Nella chiesa dell’ex seminario di San Carlo, Saragozza, Spagna (30-III-2019)
«Due uomini salirono al Tempio a pregare...» (Lc
18, 9-14).
Ascoltare oggi, qui, questa parabola ci può far pensare alla orazione perseverante che san Josemaría rivolgeva al Signore, in questo luogo, chiedendo lumi per vedere il cammino al quale si sentiva chiamato ma che non conosceva ancora nei suoi aspetti concreti. Nell’attuale casa sacerdotale di San Carlo, una targa commemorativa ricorda che qui san Josemaría «visse, si formò e fu ordinato sacerdote». Anche per la collocazione di questa targa, che ci ha fatto molto piacere, il nostro ringraziamento va al direttore della casa sacerdotale, don Carlos Palomero.
Nel 1960, quando gli fu conferito il dottorato honoris causa dall’Università di Saragozza, san Josemaría fece un riferimento ai «ricordi indelebili di tempi ormai lontani: anni trascorsi all’ombra del seminario di San Carlo, sul cammino del sacerdozio». Tra questi ricordi c’era senz’altro anche quello della prima volta che, da diacono, diede in questa chiesa la Santa Comunione a sua madre.
Qui, davanti al Signore sacramentato, trascorse per anni molte ore di orazione nella tribuna di destra nella parte superiore del presbiterio. Una orazione che si sarebbe intensificata progressivamente durante la vita di san Josemaría, soprattutto da quando ricevette da Dio la missione di iniziare e sviluppare il cammino dell’Opus Dei. Trasmetteva sicuramente la propria esperienza quando in una omelia, come in molte altre occasioni, affermava: «L’orazione è il fondamento di ogni attività soprannaturale; l’orazione ci rende onnipotenti, e se prescindessimo dalla sua potenza non otterremmo nulla» (Amici di Dio, n. 238).
Com’è la nostra orazione? «Due uomini salirono al Tempio a pregare...». Il fariseo ringrazia Dio; pertanto riconosce che le sue qualità e le sue buone azioni non sarebbero possibili senza l’aiuto del Cielo. È cosa molto buona ringraziare. Tuttavia quell’uomo in realtà stava lodando sé stesso e, soprattutto, disprezzava gli altri e gli mancava una cosa assolutamente indispensabile: riconoscersi anch’egli bisognoso di misericordia e di perdono. Invece il pubblicano, solo per essersi confessato peccatore e bisognoso della misericordia di Dio, fu perdonato.
Possiamo considerare brevemente due elementi della nostra relazione con il Signore: il ringraziamento e la richiesta di perdono; due aspetti che si basano sulla fede, soprattutto sulla fede nell’amore di Dio per ciascuna e ciascuno di noi. Che bella la sintesi che fa san Giovanni della esperienza degli apostoli nel loro rapporto con Gesù! «E noi — dice — abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4, 16). Come spiega Papa Francesco, «la fede significa anche credere in Lui [in Dio], credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività»[1].
Abbiamo tanti motivi per rendere grazie a Dio e chiedergli perdono! E, avendo fede nel suo amore, aggiungiamo con fiducia la richiesta di aiuto, perché ne abbiamo sempre bisogno. Lo possiamo riassumere in quella preghiera che rivolgeva al Signore il beato Álvaro del Portillo, che ha seguito con tanta fedeltà gli insegnamenti del fondatore dell’Opus Dei: «Grazie, perdono, aiutami di più».
Insieme all’orazione, l’Eucaristia. Oggi, anniversario della prima Messa di san Josemaría, non posso non ricordare che insisteva sempre, con le sue figlie e i suoi figli nell’Opera, sulla necessità di essere «anime di Eucaristia, anime di orazione»; e il suo insegnamento, fatto vita, sulla Santa Messa come «centro e radice» della vita spirituale.
In quella prima Messa di san Josemaría, insieme alla sua gioia e alla sua gratitudine, il Signore volle che, anche per dolorose circostanze familiari, fosse presente la santa croce. Quando nella nostra vita arriva, in qualsiasi forma, la sofferenza, rivolgiamo lo sguardo alla croce di Gesù, ricorriamo a Lui nell’Eucaristia; e la sofferenza, unita al sacrificio del Signore, si trasformerà in forza spirituale e in sorgente di gioia.
Stiamo celebrando l’Eucaristia. Fra pochi minuti sull’altare si renderà presente il sacrificio di Cristo. Rinnoviamo la nostra gratitudine al Signore, che ha voluto anche darsi a noi come cibo di vita eterna nella Santa Comunione. Come spiegava san Leone Magno alcuni secoli fa, «la nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo»[2]. È soprattutto così che si realizza quell’essere ipse Christus, lo stesso Cristo, di cui san Josemaría ci parlava e scriveva così spesso.
Essere lo stesso Cristo perché, come ci dice il Signore, «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6, 56), così da vedere le cose e comportarci davanti alle persone, alle circostanze, al bene e al male di questo mondo e alla nostra stessa vita, come le vede e si comporta Gesù. Di conseguenza, pensiamo e agiamo con autentico interesse, affetto e spirito di servizio verso gli altri.
Dopo aver raccontato la parabola dei due uomini che salirono al Tempio per pregare, il Signore conclude: «Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». Dio non gode della nostra umiliazione; vuole la nostra umiltà per esaltarci, perché, svuotandoci dell’amor proprio disordinato, facciamo spazio nella nostra vita all’azione della sua grazia, del suo amore. Anche l’umiliazione, come ogni cosa nella vita cristiana, fa riferimento all’Eucaristia e, dunque, alla croce.
Orazione, Eucaristia, croce, umiltà, con la gioia dei figli di Dio e, sempre, con la mediazione materna di Santa Maria, Nostra Signora del Pilar, davanti alla cui effigie san Josemaría celebrò la sua prima Messa.
[1] Papa Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium, n. 278.
[2] San Leone Magno, Discorso 12 sulla Passione del Signore.
Romana, n. 68, Gennaio-Giugno 2019, p. 83-85.