 1.202.

[33] San Josemaría, Lettera n. 3, n. 26 b.

[34] San Josemaría, Amici di Dio, n. 20.

[35] Cfr. Elisabeth Reinhardt, Voce “Cosas pequeñas”, in Diccionario de San Josemaría Escrivá de Balaguer, op. cit., pp. 284-289.

[36] Ibid., n. 50.

[37] San Josemaría, Amici di Dio, n. 81.

[38] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 48.

[39] San Josemaría, Lettera 15-X-1948, n. 28: AGP, Serie A.3, 92-7-2, in José Luis Illanes, Voce “Trabajo”, op. cit., p. 1.209.

[40] Cfr. Guillaume Derville, “Cittadini sulla terra come in cielo? Un approccio all’Enciclica Laudato si’ e al messaggio di Josemaría Escrivá”, Romana, n. 60, gennaio-giugno 2015.

[41] San Josemaría, Colloqui, n. 113.

[42] Cfr. AlasdairMacIntyre,Animales racionales y dependientes, Paidós Básica, Barcellona, 2001, p. 12.

[43] Ibid., pp. 22-23. Fino a che punto MacIntyre dà importanza alla nostra condizione animale e corporale? Ecco allora una citazione che lo chiarisce: «Tutto il comportamento corporale umano in relazione con il mondo è in origine un comportamento animale, e quando si acquista la capacità di usare il linguaggio e si ristruttura questo comportamento sotto la guida dei genitori e di altre persone, quando si elaborano e si modificano le credenze di nuovi modi e si riorientano le attività, mai esso è interamente indipendente dalla eredità e dalla natura animale. In parte questo si riferisce a quegli aspetti della condizione corporale dell’essere umano che semplicemente non cambiano, quelli che rimangono costanti anche dopo la programmazione e l’ordinazione sociale e culturale delle funzioni corporali: l’addestramento per andare in gabinetto, lo sviluppo di quelli che culturalmente si considerano abiti regolari per dormire e mangiare, e l’apprendimento di quello che si considera educato e maleducato nello starnutire, sputare, ruttare, scoreggiare, ecc.». Ibid., pp. 67-68.

[44] Benché il transumanesimo miri a sostituire l’essere umano in molte funzioni, le scene vissute durante la pandemia da migliaia di professionisti della salute, che non si sono risparmiati nel rimanere con gli agonizzanti non lasciandoli morire in isolamento, dimostrano in modo tremendo che si tratta di una cosa impossibile. Uno dei migliori argomenti per opporsi al transumanesimo è proprio il valore del prendersi cura. Sull’isolamento dei pazienti di Covid-19, cfr. Marta Consuegra-Fernández - Alejandra Fernández-Trujillo, “La soledad de los pazientes con Covid-19 al final de sus vidas”. Revista de Bioética y Derecho, 50 (2020), pp. 81-98.

[45] Sono espressioni presenti nella letteratura della Care Ethics, elaborate da questa corrente del femminismo. Oltre le opere già citate, cfr., per es., Nel Noddings, Caring: A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, University of California Press, Berkeley, 1984; Joan Tronto,Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care, Routledge, New York, 1993; Nira Yuval-Davis, “Nationalism, Belonging, Globalization and the ‘Ethics of Care’”, Gender Identities in a Globalized World, Ana Marta González - V.J. Seidler (a cura di), Prometheus Book, New York, 2008, pp. 275-290. Cfr. anche María Pía Chirinos, “Care Ethics: la revalorización del cuidado cotidiano en el ámbito familiar”, Ideología del género. Perspectivas filosófica-antropológica, social y jurídica, Martha Miranda e Dolores López (a cura di), Universidad de Navarra y Promesa, San José, 2011, Tomo 1, pp. 329-345.

[46] Cfr. Richard Hugman, “Professionalizing Care - A Necessary Irony? Some Implication of the ‘Ethics of Care’ For the Caring Professions and Informal Caring”, Care Professions and Globalization, op. cit., pp. 173-193.

[47] San Josemaría, Colloqui, n. 109.

[48] Ibid., n. 87.

[49] Ibid., n. 89.

[50] Ibid., n. 87.

[51] San Josemaría, “Notas de una reunión familiar”, 29-IV-1969, citato in Camino, Edición crítico-histórica, a cura di Pedro Rodríguez, 3ª ed., Rialp, Madrid, 2004, p. 337, nota 60.

[52] Cfr. Alasdair MacIntyre, Animales racionales y dependientes, op. cit. Si può leggere anche Kim Redgrave, “‘Moved by the Suffering of Others’: Using Aristotelian Theory to Think about Care”, Care Professions and Globalization, op. cit., pp. 63-86.

[53] Richard Sennett,The Corrosion of Character, op. cit., p. 44.

[54] Richard Sennett,The Craftsman, op. cit., p. 269 (la traduzione è mia). Difendere il valore razionale, culturale, libero e sociale dei lavori manuali e quotidiani non è compito facile. Neppure è impossibile, e inoltre, come abbiamo visto, sempre più voci si aggiungono a questa causa. Comunque, questo non è il luogo per mettere in atto una difesa. Al riguardo, oltre Sennett, cfr. Matthew Crawford, Shop Class as Soulcraft, The Penguin Press, New York, 2009; María Pía Chirinos, “Juicios y prejuicios en torno al trabajo manual”, Acta Philosophica, I, vol. 21, 2012, pp. 176-181.

[55] San Josemaría, Colloqui, n. 116.

[56] Non ci siamo molto soffermati sull’esperienza biografica di san Josemaría legata ai lavori domestici per non allungare la narrazione, ma sicuramente non si tratta di un aspetto secondario del suo messaggio. San Josemaría farà molti riferimenti al provvidenziale aiuto di sua madre e di sua sorella nel portare avanti i primi centri dell’Opus Dei e armonizzare dal punto di vista materiale – e non per questo meno importante – l’aria di famiglia dell’istituzione che Dio gli aveva ispirato di fondare. I centri dell’Opera trasmettono un’idea di casa e di famiglia che è tipica della condizione secolare dei suoi membri e nella loro amministrazione si applicano criteri professionali con alti standard, risultato della formazione professionale di quelli che vi lavorano. Cfr. Andrés Vázquez de Prada, El Fundador del Opus Dei. Dios y audacia, Rialp, Madrid, 1997, vol. II, cap. XII, n. 4: “La Residencia de Jenner”; Onésimo Díaz, op. cit., pp. 119-120.

[57] Amitai Etzioni,The semi-professions and their organization: Teachers, nurses, social workers, Free Press, 1969. Per una interpretazione più recente ma modificata della posizione di Etzioni, cfr. Peter L. Hupe, “The autonomy of professionals in public services”, Professional Pride,Thijs Jansen, Gabriël van den Brink, Jos Kole (a cura di), Boom, Amsterdam, 2010, pp. 118-137; Richard Hugman, “Professionalizing Care - A Necessary Irony?”, op. cit., pp. 173-193.

[58] Josefa Centeno Brime - María IsabelArandojo Morales, “La enfermería en España desde el siglo XVI a través de las fuentes documentales”, http://www.index-f.com/para/n2....Questa origine religiosa si è avuta anche in società cristiane non cattoliche come la britannica e la svizzera, dove alcune diaconesse protestanti furono le prime a dedicarsi a questo tipo di lavori. Florence Nightingale si è ispirata ai valori cristiani più profondi per sollevare la rivoluzione della infermieristica tra i secoli XIX e XX in Gran Bretagna.

[59] Cfr. Guadalupe Arribas - Rosario Serrano, “Primeros años de la Escuela de Enfermeras”, Biblioteca virtual Josemaría Escrivá de Balaguer y Opus Dei, AHIg 10 2001.

[60] Cfr. Maria Casal, Una canción de juventud, Rialp, Madrid, 2019, cap. VIII. Ringrazio per il lavoro che ho potuto svolgere con l’autrice nel preparare questo articolo il 7 giugno 2020, via zoom.

[61] Virginia La Rosa-Salas et al., “Educación interprofesional: propuesta de la Universidad de Navarra”, EducaciónMédica, 21.6 (2020), pp. 386-396.

[62] Ora non è il caso di intervenire nel dibattito del cosiddetto detach concern nella professione medica. Rimando alla abbondante letteratura al riguardo, che sta confrontando l’argomento anche con la Care Ethics. Cfr., per es., J.A. Marcum, “Emotionally Detached Concern or Empathic Care”, Humanizing Modern Medicine: An Introductory Philosophy of Medicine, 2008, pp. 259-276.

[63] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 47.

[64] Ibid, n. 183. «Davanti a Dio, nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista il valore dell’Amore con cui viene compiuta», Solco, n. 487.

[65] Cfr. María Pía Chirinos, “Monsignor Álvaro del Portillo e la nuova evangelizzazione”, Vir fidelis multum laudabitur (a cura di Pablo Gefaell), Pontificia Università della Santa Croce, Edusc, 2014, vol. 1, pp. 167-186. Anche se si può rilevare una posizione che oggi si direbbe maschilista, perché oltretutto continua a esserci una forte componente femminile nelle professioni di cura, in fondo una parte della colpa di questo apprezzamento ricade anche sulle correnti femministe. La lotta del femminismo per una uguaglianza incentrata nel potere economico, e quindi anche nell’accesso al mondo del lavoro, assunse come per osmosi alcuni elementi negativi del capitalismo e dell’individualismo che il sistema già aveva. Invece di umanizzare gli uomini, il femminismo materializzò le donne; e invece di ottenere che l’uomo fosse più partecipe in famiglia, si svalutò il contesto – la casa con i suoi lavori – che lo aveva permesso.

[66] Benché sembri un particolare aneddotico, le prime direttrici della futura scuola avevano molto chiaro in mente che anche all’esterno si doveva riflettere l’alto standard di eccellenza, ancor più trattandosi di una professione che richiede una uniforme. In Spagna l’immagine dell’infermiera fuori dagli ospedali era associata a un ampio mantello di colore nero, di taglio piuttosto militare e che faceva pensare a gesta gloriose più che al lavoro quotidiano dell’assistenza. Il problema consisteva nel trovare un’alternativa elegante e allo stesso tempo innovatrice che potesse rispecchiare il prestigio degli studi. L’incarico di disegnare il nuovo modello fu affidato a una nota sarta di Madrid, Flora Villareal, e furono scelte, fra le altre cose, alcune caratteristiche peculiari: un colore tabacco che sostituiva il bianco abituale, polsini bianchi, un cappotto anch’esso color tabacco. Cfr. Guadalupe Arribas - Rosario Serrano, “Primeros años de la Escuela de Enfermeras”, op. cit., p. 732.

[67] Cfr. Maria Casal, Una cancion de juventud, op. cit., cap. VIII. Cfr. anche “Pflegepersonal”, in Historischers Lexikon der Schweizer, https://hls-dhs-dss.ch/de/arti.... Come si sa, l’approccio e lo sviluppo delle professioni tecniche in Svizzera hanno permesso che il loro prestigio fosse molto elevato. Inoltre è molto ammirevole che sia una società in cui non esiste l’aspirazione generalizzata di frequentare un corso universitario come soluzione per diventare importanti. La formazione tecnica è riuscita a collocarsi nella mappa delle professioni come un complemento necessario della formazione universitaria, che si dedica ad aspetti più teorici e si appoggia sulle professioni pratiche. A questo si aggiunge anche la lunga tradizione della Croce Rossa, che sempre, ma specialmente durante le due guerre mondiali, ha diffuso una grande influenza e una formazione concreta a migliaia di donne che collaboravano durante il conflitto come infermiere. Nel XIX secolo e anche nella prima parte del XX secolo la Svizzera e la Gran Bretagna sono state nazioni in cui le infermiere hanno goduto di grande prestigio.

[68] Con questo stesso disegno e questo spirito alcuni anni dopo sono man mano sorte alcune iniziative simili in tutto il mondo. Molte di esse (per non dire tutte) hanno dovuto fare i conti con i problemi di mancanza di prestigio della infermieristica caratteristici dell’ambito latino; ma con il tempo questa esperienza si è dimostrata molto positiva. Nella Università delle Ande (Cile) la facoltà di Medicina è cominciata nel 1991 e un anno dopo è stata la volta della Scuola di Infermiere; nella Università della Sabana (Colombia) è partita per prima la Infermieristica (1991) e tre anni dopo la Facoltà di Medicina (1994). Nella Università Campus Biomedico (Italia) i due corsi sono iniziati contemporaneamente nel 1993; lo stesso accade tre anni più tardi nella Università Australe (Argentina) e nella Università Panamericana (Messico). Un caso emblematico è lo ISSI (Istituto Superiore in Scienze Infermieristiche) a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, la cui apertura è stata voluta direttamente dal primo successore di san Josemaría, il beato Álvaro del Portillo, e che ha iniziato i suoi corsi nel 1997. Il suo ruolo è stato decisivo per quello che ora è l’Hospital Monkole, un centro della salute di riferimento del Paese, e per propagare una concezione della infermieristica professionale e cristiana. Infine, nella maggioranza di queste scuole, che all’inizio erano solo per donne, sono state aperte le porte anche agli uomini, che hanno fatto proprio il compito di esercitare l’empatia e l’affettuosità nel compiere la loro professione.

[69] Parole di san Josemaría riportate in Maria Casal, Una canción de juventud, op. cit., cap. VIII.

[70] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe Salvi (30-XI-2007), n. 38.

[71] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 48. Cfr. José Ignacio Murillo, “Contemplación de Dios: El trabajo como manifestación de Dios”, in AA.VV., Trabajo y espíritu, EUNSA, Pamplona, 2004, p. 146.

Romana, n. 70, Gennaio-Dicembre 2020, p. 172-189.

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