“Il lavoro di prendersi cura del mondo”, quotidiano Clarín (Argentina) (1-V-2020)
Quest’anno la giornata del lavoro invita a riflettere sulle realtà e gli aspetti diversi che la crisi del coronavirus ha messo più in rilievo: che nel mondo sono tantissime le persone buone, che il progresso deve andare unito a un dominio della natura che contemporaneamente corrisponda a rispettarla, che dipendiamo gli uni dagli altri, che siamo vulnerabili e che una società, per essere umana, deve essere anche solidale.
Nella risposta alla pandemia vengono messe in evidenza soprattutto le professioni che si occupano della cura delle persone. I titoli dei giornali contengono parole collegate a “prendersi cura”: tenere compagnia, piangere, proteggere, ascoltare... Questa situazione ci fa riflettere sul “perché” e sul “fino a che punto” di qualsiasi lavoro. In qualche modo comprendiamo meglio che il servizio è l’anima della società, ciò che dà un senso al lavoro.
Il lavoro è qualcosa di più di una necessità o di un prodotto. Il libro della Sacra Scrittura che racconta le origini dell’umanità informa che Dio creò l’uomo “perché lavorasse” e custodisse il mondo (cfr. Genesi 2, 15). Il lavoro non è un castigo, ma la situazione naturale dell’essere umano nell’universo. Lavorando, stabiliamo una relazione con Dio e con gli altri, e ognuno può crescere meglio come persona.
La reazione esemplare di tante e tanti professionisti, credenti o meno, in occasione della pandemia ha messo in evidenza questa dimensione di servizio e di aiuto, pensando che il destinatario ultimo di qualunque attività o professione è qualcuno con nome e cognome, qualcuno con una dignità irrinunciabile. Ogni lavoro nobile è riconducibile, in fin dei conti, al lavoro di “prendersi cura delle persone”.
Quando ci sforziamo di lavorare bene e a vantaggio del prossimo, il nostro lavoro, qualsiasi lavoro, acquista un significato completamente nuovo e può diventare la strada per un incontro con Dio. Fa molto bene inserire nel lavoro, anche il più ripetitivo, la prospettiva della persona, che è quella del servizio, che va ben oltre l’impegno dovuto per la retribuzione da ricevere.
Come nei primi tempi del cristianesimo, anche ora si avverte con forza il potenziale di ogni laico che cerca di essere testimone del Vangelo, gomito a gomito con i propri colleghi, condividendo la passione professionale, l’impegno e l’umanità in mezzo all’attuale sofferenza provocata dalla pandemia e dall’incertezza per il futuro.
Ogni cristiano è “chiesa” e, malgrado i propri limiti, in unione con Cristo può immettere l’amore di Dio “nel torrente circolatorio della società”, secondo un’immagine usata da san Josemaría Escrivá, che predicò il messaggio della santità attraverso il lavoro professionale. Anche con il nostro lavoro e il nostro servizio possiamo far capire quanto Dio si preoccupi per ognuno di noi.
Oggi la celebrazione del 1° maggio è anche preoccupazione per il futuro, vista l’insicurezza lavorativa a breve o medio termine. Noi cattolici ricorriamo con particolare forza all’intercessione di san Giuseppe Lavoratore, affinché nessuno perda la speranza e si sappia adeguare alla nuova realtà, illumini coloro che debbono prendere le decisioni e ci aiuti a capire che il lavoro è per la persona e non il contrario.
Nei prossimi mesi o anni sarà importante “fare memoria” di ciò che abbiamo vissuto, come ha chiesto Papa Francesco, e ricordare che “ci rendiamo conto che siamo tutti nella stessa barca, tutti fragili e disorientati; ma, nello stesso tempo, importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme”.
Speriamo che questo 1° maggio ci faccia desiderare che la libertà riacquistata al termine dell’isolamento sia veramente una libertà “al servizio degli altri”. Il lavoro consisterà allora, secondo l’originario disegno di Dio, nel prendersi cura del mondo e, in primo luogo, delle persone che lo abitano.
Romana, n. 70, Gennaio-Dicembre 2020, p. 57-58.