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Intervento al congresso internazionale “San Josemaría e il pensiero teologico”, Pontificia Università della Santa Croce, Roma (14-XI-2013)

Cinquant’anni dopo il Concilio Vaticano II: il contributo di San Josemaría

Anche nel XX secolo lo Spirito Santo ha voluto uno di quei grandi rinnovamenti che costellano la bimillenaria storia della Chiesa: una crescita spirituale, intellettuale e teologica, frutto dell’intreccio di diversi carismi, di svariate correnti di pensiero e della risposta dei cristiani alle sfide pastorali del mondo moderno. Basta pensare, per esempio, al Cardinale Joseph Cardijn, al Beato Columba Marmion, all’Abbé Paul Couturier, al movimento ecumenico o a quello liturgico.

Non sono mancati i Santi, donne e uomini che, per il loro messaggio e la loro azione pastorale, si possono considerare doni di Dio mandati a illuminare per noi il percorso vitale della Chiesa. San Josemaría Escrivá è uno di quelli. La luce che ebbe da Dio a Madrid, il 2 ottobre 1928, fu un intervento divino a favore dell’edificazione del corpo di Cristo, di cui parla San Paolo nella Lettera agli Efesini (cfr. Ef 4,13 e 15s). A metà del XX secolo fu convocato e celebrato il Concilio Vaticano II: i fermenti di rinnovamento spirituale e teologico, nati e cresciuti negli anni precedenti, furono la base ispiratrice dell’elaborazione, sotto la guida dello Spirito Santo, di documenti magisteriali e orientamenti basilari per la trasmissione della fede nel mondo odierno. Quella Assemblea Conciliare è stata, indubbiamente, un grande dono di Dio alla sua Chiesa alla fine del secondo millennio.

Come è noto, dal 1928 in poi San Josemaría si dedicò generosamente a diffondere il messaggio divino che lo Spirito Santo gli aveva affidato, e che influì sul Concilio Vaticano II. Ancora oggi, a cinquant’anni dal Concilio, quel messaggio continua a offrire alla Chiesa una sua luce, assieme a quella di tanti altri Santi antichi e moderni, affinché il Popolo di Dio svolga pienamente la missione affidatagli da Cristo. Lo sottolineò il Beato Giovanni Paolo II nel 1993, un anno dopo la beatificazione del Fondatore dell’Opus Dei, ricordando quanto il Concilio aveva ribadito in merito al servizio della Chiesa alla redenzione, in tutte le dimensioni dell’esistenza umana, quando aggiunse: «Il messaggio del Beato Josemaría [...] costituisce uno degli impulsi carismatici più significativi in questa direzione»[1].

Sono passati ormai vent’anni da quel discorso di Giovanni Paolo II, e noi guardiamo ancora al Concilio e a San Josemaría Escrivá come a due grandi doni di Dio alla Chiesa non solo per il ventesimo secolo, ma anche per il momento presente: nel loro rapporto vicendevole e nella loro diversità, contribuiscono ad avvicinare Cristo ogni giorno di più alla vita dei cristiani e al mondo. La diversità è evidente. Un Concilio e i documenti da esso approvati sono una manifestazione speciale del magistero ecclesiastico. L’insegnamento di un Santo, invece, è una testimonianza di fede, speranza e carità profondamente vissute lungo tutto l’arco di una vita normalmente ampia e varia. Il Concilio, come ogni atto del magistero ecclesiastico assistito dallo Spirito Santo, trascende il proprio tempo. In modo analogo, anche l’influsso dei Santi non si esaurisce negli eventi vissuti da loro. In particolare quello di San Josemaría, come ricordava Mons. del Portillo, mio amato predecessore, non si estende solo agli anni della sua vita o al suo contributo allo svolgimento del Vaticano II, ma continua a essere efficace anche ai giorni nostri[2]. Non è mia intenzione, adesso, soffermarmi a tratteggiare nel suo insieme l’influsso dello spirito dell’Opus Dei sulla vita della Chiesa; e tantomeno rivolgerò il mio sguardo al futuro. Cercherò, più semplicemente, di descriverne, per quanto possibile, il contributo alle assise conciliari e all’immediata ricezione dei documenti magisteriali.

Desidero premettere due considerazioni, che ritengo utili per situare correttamente il nostro tema nella storia e nella vita della Chiesa.

La prima riguarda la valutazione del contributo di un Santo all’insegnamento di un Concilio Ecumenico o, più in generale, allo sviluppo del magistero e del pensiero cristiano. Non mancano gli studi, e ne seguiranno altri in avvenire, in cui si esamina quanto un Concilio sia debitore di un Santo, di un teologo, di un pastore o di una determinata scuola di pensiero[3]. Paolo VI, parlando del Vaticano II, lo presentò come “l’ora di Newman”[4]. In futuro, lo sviluppo degli studi teologici e storici potrà precisare di più sia la portata dell’influsso del Cardinale inglese sulle assise conciliari, sia l’eventuale influsso di altri Santi dell’epoca moderna o contemporanea.

Nel nostro caso occorre tener presente che, quando il Beato Giovanni XXIII annunciò la convocazione del Concilio, il Fondatore dell’Opus Dei era una persona già matura, con molti anni di esperienza alla guida dell’Opus Dei, che aveva avuto — grazie a Dio — un grande sviluppo negli anni posteriori alla Seconda Guerra Mondiale[5]. Perciò, il suo contributo non si può ridurre a un confronto dei suoi scritti con i testi conciliari, ma bisogna considerare anche altre fonti e altre vie. Il suo spirito entrò nel Concilio attraverso i suoi colloqui con i Padri conciliari, che posso testimoniare personalmente per la mia assidua presenza accanto a lui in quegli anni. E anche, o soprattutto, grazie alla vita di tanti fedeli dell’Opus Dei, che manifestavano, nei diversi Paesi in cui vivevano e lavoravano, uno spirito capace di promuovere efficacemente la santità in mezzo al mondo, rispondendo alle sfide che un cristiano incontra nel proprio cammino.

La seconda considerazione riguarda lo svolgimento del Vaticano II e il ruolo del Fondatore dell’Opus Dei nella sua celebrazione. San Josemaría non fu Padre conciliare. Ci troviamo di fronte, perciò, a un rapporto non riconducibile a degli interventi in Aula, come capita — ad esempio — con il Beato Giovanni Paolo II, intervenuto al Concilio come Padre conciliare in qualità di Vescovo ausiliare di Cracovia. Ciò nonostante, San Josemaría ebbe un rapporto con il Vaticano II che attraversò tutte le tappe della sua storia: a) gli anni precedenti al Concilio, che ne fecero un precursore per la sua predicazione e il suo lavoro sacerdotale; b) il lavoro svolto a Roma, grazie ai frequenti incontri con i partecipanti alle sessioni del Concilio; c) la ricezione dei documenti conciliari, che egli accolse e applicò all’Opus Dei, come tutti i pastori che hanno adempiuto questo compito negli anni successivi al Concilio[6].

Tali considerazioni sosterranno la struttura di questa relazione. In primo luogo, vedremo il contributo di San Josemaría Escrivá durante la fase preparatoria e anti-preparatoria del Vaticano II. E poi mi riferirò alla sua azione durante lo svolgimento delle assise e, infine, al modo in cui egli favorì la ricezione della dottrina conciliare.

1. Tra l’annuncio e l’inaugurazione del Vaticano II

Sin dal momento in cui il Beato Giovanni XXIII annunziò la convocazione del Concilio Ecumenico, San Josemaría la accolse vedendovi un avvenimento destinato a contribuire potentemente al bene della Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo. Da buon conoscitore della storia era anche consapevole che i Concili portano alla Chiesa grandi beni, ma rischiano di essere oggetto di letture parziali o addirittura erronee, e percepiva le difficoltà in agguato nelle divisioni ideologiche della civiltà contemporanea. Non era remota la tentazione di inquadrarne la dottrina in quello stesso contesto e di strumentalizzarla al servizio delle proprie idee. Egli, invece, vi aderì subito alla luce della fede, senza ingenuità, ma allo stesso tempo senza temere il rinnovamento e le riforme che ne sarebbero scaturiti, secondo gli auspici di Giovanni XXIII.

Essendo molto vicino a San Josemaría in quegli anni, ho potuto toccarne con mano la grande speranza soprannaturale nell’azione di Dio, che attraverso il Concilio avrebbe giovato a tutta la Chiesa, imprimendo una rinnovata spinta alla sua missione nel mondo. Tra gli altri beni attesi, egli si augurava che il Concilio ponesse l’accento sulla chiamata universale alla santità e all’apostolato, sulla vocazione e missione dei laici, nonché sulla loro spiritualità specifica. Senza rinunciare alla possibilità, da lui tanto caldeggiata, dell’apertura di una soluzione alla situazione giuridica e istituzionale dell’Opus Dei nella Chiesa. Com’è noto, su questo argomento specifico c’è un’ampia bibliografia.

Alcuni mesi prima dell’apertura del Concilio, San Josemaría scrisse alle persone che Dio gli aveva affidato:

«In queste fasi preliminari del prossimo Concilio Ecumenico Vaticano II — per il quale tutti noi, in unione fervorosa di intenzioni con il Santo Padre Giovanni XXIII, stiamo chiedendo l’assistenza speciale dello Spirito Santo, e offrendo mortificazioni quotidiane — si dedica particolare attenzione al tema del laicato: alla sua spiritualità e alla sua missione apostolica.

«Sapeste quanto mi rallegra sapere che il Concilio si occupi dei temi che dal 1928 riempiono la nostra vita! Ringrazio Dio nostro Signore, per la parte che l’Opera, la sua vita, la sua spiritualità, i suoi apostolati, hanno potuto avere, insieme ad altre benemerite Associazioni di fedeli, nell’avvio di questo fenomeno di approfondimento teologico, che senza dubbio porterà grandi beni alla Chiesa»[7].

Già prima della lettera testé citata, e quindi poco dopo l’annuncio fatto da Papa Giovanni XXIII, il Fondatore dell’Opus Dei aveva scritto a tutti i fedeli dell’Opus Dei, presenti in quel momento in una cinquantina di Paesi, per chiedere speciali preghiere e mortificazioni per il felice esito delle assise. San Josemaría era ben consapevole, infatti, che le iniziative apostoliche e gli eventi ecclesiali portano un frutto durevole quando si sviluppano in unione con Colui che è datore di grazia e di vita, e in comunione con il Romano Pontefice. Dopo un’udienza concessagli da Papa Giovanni XXIII il 27 giugno 1962, egli scrisse:

«Ricorderete che allorché il Santo Padre annunziò il Concilio Ecumenico io scrissi a tutti voi (figlie e figli miei), per indicarvi le preghiere e le mortificazioni [...] che dovevano essere offerte al Signore per il Concilio Ecumenico: ora, dopo questa Udienza, è mio desiderio che alle preghiere già prescritte aggiungiate, ancor di più, delle penitenze volontarie [...] e che offriate per tale intenzione anche molte ore del vostro lavoro quotidiano, ovunque esso si svolga: nelle università, nelle fabbriche o nelle campagne, negli uffici pubblici o nelle libere professioni, nell’amministrazione domestica delle nostre case o in seno alle famiglie: fate tutto questo in unione con Dio, per la felice riuscita di questa grande iniziativa che è il Concilio Vaticano II. So che è questa la grande intenzione del nostro Santo Padre, e amo che anche noi, nel nostro piccolo, possiamo contribuirvi, mediante la nostra orazione, la penitenza e il lavoro santificato e santificante»[8].

Oltre al ricorso ai mezzi soprannaturali, il Fondatore dell’Opus Dei cercò di contribuire alla felice riuscita del grande evento conciliare con la propria collaborazione e il proprio lavoro. Come è noto, Papa Giovanni XXIII nel 1959 aveva istituito una Commissione anti-preparatoria, presieduta dal Cardinale Domenico Tardini, Segretario di Stato, allo scopo di raccogliere le proposte su argomenti che il futuro Concilio avrebbe dovuto esaminare. Ricordo che la lettera con cui il Cardinale chiese a tutte le autorità ecclesiastiche e accademiche questo aiuto spinse San Josemaría a organizzare a Villa Tevere — la sede centrale dell’Opus Dei — un gruppo di lavoro per preparare, sotto la sua direzione, temi e suggerimenti da inviare ai diversi organismi che si stavano creando nel frattempo. Inoltre, consigliò a tutti i suoi figli di rendersi disponibili, qualora ciò fosse stato loro richiesto o se ne sentissero capaci, per collaborare con idee e suggerimenti alle riunioni promosse a questo scopo nelle Chiese particolari[9].

Le risposte pervenute alla Santa Sede da Vescovi, università e altri istituti di studio furono molto numerose e l’anno seguente il Sommo Pontefice poté aprire la fase preparatoria del Concilio, con il “Motu proprio” Superno Dei nutu del 5 giugno 1960, con cui istituiva le diverse commissioni incaricate dell’elaborazione degli schemi. Alla fine del mese, il 27 giugno, San Josemaría incontrò il Cardinal Tardini, con cui parlò, fra l’altro, della preparazione delle assise; il Cardinale gli chiese di mandargli un elenco di membri dell’Opera che avrebbero potuto collaborare nelle commissioni preparatorie[10]. Il giorno dopo Mons. Escrivá gli rispose con una lettera in cui indicava dodici nomi, tra cui spiccava quello di don Álvaro del Portillo, allora Segretario generale dell’Opus Dei e pertanto suo strettissimo collaboratore[11], sebbene ciò avrebbe comportato inevitabilmente per San Josemaría un sovraccarico di lavoro, qualora il suggerimento fosse stato accolto. Pochi giorni dopo, il 4 luglio, una lettera della Commissione Centrale, firmata da Mons. Pericle Felici, lo ringraziava per la segnalazione[12].

E così alcune persone dell’Opus Dei parteciparono a quella fase preparatoria del Concilio. Don Álvaro fu nominato segretario della Commissione sui laici e membro di un’altra Commissione conciliare. San Josemaría si premurò di assicurare a don Álvaro un’adeguata assistenza da parte di altri membri dell’Opus Dei, esperti in Teologia, Diritto canonico e Filosofia. In qualità di segretario della Commissione De Laicis, don Álvaro collaborò all’elaborazione del materiale da consegnare ai Padri conciliari, dopo le integrazioni di altri suggerimenti e idee. Quanto aveva ascoltato e vissuto con San Josemaría costituì la fonte ispiratrice di tutto il suo lavoro.

San Josemaría era pienamente disponibile a collaborare con il Concilio, e avrebbe partecipato ben volentieri alle riunioni conciliari, malgrado l’aggravio dei propri impegni, inevitabile per non trascurare il lavoro di governo dell’Opus Dei. Ma sapeva che la sua partecipazione sarebbe avvenuta in qualità di presidente generale di un Istituto secolare. Pertanto si sarebbe potuta interpretare come una tacita accettazione di quella figura giuridica, notoriamente da lui ritenuta non consona alla natura dell’Opus Dei. Quanto meno, avrebbe potuto costituire un dato di fatto, se non proprio un precedente, sfavorevole alla futura revisione del suo inquadramento giuridico. Per non mettere a repentaglio il pieno riconoscimento del carisma fondazionale dell’Opus Dei, San Josemaría decise di giocare d’anticipo, comunicando alla Santa Sede che preferiva non prendere parte alle assise e spiegandone i motivi, e fu compreso immediatamente[13].

Gli fu comunicato, allora, da Mons. Capovilla, interprete dei desideri di Giovanni XXIII[14], che, se lo desiderava, avrebbe potuto essere presente in Aula almeno come perito conciliare. San Josemaría, ribadendo la propria disponibilità, spiegò i motivi per cui riteneva più conveniente declinare anche tale invito: da una parte, non avrebbe potuto dedicare il tempo necessario a quei compiti. E poi, visto che alcuni suoi figli sarebbero stati nominati Padri conciliari, il suo ruolo di semplice perito sarebbe sembrato certamente strano. Per di più, se avesse accettato la nomina di perito, qualcuno avrebbe potuto pensare che intendesse muoversi dietro le quinte o con sotterfugi, mentre altri non a conoscenza di queste considerazioni ne avrebbero dedotto la scarsa rilevanza dell’Opus Dei nella vita della Chiesa. Il suo rifiuto fu, dunque, una manifestazione di grande prudenza, per evitare di mettere in cattiva luce la Santa Sede. Comunque, nel rispondere San Josemaría si rimise alla decisione del Papa.

Era chiaro il desiderio del Papa e di diverse persone nella Curia Romana che la partecipazione di San Josemaría ai lavori conciliari fosse diretta, non solo per la sua esperienza nell’apostolato dei laici, la ricerca della santità nel lavoro ordinario e l’azione della Chiesa nel mondo moderno, ma anche in rapporto all’ecumenismo, dato che l’Opus Dei aveva cominciato ad ammettere come Cooperatori, molti anni prima, persone non cattoliche e persino non cristiane. Ci si trovava, dunque, di fronte a un dilemma: da una parte l’evidente beneficio per i lavori conciliari rappresentato dalla partecipazione di San Josemaría; ma dall’altra la mancanza di un’adeguata configurazione giuridica per l’Opus Dei che giustificasse la sua presenza nell’Aula conciliare, senza compromettere i passi successivi dell’iter giuridico. Come uscire da questa situazione imbarazzante? Alla fine, lo Spirito Santo mostrò una soluzione che, come vedremo, fece arrivare idee, esperienze e suggerimenti di San Josemaría attraverso i suoi colloqui con i Padri conciliari, sebbene egli non fosse presente nell’Aula del Concilio.

2. Il contributo di San Josemaría Escrivá durante lo svolgimento delle sessioni conciliari

Giovanni XXIII inaugurò il Concilio Vaticano II l’11 ottobre 1962, raccomandando che le assise avessero un indirizzo pastorale: trasmettere la verità rivelata nel senso in cui era stata intesa dalla Tradizione della Chiesa, ma formulandola in un modo più consono e comprensibile per l’uomo moderno. Questa impostazione pastorale fu condivisa da San Josemaría, come ebbi occasione di sentirgli dire diverse volte, perché metteva in risalto l’importanza decisiva dell’azione apostolica. D’altra parte, egli era consapevole dei grandi problemi teologici, filosofici e ideologici presenti nella cultura dell’epoca, e quindi prevedeva che, prima o poi, inevitabilmente sarebbero state necessarie delle dichiarazioni di carattere dottrinale, come di fatto accadde nei documenti conciliari e ancor più nel magistero pontificio posteriore.

Iniziato il Concilio, San Josemaría si mise d’accordo con la Presidenza e la Segreteria del Vaticano II per poter incontrare i Padri conciliari e offrire loro materiale di studio e di lavoro, entro i limiti del segreto d’ufficio. Il suo impegno di collaborazione con le assise conciliari si svolse, prima di tutto, attraverso l’aiuto, il consiglio e l’incoraggiamento di tre Padri conciliari, membri dell’Opus Dei: Mons. Ignacio de Orbegozo e Mons. Luis Sánchez-Moreno, entrambi Vescovi in Perù, e Mons. Alberto Cosme do Amaral, a partire dalla terza sessione conciliare, diventato, nel frattempo, Vescovo ausiliare di Porto, in Portogallo, il quale era socio, da diversi anni, della Società Sacerdotale della Santa Croce.

Il suo aiuto e i suoi consigli arrivarono al Concilio anche, e principalmente, attraverso don Álvaro del Portillo, che nella fase preparatoria delle assise era stato segretario della Commissione De Laicis e, dopo il riassetto approvato dal Concilio nelle prime settimane di ottobre, segretario della Commissione per la disciplina del clero e del popolo cristiano, nonché Consultore di diverse altre commissioni conciliari. Egli fu — ne sono stato testimone — una delle persone che hanno vissuto con maggiore profondità il messaggio affidato da Dio a San Josemaría Escrivá nel 1928, e seppe trasmetterlo con la massima fedeltà. Queste qualità si manifestarono anche nel rapporto con i Padri conciliari, in occasione dei diversi compiti da lui espletati durante il Concilio. Tramite don Álvaro, il contributo di San Josemaría al Concilio arrivò molto più in là di quanto non si possa ricostruire dagli Atti conciliari[15]. A conferma dell’influsso di San Josemaría, è opportuno tener presente ciò che don Álvaro ebbe a dire anni più tardi, e cioè che al momento dell’approvazione dei testi conciliari sarebbe stato giusto congratularsi con il Fondatore dell’Opus Dei, perché ciò che egli insegnava e viveva dal 1928 era stato proclamato solennemente dal magistero della Chiesa[16].

Nel suo lavoro al Concilio, don Álvaro si avvalse della collaborazione di don Julián Herranz, oggi Cardinale, nominato ufficiale con funzioni di sottosegretario della stessa Commissione; e di altri esperti in diritto canonico: don José Luis Gutiérrez, don Amadeo de Fuenmayor, don Xavier de Ayala e il prof. Pedro Lombardía; e anche di teologi come Giuseppe Molteni e don Pedro Rodríguez, tutti membri dell’Opus Dei. Infine, tra i membri dell’Opus Dei che lavorarono come periti ci fu anche don Salvatore Canals.

Durante quegli anni San Josemaría si intrattenne spesso con i membri dell’Opus Dei che intervenivano nell’Aula conciliare, anche quotidianamente, soprattutto con quelli che risiedevano a Villa Tevere, dedicando generosamente il suo tempo ad ascoltarli e a rispondere alle loro domande. Si preoccupò anche del loro riposo e fece in modo che potessero lavorare con tranquillità, senza essere disturbati.

Gli incontri di San Josemaría con persone che prendevano parte al Concilio non si limitarono solo ai Padri conciliari membri dell’Opus Dei che, come ho già detto, erano pochi, ma raggiunsero molte altre persone. Don Álvaro, e assieme a lui diverse personalità, era interessato a far conoscere San Josemaría Escrivá a numerosi Padri conciliari affinché potessero avvalersi della sua grande esperienza nella pastorale dei laici e nella ricerca della santità nel mondo. Fra i Padri che San Josemaría frequentò c’erano logicamente Prelati spagnoli, che lo conoscevano già da tempo, come Mons. José María García Lahiguera, Mons. Casimiro Morcillo — che fu vicepresidente della Commissione di presidenza del Concilio —, Mons. Juan Hervás, o il Cardinale José María Bueno Monreal. Altri ancora, spagnoli e di altre nazioni, non lo conoscevano da molto tempo, ma erano già consapevoli dell’importanza di ascoltarne il pensiero sui temi più collegati con la teologia del laicato, l’evangelizzazione della società e il rapporto della Chiesa con il mondo moderno. Infine, alcuni, presentatigli da altri Padri o periti o da qualche autorità ecclesiastica, lo conobbero proprio nel corso delle sessioni conciliari.

A Villa Tevere, dove risiedeva San Josemaría, ci fu un vero e proprio andirivieni di Prelati, di diversi Paesi e con esperienze pastorali molto variegate, interessati a consultarlo e a parlare con lui: Cardinali come Siri, Lercaro, Döpfner, Marty, König, Antoniutti e Ciriaci; Vescovi di diverse nazionalità, come Mons. Marc-Armand Lallier, Mons. George Andrew Beck, Mons. Jean-Julien Weber e Mons. Léon-Arthur-Auguste Elchinger; periti come Mons. W. Onclin e Mons. C. Moeller; teologi come Mons. C. Colombo.

E poi ancora i Vescovi Wheeler, Schmitt, e diversi francesi; Cardinali e Vescovi come Darío Miranda, Marella, Lopez Ortiz, Castán, Modrego, Marcelo González, Deskur, Polschneider, Suquía, ecc.

Posso affermare che in quegli anni hanno fatto visita a San Josemaría diverse centinaia di Prelati, periti e osservatori, attratti non soltanto dalla sua esperienza pastorale su parecchi temi dibattuti nell’Aula conciliare, ma anche dalla sua autorità morale, unanimemente riconosciuta grazie alla fama di santità di cui già allora godeva. A volte egli stesso andava a trovarli ed ebbe modo di visitare l’Aula conciliare, al di fuori dello svolgimento delle congregazioni generali[17].

L’impressione che questi Prelati ricavavano dagli incontri, nonché la gioia spirituale che portavano con sé dopo la visita a San Josemaría Escrivá, sono impossibili a tradursi in parole, come spesso accade nella vita dello spirito. Ho constatato di persona le reazioni degli invitati e ho potuto avere conferma dell’affetto e della riconoscenza di tanti di loro, dopo la scomparsa di San Josemaría, nelle lettere di cordoglio indirizzate al mio predecessore, Mons. Álvaro del Portillo, e nelle postulatorie con cui chiesero al Santo Padre Paolo VI l’apertura della Causa di beatificazione e canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei, al momento opportuno.

Vorrei ricordare qui, brevemente, quattro testimonianze, come tasselli di un mosaico, per farne intuire l’impatto. La prima è di Mons. Juan Hervás, allora Vescovo di Ciudad Real, il quale affermava che l’influsso di San Josemaría sui Padri conciliari che venivano a trovarlo si esercitava principalmente grazie alla sua autorità morale che, senza imporre niente a nessuno e rispettando tutti, sosteneva il lavoro conciliare, spesso appesantito dalle discussioni in Aula e dalle pressioni mediatiche. «Da quelle visite — ricordava il presule — ricordo di essere sempre uscito incoraggiato a lavorare più e meglio e a partecipare più attivamente ai compiti conciliari che mi spettavano»[18].

La seconda è di Mons. Paul-Joseph Schmitt, Vescovo di Metz, che affermava: «Scoprii in lui un uomo eccezionalmente sensibile e vicino ai problemi dei suoi contemporanei. Nessuno dei grandi temi che il Concilio ci rivelava o ci faceva approfondire gli era estraneo. Era parimenti preoccupato per l’avvenire del mondo e per il futuro della Chiesa. Era perfettamente consapevole della gravità della posta in gioco e dimostrava la profonda convinzione che non si poteva pensare soltanto a qualche ritocco superficiale. Tuttavia le riforme di struttura, da sole, gli sembravano insufficienti. Riteneva che soltanto un ritorno alle sorgenti della fede avrebbe permesso alla Chiesa di compiere la sua missione nel mondo»[19].

La terza ha per protagonista Mons. Abilio del Campo y de la Bárcena, Vescovo di Calahorra, La Calzada y Logroño, che ha testimoniato la sua sincera convinzione riguardo al contributo decisivo di San Josemaría per chiarire diversi punti in cui «le luci che egli aveva ricevuto da Dio e la sua straordinaria esperienza pastorale nel mondo del lavoro erano quasi insostituibili. Furono molti i Padri conciliari che, approfittando della sua amicizia, poterono avvalersi dei suoi avveduti consigli»[20].

L’ultima testimonianza che riporto è di Mons. François Marty, allora Arcivescovo di Reims, poi diventato Cardinale Arcivescovo di Parigi, il quale diceva che «un momento di colloquio con lui sembrava come un momento di preghiera. Si sentiva che egli viveva quello spirito di contemplazione in mezzo al mondo che non aveva mai smesso di predicare dal 1928 in poi. Ma tutto ciò non toglieva nulla al suo buon umore, al suo senso soprannaturale, alla sua carità piena di affetto»[21].

Questi ricordi, oltre a evidenziare il profilo umano, spirituale, teologico e pastorale di San Josemaría e confermare che il Fondatore dell’Opus Dei poté seguire molto bene i lavori conciliari, mostrano la consapevolezza dei diversi Padri conciliari di aver ricevuto in quei colloqui non solo incoraggiamenti, idee e chiarimenti su alcune questioni, ma anche l’invito a prendere coscienza della vicinanza di Dio e ad amare la sua Volontà, come è tipico dei Santi.

Man mano che il lavoro del Concilio progrediva, ci si accorse che era destinato a procedere meno speditamente di quanto previsto all’inizio. E infatti, Giovanni XXIII non giunse a vedere la seconda sessione del Concilio, poiché nel maggio del 1963 si ammalò gravemente. San Josemaría seguì il decorso della malattia del Pontefice attraverso Mons. Dell’Acqua, allora Sostituto della Segreteria di Stato, con cui aveva un rapporto di amicizia e di fratellanza. Le notizie delle sofferenze patite dal Papa furono per lui fonte di profondo dolore, come ebbi modo di constatare da vicino. Quando ricevette la notizia della morte del Santo Padre, San Josemaría si inginocchiò e commosso pregò per l’eterno riposo della sua anima, invitandoci a pregare sin da quel momento per il futuro Papa. Il 21 giugno 1963 venne eletto al Soglio di Pietro il Cardinal Montini, una delle prime persone amiche che San Josemaría incontrò al suo arrivo a Roma nel 1946. Egli prese il nome di Paolo VI e, poco dopo l’elezione, dichiarò che il Concilio sarebbe continuato dopo l’estate.

San Josemaría visse tutto il periodo conciliare come un intreccio di gioie e dolori. Una delle sue prime gioie fu il fatto che Papa Giovanni avesse approvato l’inserimento di San Giuseppe nel Canone Romano della Messa. Gli sembrava un bel gesto per sottolineare il ruolo di San Giuseppe come patrono della Chiesa universale, che avrebbe contribuito a manifestare il valore soprannaturale di una vita normale di lavoro, in dialogo con Dio, in mezzo al mondo. A quella misura, d’altronde, ha dato seguito recentemente Papa Francesco inserendo il nome del Santo Patriarca nelle altre preghiere eucaristiche.

Fu per lui motivo di speciale gioia vedere, man mano che venivano approvati i vari decreti, dichiarazioni e costituzioni, lo spazio che vi avevano trovato diversi temi da lui predicati fin dagli inizi del suo lavoro di fondatore. Tra quelli riguardanti aspetti specifici dello spirito dell’Opus Dei ne sottolineo due: la chiamata universale alla santità e all’apostolato, accolta principalmente nei capitoli secondo e quinto della Costituzione dogmatica Lumen gentium, e la vocazione e missione del laico nella Chiesa e nel mondo, presenti nella stessa Costituzione ma anche in altri documenti, come la Costituzione Gaudium et spes e il Decreto Apostolicam actuositatem[22]. Ovviamente tali documenti, su questi temi, erano il frutto di una grande varietà di contributi, ma posso testimoniare che durante gli incontri di San Josemaría con centinaia di Padri conciliari se ne parlò ampiamente, in particolare della santificazione del lavoro, decisiva per una presenza autenticamente cristiana nel mondo. Egli aveva auspicato per quarant’anni che fosse dato tutto il rilievo possibile alla vocazione dei cristiani in mezzo al mondo, in piena conformità alla sua natura e alle sue leggi e, allo stesso tempo, alle esigenze etiche della retta coscienza e del disegno salvifico di Dio. In altri termini, l’importanza di santificare sé stessi e collaborare alla santificazione degli altri.

Non potendo commentare in questa sede tutti i temi trattati nel Concilio, e allo stesso tempo presenti anche nella predicazione e nel messaggio di San Josemaría, mi limiterò a elencarli brevemente: la Santa Messa vista come centro e radice della vita spirituale e della missione del cristiano; la possibilità e la convenienza della cooperazione dei fratelli non cattolici, e persino non cristiani, nelle attività organizzate dai fedeli cattolici; l’unità di vita del cristiano che non ammette separazione tra preghiera e lavoro; l’unione tra consacrazione battesimale e missione del cristiano e del sacerdote. Devo menzionare anche il contributo di San Josemaría al riconoscimento della dinamicità pastorale della struttura gerarchica della Chiesa, affermata nel Decreto Presbyterorum ordinis e che, fra altre conseguenze, ha costituito la base per la configurazione giuridica definitiva dell’Opus Dei come Prelatura personale. Tutte le discussioni e le votazioni su questi temi furono vissute da San Josemaría con un continuo ringraziamento al Signore.

Furono dunque molte le gioie, ma furono abbondanti anche i dolori. Ricordo che nella prima sessione conciliare, o forse all’inizio della seconda, San Josemaría fece riferimento alla considerazione di alcuni storici secondo i quali in genere i Concili vengono preceduti o seguiti da periodi di vita ecclesiale in cui ai buoni desideri, alla luce e alla vitalità, si mescolano dubbi, progetti equivoci e rivendicazioni velleitarie[23]. Questo, aggiunse, sta accadendo anche adesso. Non era l’unico a pensarla così. D’altronde non solo gli storici, ma alcuni grandi protagonisti della vita della Chiesa, come per esempio il Beato Cardinale John Henry Newman, avevano fatto riferimento al diffondersi di intrighi e di letture di parte, in contesti simili a quelli del Vaticano II, che mettono in evidenza soltanto l’aspetto umano, troppo umano, presente in ogni adunanza e anche, purtroppo, nei Concili ecumenici[24].

Per collocare storicamente l’ambiente culturale intorno al Vaticano II, forse è utile richiamare due dati importanti. Da una parte l’esistenza, come ho già detto in precedenza, di una profonda divisione ideologica e filosofica nella società dell’epoca che, ovviamente, non poteva non avere riflessi anche in campo teologico. Dall’altra, il cambiamento del contesto storico e sociologico. Nel ventesimo secolo i poteri civili non avevano la stessa possibilità di pressione sul Concilio come in passato; tuttavia era possibile una pressione di natura diversa, ma non per questo meno forte: quella dei mezzi di comunicazione sociale. La convocazione del Concilio e il suo svolgimento avevano destato nell’opinione pubblica un grande interesse per la vita ecclesiale. Questa disposizione, di per sé buona, poteva essere orientata da alcuni media anche in senso negativo, dando adito a criteri ermeneutici non adeguati alla realtà della Chiesa e commentando con interpretazioni scorrette i dibattiti e le discussioni che si svolgevano in Aula.

San Josemaría apprezzava molto i mezzi di comunicazione sociale. Addirittura negli anni Cinquanta aveva incoraggiato l’inizio di una scuola di giornalismo all’Università di Navarra. Ma allo stesso tempo era conscio della possibilità di servirsene per condizionare l’opinione pubblica e, quindi, anche il lavoro dei Padri conciliari. Egli si accorse ben presto della tendenza ad analizzare in maniera semplicistica gli argomenti presentati dai Padri conciliari e a inquadrare questioni complesse in schemi di lettura inadeguati, che avrebbero trasmesso all’opinione pubblica un’immagine deformata dei lavori conciliari. Il risultato sarebbe stato inevitabilmente una loro riduzione a contese fra opposti schieramenti, a contrasti fra il vecchio e il nuovo, o a scelte frutto di strategie e di calcoli non proprio cristiani. Dell’esistenza di due Concili diverse persone parlarono già all’epoca, e quel giudizio è stato ripetuto posteriormente: uno che si svolgeva dentro la Basilica Vaticana, nel quale non mancavano le divergenze, ma sempre in un contesto di comunione; e un altro, frutto della manipolazione mediatica, in aperto contrasto con il primo e teso a presentare il Concilio come l’occasione per un profondo cambiamento nella Chiesa, spinto fino al punto di snaturarne la vera essenza.

Paolo VI era al corrente di questo divario, e manifestò in diversi momenti la sua preoccupazione. Altrettanto accadde a San Josemaría[25], che reagì riaffermando la propria fede nell’assistenza dello Spirito Santo alla Chiesa, convinto che Dio avrebbe fatto sì — come disse spesso — che nei testi e negli orientamenti finali, malgrado tutti gli eventuali incidenti di percorso, si manifestasse la verità del Vangelo e si promuovesse il bene della Chiesa[26]. La sua reazione fu, quindi, pregare, mortificarsi e chiedere a molte persone di pregare e offrire mortificazioni per il buon esito del Concilio.

Come buon pastore nell’Opus Dei, sin dagli anni del Concilio, cercò di aiutare i suoi membri ad avere un discernimento tra l’essere aperti agli insegnamenti conciliari e il lasciarsi trascinare dal clima di confusione, creato dai mezzi di comunicazione e da alcuni pensatori o protagonisti dell’epoca. Nell’estate del 1964, dopo la prima Enciclica di Paolo VI, Ecclesiam suam, in cui il Papa aveva indicato il dialogo come il modo di promuovere l’evangelizzazione del mondo, egli scrisse con un tono in cui l’atteggiamento apostolico è un tutt’uno con il radicamento nella fede:

«Il dialogo dei cristiani, e in particolare il dialogo ecumenico, è una esigenza della natura stessa della Chiesa, una, santa e cattolica: c’è sempre stato il dialogo e dovrà esserci sempre finché ci sarà zelo per le anime. Perciò, sono persuaso che il Concilio Ecumenico, che si sta celebrando e per il quale prego tanto e faccio pregare tanto, gli darà un vigore nuovo e una spinta maggiore.

«Il dinamismo di queste note della vera Chiesa, la perenne vitalità della sua vita divina, esige da tutti i cattolici una nobile apertura alla comunicazione con tutti gli uomini. Quindi, la necessità di dialogare non è una semplice esigenza di un momento o di determinate circostanze»[27].

Le manifestazioni di questa sollecitudine pastorale furono diverse. Da una parte, si indirizzarono a correggere false informazioni o ambiguità come, per esempio, i concetti di “apertura al mondo” o di “aggiornamento”, interpretati a volte come invito a un cambiamento staccato dalla tradizione cristiana, e non come sviluppo all’interno della fedeltà alla parola e al volere di Cristo[28].

Dall’altra, miravano a promuovere la conoscenza e lo studio dei documenti conciliari man mano che venivano approvati. Incoraggiò i fedeli dell’Opus Dei che lavoravano nei media a dare informazioni sul Vaticano II veritiere e informate dall’amore per la Chiesa. Desiderava che il mondo dei media, come tutti gli altri ambienti — anche quelli filosofici e teologici —, fosse in sintonia con l’azione dello Spirito Santo, che assisteva il Concilio.

In un contesto ricco di luci e di ombre, San Josemaría avvertì il danno che i contrasti esasperati potevano arrecare al senso dell’unità dottrinale e pastorale, essenziale alla vita della Chiesa. Perciò si impegnò attivamente per valorizzare i contenuti positivi e perenni del patrimonio ecclesiale e, in particolare, pregò e fece pregare molto affinché nel Concilio si giungesse sia a un approfondimento dottrinale del principio della collegialità, sia a una chiara riaffermazione dell’autorità del Papa[29].

Va tenuto presente che, sebbene il Concilio procedesse alacremente nel suo lavoro, non mancavano difficoltà e dibattimenti conciliari a volte molto acuti. Questa situazione, per il modo in cui essi erano presentati dai media, causava confusione nei fedeli. Paolo VI soffrì molto per l’inasprimento del clima di lavoro venuto a crearsi e per il tentativo da parte di alcuni di strumentalizzare il Concilio per fini non consoni ai suoi veri scopi. Tutto ciò lo portò a concludere che era opportuno stringere i tempi, in vista di una solerte conclusione[30]. San Josemaría era tenuto al corrente di questo stato di cose da Mons. Angelo Dell’Acqua, Sostituto della Segreteria di Stato e suo grande amico, che incontrava frequentemente. Il Santo Padre conosceva e incoraggiava tali incontri; per lui costituivano anche un modo informale di ascoltare il parere di una persona che riteneva molto vicina a Dio e ricca di esperienza pastorale ed ecclesiale[31]. In questo periodo, e in particolare nel mese di aprile del 1964, il Fondatore dell’Opus Dei scrisse una lettera filiale a Paolo VI in cui diceva:

«Preghiamo molto tutti quanti nell’Opus Dei, per la Sua Augusta e Amatissima Persona e le Sue intenzioni, perché possa giungere in breve tempo a compimento l’attuale Concilio, e per il grande lavoro che si renderà necessario nel periodo post-conciliare. Soprattutto preghiamo perché l’autorità del Romano Pontefice non possa essere mai condizionata da niente e da nessuno, e sia così possibile assicurare le norme giuridiche che regolino, con soavità e con fortezza, il cammino attraverso il quale giunga a tutti la sana dottrina»[32].

Il desiderio di Paolo VI di portare a termine il Concilio si avverò l’8 dicembre 1965. Nei testi approvati, molto ricchi e profondi, si trasmetteva la dottrina della Chiesa con un linguaggio di chiara ispirazione biblica e liturgica, che voleva promuovere la piena adesione di tutti i cristiani e quindi l’efficacia della loro azione nel mondo contemporaneo. Fra gli altri punti centrali del messaggio cristiano il Concilio proclamava solennemente la chiamata universale alla santità e la missione apostolica dei laici, membri a pieno titolo della Chiesa e chiamati per vocazione divina a condurre il creato verso la sua perfezione. Celebrando nel 1969 i quattro anni dalla chiusura dei lavori conciliari Paolo VI volle sottolineare l’importanza di questi insegnamenti: «Il Concilio Vaticano II [...] ha ripetutamente invitato tutti i cristiani di ogni condizione e classe sociale alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità; e questo appello alla santità è ritenuto come specialissimo compito dello stesso magistero conciliare e come sua ultima finalità»[33].

Mi permetto di ribadire che si trattava proprio dei temi che San Josemaría aveva predicato sin dal 1928, quando ancora molti vedevano il laico come una longa manus della gerarchia, e la chiamata alla santità come un traguardo possibile soltanto per chi entrava nel sacerdozio o nella vita religiosa. Nel 1979 il Beato Giovanni Paolo II in un’omelia ebbe a dire che Mons. Escrivá aveva «anticipato quella Teologia del laicato, che caratterizzò poi la Chiesa del Concilio e del post-Concilio»[34]. Non è un giudizio isolato: molti Padri conciliari, nonché altre personalità ecclesiastiche, hanno avuto occasione di riconoscere che San Josemaría è stato un precursore del Vaticano II proprio in temi centrali del magistero conciliare[35].

Vorrei perciò concludere questa sezione con un brano — un po’ lungo — che riassume l’insieme di sentimenti provati da San Josemaría negli anni del Concilio. È tratto da una lettera indirizzata ai fedeli dell’Opus Dei poco prima della fine del Concilio:

«Figlie e figli miei, conoscete l’amore con cui ho seguito in questi anni i lavori del Concilio, cooperando con la mia preghiera e, in più di un’occasione, col mio lavoro personale. Conoscete anche come desidero che siate fedeli, con me, alle decisioni della Gerarchia della Chiesa fin nei più piccoli particolari, agendo non già come sudditi di un’autorità, ma con devozione di figli, con l’affetto di chi si sente — e lo è — membro del Corpo di Cristo.

«Non vi ho nascosto neppure il mio dolore per il comportamento di chi non ha vissuto il Concilio come un atto solenne della vita della Chiesa e una manifestazione dell’agire soprannaturale dello Spirito Santo, ma come un’occasione di affermazione personale, per dar briglia sciolta alle proprie opinioni o, peggio ancora, per far danno alla Chiesa.

«Il Concilio è terminato: si è più volte ripetuto che questa sarà l’ultima sessione. Quando la lettera che vi sto scrivendo sarà giunta nelle vostre mani, sarà già incominciato il periodo post-conciliare, e il mio cuore trema al pensiero che possa essere occasione per nuove ferite nel corpo della Chiesa.

«Gli anni che seguono un Concilio sono sempre importanti, sono anni che richiedono docilità per applicare le decisioni prese, e che richiedono anche fermezza nella fede, spirito soprannaturale, amore verso Dio e verso la Chiesa di Dio, fedeltà al Romano Pontefice»[36].

In queste parole si sintetizzano i suoi sentimenti durante tutto il Concilio. Allo stesso tempo si percepisce ciò che la sua anima di pastore intuiva sarebbe accaduto negli anni successivi e si intravedono le tracce del suo programma di azione pastorale per la fase post-conciliare, alla quale dedicheremo la terza e ultima parte di questa relazione.

3. Il contributo di San Josemaría alla ricezione del Vaticano II

Il Beato Newman asseriva che l’analisi della storia dei Concili dell’antichità lo aveva portato a concludere che dopo ogni Concilio ci fu, salvo qualche eccezione, una grande confusione nella vita della Chiesa[37]. L’avverarsi del timore di una situazione analoga anche dopo il Vaticano II, paventato dal Fondatore dell’Opus Dei nella sua lettera del 24 ottobre 1965, testé citata, conferma il detto newmaniano.

Subito dopo la chiusura del Concilio ci fu un periodo scandito dalla diffusione di pubblicazioni, traduzioni e commenti dei testi conciliari, nonché dai primi documenti applicativi del Concilio. In questo senso la ricezione fu molto positiva. Ma l’orizzonte non era chiaro poiché, contemporaneamente, apparvero scritti polemici e si diffusero comportamenti estranei ai desideri conciliari e pontifici.

Sulla scena erano presenti due posizioni estreme. Da una parte, coloro che, partendo da un concetto errato di tradizione, adottavano un atteggiamento di chiusura e di resistenza agli insegnamenti del Concilio. Dall’altra, quelli che propugnavano una riforma radicale della Chiesa e cercavano di forzare la mano ai Vescovi e allo stesso Romano Pontefice, presentando come proposte indirizzate a un rinnovamento pastorale iniziative che in realtà conducevano a una soggettivizzazione della fede. A detta di uno dei grandi esperti della storia dei Concili, Hubert Jedin, «la crisi era sorta in quanto non ci si voleva più accontentare di realizzare il Concilio, ma lo si vedeva come innesto iniziale di innovazioni radicali, che in realtà si lasciavano alle spalle i decreti del Concilio»[38]. Le denunce della realtà della crisi, e anche le misure pastorali e disciplinari dell’autorità ecclesiastica, furono non di rado — anzi, molto spesso — presentate all’opinione pubblica come ostacoli alla legittima libertà, o come atteggiamenti reazionari e ostili al progresso della vita ecclesiale[39].

Le defezioni dal sacerdozio e dalla vita consacrata, nonché lo sconcerto tra i fedeli, ne furono la conseguenza. La situazione divenne grave a tal punto che Paolo VI dovette intervenire più volte per spiegare come andava interpretato il Vaticano II. Così, nel 1966, affermava: «Il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa; esso non la interrompe, non la deforma, non la inventa; ma la conferma, la sviluppa, la perfeziona, la “aggiorna”»[40]. In un testo dello stesso anno aggiungeva: «Gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata [...]. Non dobbiamo staccare gli insegnamenti del Concilio dal patrimonio dottrinale della Chiesa, si deve vedere come in esso si inseriscano, come a esso siano coerenti, e come a esso apportino testimonianza, incremento, spiegazione, applicazione»[41]. Negli anni successivi i suoi interventi si moltiplicarono e si fecero sempre più accorati, fino a diventare drammatici.

Siamo di fronte a una realtà ben nota, che ci esonera dal citare altri testi pontifici. Possiamo quindi limitarci a menzionarne solo uno, del 23 giugno 1972, in cui Paolo VI sottolineava di nuovo che la confusione e la crisi andavano attribuite a «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa pre-conciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto»[42].

In quel periodo San Josemaría si sforzò di vivere una piena fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Prese le distanze, in modo chiaro e decisivo, da chi rigettava il Concilio e negava l’assenso a tutti, o almeno ad alcuni, dei suoi documenti. E denunziò senza indugi l’atteggiamento di coloro che negavano che il Concilio avesse portato a termine la necessaria riforma della Chiesa, e quindi si lasciavano guidare da un cosiddetto “spirito del Concilio” ritenendosi autorizzati ad andare al di là dei documenti conciliari o, addirittura, a chiedere un nuovo Concilio.

Egli accolse con vivo senso cristiano tutti gli insegnamenti del Vaticano II. Ne lesse e meditò i documenti — ne sono ancora una volta testimone — cercando sempre di cogliere tutte le ricchezze ivi contenute. In diverse occasioni — come ho accennato precedentemente — gli sentii dire che il magistero conciliare non aveva implicato nessun cambiamento di rotta per il suo messaggio e la sua missione di fondatore dell’Opus Dei, ma piuttosto una conferma di quanto stava predicando da molti anni. Il Vaticano II, infatti, non solo aveva aperto la strada a una soluzione giuridica adatta all’Opus Dei, ma offrì un orizzonte e un linguaggio sulla fede, a livello magisteriale, favorevoli alla vita cristiana nel mondo, in ogni professione e in ogni condizione. Non sono poche le volte in cui San Josemaría ricorreva con gratitudine ai testi conciliari per spiegare qualche idea che stava proponendo da molto tempo, e usava con gioia le espressioni contenute in quei testi, poiché gli permettevano di spiegare più efficacemente ciò che aveva ricevuto da Dio nel 1928 e aveva sempre vissuto negli anni successivi[43].

Come pastore dell’Opus Dei, San Josemaría provvide a mettere in pratica il dettato conciliare, seguendo le indicazioni promulgate dal Magistero e leggendo i testi alla luce della tradizione cattolica in cui il Concilio stesso si inseriva[44]. Li considerava, infatti, rivolti a tutti i fedeli dell’Opus Dei, come ebbe a manifestare in una lettera del marzo 1967, e in altre occasioni, in cui fece osservare che «molti degli sbagli attuali derivano dall’intendere il Concilio Vaticano II come un punto e a capo nella storia della Chiesa, una specie di nuova origine del cristianesimo»[45].

Per questo motivo non gradiva un uso indiscriminato del termine “post-Concilio”, poiché esso poteva avallare la pretesa di una rottura con la dottrina precedente al Concilio Vaticano II, e ricordava a tutti che ogni Concilio rappresenta una continuità con i precedenti: è sempre lo Spirito Santo — aggiungeva — Colui che guida la Chiesa. A volte l’ho sentito commentare, in privato e con un pizzico di ironia piena di fede, che in realtà tutta la storia della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, si può definire “post-conciliare”[46]. Operò, insomma, cercando di promuovere sempre una piena ricezione del Concilio in comunione con la tradizione della Chiesa e in unione con il Romano Pontefice. In questo senso ritengo lecito affermare che il suo atteggiamento coincide con la cosiddetta “ermeneutica della riforma nella continuità”[47].

Detto questo, vorrei soffermarmi su due campi, tra gli altri possibili, oggetto di speciale attenzione da parte di San Josemaría: l’applicazione della riforma liturgica e l’ambito della dottrina e della morale cattolica.

I libri liturgici pubblicati in applicazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium contenevano meno indicazioni specifiche dei precedenti e lasciavano una grande libertà di scelta. San Josemaría, oltre a indicare che si seguisse fedelmente la nuova norma liturgica, mise l’accento su quanto si riferiva alla pietà personale sia del sacerdote sia dei fedeli. Un esempio molto chiaro di questo modo di agire è l’aver sottolineato quanto veniva stabilito nelle rubriche della Messa, e cioè che dopo l’elevazione della forma consacrata e del calice il sacerdote “genuflexus adorat”, inginocchiandosi adora; raccomandando di conseguenza che la genuflessione fosse pausata in modo da costituire e manifestare un vero e profondo atto di adorazione. Insisteva sulla necessità di celebrare la Santa Messa come fa un sacerdote di sincera pietà, e consigliò, pur lasciando piena libertà, di mantenere alcuni dettagli del precedente messale utili alla pietà quando ciò non fosse in contrasto con le nuove norme liturgiche.

Passiamo ora al secondo campo precedentemente indicato, e cioè alla dottrina della fede e della morale cristiana. A questo proposito vorrei sottolineare che San Josemaría si adoperò fin dal primo momento affinché i fedeli dell’Opus Dei e tutte le persone che erano in contatto con le attività apostoliche svolte da loro potessero ricevere la luce proveniente dai testi del Concilio. Nei Centri internazionali di studio per i fedeli dell’Opus Dei — il Collegio Romano della Santa Croce a Roma e il Collegio Aralar a Pamplona, per uomini; e il Collegio Romano di Santa Maria, per donne — l’insegnamento filosofico e teologico recepì subito, sotto la sua guida, i documenti conciliari, inserendoli nei corsi e nei seminari di studio. Altrettanto avvenne in tutti i centri di formazione dei diversi Paesi in cui l’Opus Dei svolgeva il suo apostolato.

Raccomandò, inoltre, ai suoi figli di diffondere gli insegnamenti del Vaticano II, pubblicando collezioni di documenti o riviste per contribuire alla diffusione della dottrina trasmessa dal Concilio. Si prodigò, in accordo con la gerarchia della Spagna, affinché nell’Università di Navarra ci fosse una facoltà di Teologia in consonanza con il suggerimento della Dichiarazione Gravissimum educationis e secondo le indicazioni del Decreto Optatam totius.

Tutte queste iniziative, e tante altre che si potrebbero citare in proposito, erano ispirate dal desiderio di promuovere la conoscenza autentica e profonda del Concilio. Furono perciò accompagnate da orientamenti utili per imparare a distinguere fra il Concilio e le interpretazioni che si allontanavano, in un senso o nell’altro, dalla sua realtà e quindi dalla tradizione della Chiesa. Incoraggiò, di conseguenza, la lettura e lo studio dei Padri della Chiesa e dei grandi dottori — specialmente San Tommaso d’Aquino —, nonché dei catechismi sicuri allora esistenti, come ad esempio quello di San Pio X. Nel periodo che va dal 1966 al 1968 concesse diverse interviste alla stampa, nelle quali affrontava gli argomenti interessanti in quei momenti per l’opinione pubblica, trasmettendo con chiarezza la dottrina della Chiesa. Negli anni Settanta si prodigò in una serie di viaggi di catechesi, prima in Spagna e in Portogallo e, poi, in diversi Paesi dell’America Latina.

In quelle date scrisse anche diverse lettere ai fedeli dell’Opus Dei per aiutarli nella conoscenza della dottrina del Vaticano II e nel discernimento della letteratura teologica in corso di pubblicazione in quegli anni. Fu così che, nell’Anno della fede indetto da Paolo VI nel 1967, decise di scrivere una lunga lettera ai fedeli dell’Opus Dei. Redasse perciò un documento ampio, di quasi duecento pagine, destinato a commentare i principali articoli della fede, nel quale abbondano le citazioni della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa. Fra queste figurano circa 80 brani di documenti del Vaticano II e interventi di Paolo VI risalenti all’epoca conciliare[48].

Riassumendo, potremmo dire che la sua posizione era la risultante di due atteggiamenti complementari: l’ottimismo, che nasce dalla fede, e la prudenza, frutto della coscienza ben formata sulle questioni in gioco e del riconoscimento dei propri limiti; prudenza necessaria a ogni cristiano e specialmente «da parte di chi si dedica alla ricerca teologica o detiene l’autorità, perché dei danni incalcolabili potrebbero essere arrecati, ora più che mai, dalla mancanza di serenità e di misura nello studio dei problemi»[49]. A queste due caratteristiche se ne deve aggiungere una terza, che possiamo sintetizzare con una frase su cui San Josemaría ritornò parecchie volte: dottrina di teologi e pietà di bambini.

Il cristiano, ogni cristiano, deve possedere una adeguata conoscenza della fede, ma questa conoscenza deve essere unita all’amore, al senso della nostra filiazione divina, e quindi alla preghiera.

Queste affermazioni non sono dichiarazioni teoriche, ma rispecchiano la vita di San Josemaría. Tutto ciò che il Fondatore dell’Opus Dei ha realizzato nel corso della sua vita, e in particolare nel periodo conciliare e post-conciliare, è stato preceduto e accompagnato dalla preghiera e dalla mortificazione. In quegli anni egli fece molti pellegrinaggi penitenti a diversi santuari mariani, come il Divino Amore, Guadalupe o Fatima. Inoltre, il 30 maggio 1971 consacrò l’Opus Dei allo Spirito Santo, chiedendo espressamente al divino Paraclito i suoi sette doni, affinché tutti i membri dell’Opera, e tutti i cristiani, restassero saldi nella fede e fedelmente perseveranti nella vocazione che ognuno ha ricevuto da Dio[50].

Ritengo che l’azione pastorale di San Josemaría possa e debba essere considerata come una delle realtà che hanno contribuito più efficacemente a una vera e duratura ricezione del Vaticano II.

Vivendo prima, durante e dopo il Concilio, egli costituisce un chiaro esempio di Santo e di pastore che seppe sentire cum Ecclesia prima, durante e dopo quell’evento. Penso che qui si trovi una delle ragioni che spinsero Giovanni XXIII e Paolo VI a voler conoscere spesso il suo parere, tramite Mons. Capovilla e Mons. Dell’Acqua. E anche il perché Giovanni Paolo II manifestò una speciale gioia nel procedere alla sua beatificazione e canonizzazione; e Benedetto XVI manifestò, prima come Cardinale e poi come Romano Pontefice, un profondo apprezzamento per la sua figura e il suo messaggio.

4. Conclusione

Vorrei concludere servendomi di alcune parole del Cardinale Franz König, scritte nel 1981, qualche anno dopo la morte di San Josemaría. Dopo aver considerato la sua grande fede, la sua serenità, il suo ottimismo soprannaturale, affermava: «L’ancora breve storia di questi anni che sono seguiti alla conclusione dei lavori conciliari, le vicissitudini che ha attraversato l’applicazione dei suoi decreti, gli esperimenti, finora raccolti, hanno confermato la chiaroveggenza dello spirito di Mons. Escrivá de Balaguer. Egli seppe prendere sul serio il Vaticano II, distinguendo tra ciò che era impulso dello Spirito e ciò che veniva dai tentativi meramente umani di interpretazione del Concilio. E diventò così modello di come realizzare l’immagine autentica della Chiesa descritta nei documenti conciliari»[51].

San Josemaría, che pregò e si adoperò molto per il Concilio Vaticano II, è ormai riconosciuto come uno dei precursori di diversi insegnamenti conciliari, quali la dottrina sul laicato, sulla chiamata universale alla santità, sulla secolarità, sul valore cristiano del lavoro e, in genere, del mondo e delle diverse attività umane. Mi sembra tuttavia opportuno andare oltre, sottolineando che il significato della sua persona e del suo messaggio non si limita al fatto storico-cronologico del suo contributo al Concilio. La vita e gli insegnamenti di San Josemaría continueranno a illuminare il rinnovamento presente e futuro della Chiesa, perché aiutano a coglierne in profondità la verità come Popolo di Dio e Corpo di Cristo, e la sua missione vivificatrice del mondo. E portano, di conseguenza, a una comprensione più ricca sia del laico che del sacerdote, e a una percezione non solo teorica ma pratica del valore cristiano di tutte le realtà terrene. Lì si trovano, a mio avviso, le radici della rilevanza teologica del Fondatore dell’Opus Dei, già ampiamente percepita ma, come accade con ogni grande figura, ancora tutta da esplorare. Mi auguro che questo Congresso dedicato al suo influsso sul pensiero cristiano possa costituire un passo importante in questa direzione.

[1] Cfr. BEATO GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti a un Convegno di studio sul pensiero del Fondatore dell’Opus Dei (14-X-1993), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XVI/2 (1993) 1013s.

[2] Cfr. A. DEL PORTILLO, “Instrumento de Dios”. Discorso del 26-VI-1976, durante l’atto accademico “in memoriam” celebrato all’Università di Navarra, in occasione del primo anniversario del trapasso del Fondatore e primo Gran Cancelliere dell’Università, in ID., Una vida para Dios. Reflexiones en torno a la figura de Josemaría Escrivá de Balaguer, 2ª ed., Rialp, Madrid 1992, pp. 44s.

[3] Questi studi sono già stati fatti, per esempio, per il Concilio di Trento, in cui ebbe un ruolo principale la Scuola di Salamanca, e per il Concilio Vaticano I, in cui la Scuola Romana fu molto presente.

[4] Cfr. PAOLO VI, Udienza ai partecipanti al VI Congresso della “Luxembourg Newman Association” (7-IV-1975), in Insegnamenti di Paolo VI, vol. XIII (1975) 277. Anche Papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio nel Regno Unito per la beatificazione di Newman, riconobbe che alcuni insegnamenti conciliari facevano eco alle idee del Cardinale inglese.

[5] Infatti, all’inizio del Concilio le persone dell’Opus Dei risiedevano stabilmente nella maggioranza dei Paesi dell’Europa occidentale e dell’America, ed era cominciato il lavoro pastorale in Africa e in Asia.

[6] L’importanza di questo compito è storicamente testimoniata riguardo a diversi Concili. Basti pensare all’azione di Sant’Atanasio dopo il Concilio di Nicea o a quella di San Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, e del Beato Fra Bartolomeo dei Martiri, Arcivescovo di Braga, dopo il Concilio di Trento.

[7] SAN JOSEMARÍA, Lettera 25-V-1962, n. 92. Allora l’Opus Dei era “de iure ma non de facto” un istituto secolare, come solitamente diceva il Fondatore. Perciò, nelle lettere di quegli anni per designare l’Opera egli preferiva adoperare la parola “associazione” e non “istituto”.

[8] SAN JOSEMARÍA, Lettera 2-VII-1962, pp. 2s.

[9] Cfr. J. ECHEVARRÍA, Summ., 2456s, cit. in A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, vol. III, Leonardo International, Milano 2004, pp. 460 e 543.

[10] In quell’incontro parlarono fondamentalmente della situazione giuridica dell’Opus Dei e il Cardinale informò San Josemaría che non sarebbe stato opportuno inoltrare allora una richiesta formale di cambiamento di statuto giuridico. Per approfondimenti cfr. J. HERRANZ, Nei dintorni di Gerico, Ares, Milano 2005, p. 24.

[11] Cfr. SAN JOSEMARÍA, Lettera al Cardinale Domenico Tardini (28-VI-1960), in Archivio Generale della Prelatura [AGP].

[12] Cfr. P. FELICI, Lettera a Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer (4-VII-1960), in AGP.

[13] Cfr. Á. DEL PORTILLO, Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, Ares, Milano 1992, pp. 15-16.

[14] Dopo l’udienza del 27-VI-1962, il Beato Giovanni XXIII chiese a San Josemaría di parlare frequentemente con il suo segretario, Mons. Loris Capovilla, in carica dall’anno precedente. Oltre all’incontro di luglio 1962, esiste una corrispondenza regolare tra i due, durante i dieci mesi seguenti; cfr. A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, vol. III, cit., pp. 463 e 544.

[15] I dati che si possono ricavare sono piuttosto pochi, per le ragioni già segnalate. Ciò nonostante, qualcosa c’è. Per esempio, nella documentazione conciliare è conservata una lettera ufficiale a San Josemaría Escrivá scritta da don Álvaro del Portillo in qualità di segretario della Commissione per la disciplina del clero e del popolo cristiano, nella quale si fa riferimento alla grande esperienza pastorale del Fondatore dell’Opus Dei e gli si chiede un parere sui temi da inserire in un progetto di direttorio catechistico e alcuni suggerimenti per il progetto di manuale dei parroci. La lettera era dell’1-III-1963 e la risposta di San Josemaría del 5 marzo dello stesso anno; cfr. Archivio Generale della Prelatura, Romana et Matriten. Beatificationis et canonizationis Servi Dei Iosephmariae Escrivá de Balaguer Sacerdotis, Fundatoris Societatis Sacerdotalis S. Crucis et Operis Dei positio super vita et virtutibus, [d’ora in poi Positio], Biografia Documentata, pp. 1161-1163, Roma 1988.

[16] Cfr. Á. DEL PORTILLO, “Testigo de amor a la Iglesia”, in Una vida para Dios: Reflexiones en torno a la figura de Josemaría Escrivá de Balaguer, Rialp, Madrid 1992, p. 70.

[17] Per una prima disamina di questi incontri, ancora limitata, ma con l’opportuno riferimento documentale, cfr. C. PIOPPI, “Alcuni incontri di San Josemaría Escrivá con personalità ecclesiastiche durante gli anni del Concilio Vaticano II”, in Studia et Documenta, 5 (2011) 165-228.

[18] Cfr. Testimonianza di Mons. Juan Hervás, in Un Santo per amico, Ares, Milano 2000, p. 172.

[19] Cfr. Positio, cit., p. 1134.

[20] Cfr. Testimonianza di Mons. Abílio del Campo y de la Bárcena, in Un Santo per amico, cit., p. 48.

[21] Cfr. Positio, cit., p. 1135.

[22] Cfr. F. OCÁRIZ, Sobre Dios, la Iglesia y el Mundo, Rialp, Madrid 2013, pp. 90-91.

[23] Cfr. Positio, p. 1138; SAN JOSEMARÍA, Lettera 2-X-1963, n. 1.

[24] Cfr. I. KER, John Henry Newman: a Biography, Oxford Univ. Press, Oxford-New York 2009, p. 654.

[25] Mons. Álvaro del Portillo ha testimoniato che San Josemaría «si rattristò nel constatare come, nell’affrontare le diverse questioni sul tappeto, a volte venivano abbandonati gli obiettivi originari, soprattutto avvalendosi della manipolazione delle informazioni: a volte circolavano notizie che erano una vera e propria violazione della riservatezza con cui si sarebbero dovuti svolgere i lavori nell’Aula, autentiche pressioni sui Padri. Egli non attribuì mai questo deterioramento della discussione al comportamento dei Padri conciliari; lamentava piuttosto che alcuni gruppi, spesso estranei al Concilio, approfittassero della legittima diversità di opinioni per seminare la confusione. Prescindendo dal parere della maggioranza dei Padri, premevano per ottenere la revisione di alcune decisioni già assunte dal Magistero e come tali non incluse nel programma dei lavori, anche perché non rispondenti alle necessità e alle attese del momento. È risaputo che purtroppo questo atteggiamento trovò un’eco sproporzionata nei mezzi di comunicazione: si diffuse così una falsa immagine delle Sessioni conciliari e tra i fedeli — laici, chierici e religiosi — si insinuò la sensazione di una certa provvisorietà, e dunque la prospettiva di un revisionismo, di determinati aspetti dogmatici e disciplinari fino ad allora indiscussi. E fu la premessa per il verificarsi di troppi abusi». Á. DEL PORTILLO, in Positio, cit., p. 1141.

[26] Egli scriveva ai suoi figli: «Pregate, e allo stesso tempo restate sereni, aumentando la vostra fiducia in Dio. Ciò che fino adesso è stato proposto dal Sacro Magistero della Chiesa come verità di fede divina o di fede cattolica, rimarrà inamovibile, perché è assolutamente impossibile che la Chiesa lo ritratti». SAN JOSEMARÍA, Lettera 2-X-1963, n. 18.

[27] SAN JOSEMARÍA, Lettera 15-VIII-1964, n. 27. In un altro suo scritto: «Il dialogo — il dialogo a cui oggi il mondo aspira — non è un’invenzione degli uomini [...] E non è diventato slancio della Chiesa per la bella pensata di qualche ecclesiastico, desideroso di adattarsi ai tempi. No: se c’è dialogo, se può esserci dialogo, è perché abbiamo l’esempio di Gesù Cristo». SAN JOSEMARÍA, Lettera 24-X-1965, n. 6.

[28] Sul concetto di “aggiornamento” si può vedere la sua risposta al direttore della rivista spagnola Palabra: Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 1.

[29] A detta di Mons. Giacomo Barabino, egli «insisteva sulla necessità che non venisse sminuita in nulla l’autorità del Romano Pontefice, e che quindi ricevesse il suo giusto inquadramento dottrinale la collegialità dei Vescovi. I mezzi di comunicazione sociale travisavano con frequenza il senso di determinati interventi e della stessa discussione conciliare; quindi era tutt’altro che teorico il pericolo che la sottolineatura della collegialità andasse a danno dell’autorità pontificia». Positio, cit., p. 1139.

[30] Per una percezione generale dell’animo di Paolo VI in quel periodo del 1964, cfr. P. MACCHI, Paolo VI nella sua parola, Morcelliana, Brescia 2001, p. 109.

[31] L’amicizia del Fondatore dell’Opus Dei con Mons. Dell’Acqua risaliva a un periodo anteriore, e si mantenne fino alla sua morte. La situazione dei primi anni del pontificato di Paolo VI si può paragonare, in un certo modo, a quella sorta dopo l’udienza di Giovanni XXIII a San Josemaría del 27-VI-1962, in cui il Papa volle incoraggiare un rapporto fluido e frequente tra il suo segretario, Mons. Loris Capovilla, e il Fondatore dell’Opus Dei. Sul rapporto tra Mons. Dell’Acqua e San Josemaría e l’interesse di Paolo VI in esso, cfr. Á. DEL PORTILLO, Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, cit., pp. 17s.

[32] SAN JOSEMARÍA, Lettera al Santo Padre Paolo VI (23-IV-1964), in AGP.

[33] PAOLO VI, Lettera apostolica in forma di “Motu proprio” Sanctitas clarior, 19-III-1969, in EV 3/847.

[34] BEATO GIOVANNI PAOLO II, Omelia a Castelgandolfo, 19-VIII-1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. II/2 (1979), 142.

[35] Il Cardinale Ugo Poletti ricordava, nell’apertura del processo romano della sua Causa di Canonizzazione, che «per aver proclamato la vocazione universale alla santità, fin da quando fondò l’Opus Dei nel 1928, Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer è stato unanimemente riconosciuto come un precursore del Concilio proprio in ciò che costituisce il nucleo fondamentale del suo Magistero, tanto fecondo per la vita della Chiesa». CARD. UGO POLETTI, in Rivista Diocesana di Roma (marzo-aprile 1981), p. 372. Nella sua dichiarazione al processo romano per la Causa di Canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei, il Cardinale Sebastiano Baggio affermava: «Il tempo permetterà di valutare tutta la portata storica del suo insegnamento, sotto tanti aspetti autenticamente rivoluzionario e anticipatore del messaggio solennemente proclamato dal Concilio Vaticano II, proprio in quella che può definirsi come la sua essenza: la chiamata universale alla santità» (in Positio, cit., p. 1144). Più di recente, il Cardinale Kurt Koch, quando era ancora Vescovo di Basilea, ricordava come la differenza teologicamente oggettiva tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale era un’altra intuizione del Fondatore dell’Opus Dei che faceva di lui un precursore del Vaticano II, cfr. K. KOCH, “Kontemplativ mitten in der Welt. Die Wiederentdeckung des Taufpriestertums beim seligen Josemaría Escrivá”, in C. ORTIZ-ECHAGÜE (ed.), Josemaría Escrivá. Profile einer Gründergestalt, Adamas, Köln 2002, p. 323.

[36] SAN JOSEMARÍA, Lettera 24-X-1965, n. 4.

[37] Cfr. J. H. NEWMAN, “Letter to W. J. O’Neill Daunt” (7-VIII-1870), cit. in W. PH. WARD, The Life of John Henry Cardinal Newman, vol. 2, Longmans, Green and Co., London 1912, p. 310.

[38] H. JEDIN, Storia della mia vita, Morcelliana, Brescia 1987, p. 324.

[39] Sulla diagnosi del momento, cfr. SAN JOSEMARÍA, Lettera 19-III-1967, n. 107.

[40] PAOLO VI, Omelia nel primo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II (8-XII-1966), in Insegnamenti di Paolo VI, vol. IV (1966), 623.

[41] PAOLO VI, Udienza generale (12-I-1966), in Insegnamenti di Paolo VI, vol. IV (1966), 698-699.

[42] PAOLO VI, Discorso ai Cardinali (23-VI-1972), in Insegnamenti di Paolo VI, vol. X (1972), 672-673.

[43] Questa ricezione del Vaticano II, oltre che nelle interviste da lui rilasciate nei due anni successivi al Concilio, si può cogliere nelle lettere ai fedeli, con diverse date, ma riviste nel periodo pre-conciliare e conciliare: cfr. J. L. ILLANES, “Obra escrita y predicación de San Josemaría Escrivá de Balaguer”, in Studia et Documenta, 3 (2009), 251s.

[44] Cfr. SAN JOSEMARÍA, Lettera 2-X-1963, nn. 6-7. «Non solo io, ma molti altri possono testimoniare questa realtà» (cfr. Positio, cit., pp. 1148-1150).

[45] SAN JOSEMARÍA, Lettera 19-III-1967, n. 106.

[46] In una intervista concessa negli anni Ottanta, l’allora Cardinale Joseph Ratzinger formulava un giudizio analogo: «Bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un “prima” e di un “dopo” nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo. Non c’è una Chiesa “pre” o “post” conciliare: c’è una sola e unica Chiesa che cammina verso il Signore, approfondendo sempre di più e capendo sempre meglio il bagaglio di fede che Egli stesso le ha affidato [...] Il Concilio non intendeva affatto introdurre una divisione del tempo della Chiesa», in V. MESSORI-J. RATZINGER, Rapporto sulla fede, Ed. Paoline, Torino 1985, p. 33.

[47] Cfr. BENEDETTO XVI nel suo discorso natalizio alla Curia Romana del 22-XII-2005.

[48] Dopo l’esame di questa e di altre lettere indirizzate da San Josemaría ai fedeli dell’Opus Dei in quegli anni, uno dei teologi censori del processo di canonizzazione scriveva: «Dagli scritti del Servo di Dio si vede in trasparenza una valutazione preoccupata, una sollecitudine sofferta [...]. Lo stesso Santo Padre Paolo VI lamentò pubblicamente un fenomeno di “autodistruzione” in atto nella Chiesa e non c’è da stupirsi se, in uno spirito sacerdotale così eminente come il Servo di Dio, tutto ciò destasse un senso crescente di sofferenza, un’ansia di riparazione, il bisogno di stimolare i suoi figli a una fedeltà senza mezzi termini [...]» e poco oltre lo stesso Censore precisava: «Ma la lucida consapevolezza della difficoltà non provoca in lui atteggiamenti di sterile lamento o di pessimismo. Queste “Lettere”, che sono fra gli scritti più belli del Servo di Dio e più rivelatori della grandezza del suo animo, sono costellate di richiami alla fiducia, alla speranza, alla serenità: lo Spirito Santo non ha abbandonato la Chiesa e non ha senso la nostalgia del passato. Le circostanze presenti vanno viste come segno di una particolare predilezione del Signore: tempo di fedeltà, tempo di santità» (“Voti dei Censori”, in Positio, cit., p. 1153).

[49] SAN JOSEMARÍA, Colloqui, cit., n. 23.

[50] «Ti supplichiamo — si legge in uno dei paragrafi di questa consacrazione — di assistere sempre la tua Chiesa, e specialmente il Romano Pontefice perché ci guidi con la sua parola e il suo esempio e affinché raggiunga la vita eterna insieme al gregge che gli è stato affidato; che mai manchino i buoni pastori e che tutti noi fedeli, servendoti con santità di vita e integrità nella fede, raggiungiamo la gloria del Cielo». “Consacrazione dell’Opus Dei allo Spirito Santo”, cit. in A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, vol. III, cit., p. 582; per altri particolari di questa consacrazione e del periodo, cfr. pp. 567-585.

[51] CARD. F. KÖNIG, “Un hombre a la medida de la Iglesia”, in AA.VV., Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer y el Opus Dei, Eunsa, Pamplona 1982, p. 57.

Romana, n. 57, Luglio-Dicembre 2013, p. 248-271.

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