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Medici di vari Paesi condividono esperienze nelle Harambee Covid-19 Conversations

Mons. Fernando Ocáriz ha partecipato nel mese di luglio alla seconda edizione delle Harambee Covid-19 Conversations, colloqui tra professionisti della salute dell’Africa e di altre regioni del mondo flagellate dalla pandemia. I sanitari hanno riflettuto sul tema “Le risposte cristiane alla pandemia”. Hanno partecipato otto esperti di Congo, Argentina, Costa d’Avorio, Italia, Nigeria e Spagna, invitati dalla ONG Harambee-Africa International.

«Grazie per le vostre riflessioni e per le vostre informazioni – ha detto il prelato nel saluto ai partecipanti –, e grazie in modo particolare per il vostro servizio ai malati e alle loro famiglie. Si impara molto ascoltando le vostre esperienze. Si nota che vi siete occupati della salute fisica dei malati, cosa molto importante, ma anche che avete dato dignità a tante persone, avete trasmesso l’amore di Dio a molti malati e ai loro familiari».

Dalla Costa d’Avorio ha partecipato la dottoressa Rose Segla, ginecologa del Centro Medico-sociale Walé di Yamoussoukro. Ha spiegato che «la maggior parte dei casi di Covid sono stati registrati nella città di Abidjan, nel Sud del Paese, da cui si può entrare o uscire solo con un salvacondotto». Secondo la dottoressa, un punto chiave è dare assistenza a persone che hanno perduto il lavoro o altre fonti di risorse economiche: «Nel nostro Paese – ha affermato – le cure mediche costano molto ed esistono malattie endemiche, come la malaria, che richiedono un trattamento continuo. Walé e altre istituzioni di ispirazione cristiana cercano di dare un aiuto riducendo i costi delle visite, delle analisi e delle medicine».

Dall’Argentina proveniva Rafael Aragón, dirigente del Hospital Solidario Covid Austral, un centro costituito per accogliere i malati di coronavirus che non possono accedere alle strutture sanitarie per mancanza di risorse economiche. Secondo il segretario generale del Hospital Universitario Austral, in una crisi di questa portata, tra i valori fondamentali di un centro sanitario con un’identità cristiana sono da annoverare «la solidarietà, la compassione, la vocazione di servizio e la responsabilità sociale verso i più bisognosi». Questi sono stati «i valori che hanno motivato molte persone e hanno incrementato gli aiuti individuali e istituzionali che hanno reso possibile un progetto di questa portata».

Ito Diejomaoh è il direttore del Niger Foundation Hospital di Enugu (Nigeria). Ha spiegato che «per il momento la maggior percentuale di contagi si sta verificando tra i medici e gli infermieri, e molti hanno paura». Ha ammesso che il Dipartimento delle emergenze dell’ospedale era sotto pressione e che si era stati tentati ripetutamente di chiuderlo: «Eppure la risposta del personale è stata unanime: non abbandoneremo mai i pazienti a sé stessi». Ha poi aggiunto: «Continueremo ad adottare tutte le precauzioni possibili, ma vogliamo tenere sempre presente il suggerimento di san Josemaría, ispiratore dell’ospedale: mettere sempre la persona al centro».

La neurologa María Sánchez-Carpintero si è collegata dall’Ospedale Universitario Infanta Elena di Madrid, uno dei primi centri pubblici della Spagna ad accogliere malati col virus. Ha voluto sottolineare la «dedizione che ho visto nei miei colleghi». Al di là delle esigenze della professionalità, per i medici era naturale dedicare molto tempo «a tenere compagnia ai pazienti senza familiari che li assistessero, oltre a fornire le cure imprescindibili». Ha anche raccontato che, in molti casi, lei e altri colleghi sono rimasti con i pazienti nei loro ultimi istanti, «prendendoli per mano, parlando con i parenti, facendo loro un segno di croce sulla fronte o qualunque altra cosa che li aiutasse a non sentirsi soli».

Dalla Repubblica Democratica del Congo ha partecipato la dottoressa Nicole Muyulu, infermiera diplomata e docente dell’Istituto Superiore di Scienze Infermieristiche (ISSI) di Kinshasa. Ha ricordato che il Covid è molto diffuso in Congo, ma «impareremo a conviverci, come conviviamo con la malaria e tante altre malattie. Ogni tanto c’è e ci sarà una crisi. Quello che vogliamo insegnare ai nostri studenti e a tutte le infermiere è che non devono mai abbandonare i malati, perché il servizio che prestano loro è indispensabile per la società». Questo è un «fattore chiave in un centro educativo di ispirazione cristiana».

Per l’Italia, il Paese europeo più colpito all’inizio della pandemia, ha parlato Felice Agrò, direttore dell’Unità Covid del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma. Ha raccontato che alcuni pazienti erano scoraggiati e affrontavano con pessimismo la loro prognosi. Oltre che per la guarigione fisica, il personale dell’Unità ha lavorato anche a livello psicologico: «Da uno abbiamo saputo che il suo piatto preferito è la pasta all’amatriciana, e in cucina gliene hanno preparato un bel piatto; a un altro abbiamo comprato degli occhiali perché li aveva perduti... A parte questi gesti di umanità, la maggioranza dei pazienti ha provato una grande consolazione quando abbiamo fatto in modo che un sacerdote potesse portare loro l’Eucaristia».

Ana María Pérez Galán rappresentava il gruppo dirigente di Laguna, il più grande ospedale specializzato in cure palliative della Spagna e il secondo in Europa, nato nel 2002 in occasione del centenario della nascita di san Josemaría. Pérez Galán ha fatto notare che «in questa pandemia molti dei nostri pazienti erano malati rifiutati, che nessuno voleva negli ospedali generali perché avevano scarsissime possibilità di guarire dal Covid».

Durante tutto questo tempo, ha proseguito, «abbiamo assistito anche le loro famiglie, perché nessuno morisse solo». Per far questo «abbiamo dovuto mettere in atto delle soluzioni creative, nelle quali la persona malata era posta sempre al centro. Ciò ha comportato un grande impegno di tutta l’équipe, ma ne è valsa la pena». A Laguna, ha aggiunto Pérez Galán, la risposta cristiana «è stata amare ogni persona vedendo in ognuna di esse l’immagine viva di Cristo». Nel lavoro di questi mesi ha avuto grande importanza la generosità di tanti volontari come Ines, «una studentessa di medicina che era stata colpita dal Covid e che, una volta guarita, si è dedicata anima e corpo all’assistenza dei malati per sette/otto ore al giorno».

Da Kinshasa ha partecipato anche il dott. René Lumu Kambala, padre di sei figli, specializzato in medicina d’urgenza e attualmente direttore dell’OspedaleMonkole. Ha raccontato che la struttura aveva cominciato a ricevere pazienti di Covid da due mesi, su richiesta delle autorità del Paese. «Abbiamo iniziato – ha specificato – con 25 letti, che ben presto sono diventati 32, compresi 8 di terapia intensiva; data la situazione, speriamo di poter portarli a 45 nelle prossime settimane. Attualmente abbiamo 126 pazienti positivi». Ha detto anche che, «come cristiani, assistiamo questi pazienti con professionalità e offriamo loro tutto ciò che è necessario perché guariscano; però ci sforziamo anche di dare alla terapia un volto umano, perché il paziente non è un caso ma una persona che vuole essere ascoltata. Questo è molto apprezzato da tutti i pazienti: vogliono essere considerati degli esseri umani».

Nel saluto finale mons. Ocáriz ha ricordato alcune parole di san Josemaría, al cui messaggio si ispira la ONG Harambee: «Vedo scorrere in voi il Sangue di Cristo!». Per il prelato, lì sta la radice del servizio disinteressato del cristiano: «Vedere Cristo nell’altro, nel malato, nella sua famiglia, in ogni persona con la quale entriamo in contatto».

«Mentre parlavate – ha detto poi – mi veniva nuovamente in mente la riflessione di Papa Francesco in quel momento straordinario di preghiera per la pandemia dello scorso 27 marzo, quando ci ricordava che siamo tutti sulla stessa barca, fragili ma importanti e necessari, bisognosi di confortarci a vicenda». Tutti importanti perché «ogni persona è immagine di Cristo

Romana, n. 70, Gennaio-Dicembre 2020, p. 132-135.

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