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La grazia nella spiritualità di Josemaría Escrivá

Cardinale Leo Scheffczyk

Orig.: Die Gnade in der Spiritualität von Josemaría Escrivá, in: Josemaría Escrivá. Profile einer Gründergestalt (Ortiz, Cesar, ed.), Adamas, Köln 2002, 57-80

Il Fondatore dell’Opus Dei, nella sua vasta opera letteraria di spiritualità, non ci ha lasciato nessun trattato teologico e nessun particolare saggio sulla grazia. Perciò potrebbe sembrare fuori luogo dedicare una ricerca teologica sul concetto di grazia in Josemaría Escrivá: potrebbe degenerare facilmente in qualcosa di artificioso e in contraddizione con l’esperienza viva della grazia, che aleggia con chiarezza in tutta l’opera di Escrivá. Tuttavia si può replicare, da una parte, che non si tratta di tentare una sintesi sistematica, come se si volesse attribuire a posteriori a Escrivá un sistema concettuale che non ha avuto l’intenzione di costruire; d’altra parte, non si tratta neppure di elaborare un progetto che poggi sulla dottrina teorico-teologica, perché questo potrebbe falsare l’intreccio organico della concezione della grazia con l’esperienza spirituale fondamentale di Escrivá. Il tema, dunque, non si può porre con un titolo dogmatico «De gratia», ma lo si include sin dal principio nella spiritualità di Josemaría, come la troviamo espressa in colloqui spirituali, omelie e suggestivi aforismi. Soltanto partendo da tali forme di espressione è possibile sviscerare tutto ciò che c’è di caratteristico nella conce-zione di grazia in Escrivá.

Man mano che questa concezione si va esponendo in un genere letterario particolare, i concetti utilizzati corrispondono a una terminologia propria, al di fuori di ciò che è strettamente dogmatico. Anche se si può supporre che Escrivá, come teologo, si attenesse alla dottrina sulla grazia così come è esposta nel dogma della Chiesa (e ciò sarà evidente nel presente studio), egli tuttavia impiegava raramente una terminologia strettamente dogmatica. Ecco perché nei suoi scritti solo ogni tanto appaiono i concetti tradizionali come «grazia esterna» e «grazia interna», «grazia attuale» e «grazia abituale», «grazia creata» e «grazia increata», anche se la realtà di questi concetti è presente. Qualcosa di simile accade con le impostazioni di teoria teologica pertinenti alla dottrina della grazia, quali le relazioni fra natura e grazia, grazia e libertà, o grazia e opere. Neppure qui si ha una esposizione sistematica di tali questioni, che comunque appaiono chiaramente presenti e verificabili in modo vivo, dinamico e suggestivo come contenuto basilare e fondamento di ciò che l’autore tratta. Lì si trova l’ispirazione del modo in cui Escrivá concepisce la grazia. Gli aspetti teorico-teologici sono messi in risalto col vigo-re primigenio dell’impronta religiosa e con un linguaggio originale. Nello stesso tempo lasciano vedere l’interiorità che proviene dalla sintonia tra la parola pronunciata e la ripercussione che tale parola produce nel credente. Per tali motivi questa esposizione delle idee di Escrivá vuole rispettare l’espressione viva ed esistenziale del mistero della grazia, evitando la pretesa di portare il tema a livello teologico, privandolo della sua originalità.

1. Considerazioni dogmatiche intorno alla spiritualità e alla fondazione dell’Opus Dei

Il Fondatore dell’Opus Dei — a somiglianza dell’Apostolo Paolo — si trasformò in un eminente araldo del mistero della grazia, in forza della esperienza del suo cammino personale. Un biografo ben documentato trasmette così la sua impressione sull’alto valore della grazia in Escrivá: «Ciò che è proprio, il primo e l’ultimo, dev’essere operato dalla grazia»[1]. Lo stesso autore cita una espressione del Fondatore riguardo agli inizi dell’Opera: «Non aveva altro che gioventù, buon umore e grazia di Dio»[2].

Riferendosi all’impronta lasciata in lui dall’esempio dei genitori, Josemaría scrive in una lettera del 1971: «Così il Signore ha preparato la mia anima, con questi esempi pieni di dignità cristiana e di eroismo nascosto [...] perché in seguito gli servissi da povero strumento, con la grazia di Dio»[3].

Pur senza nominarla esplicitamente, l’onnipresenza della grazia nel pensiero di Escrivá è espressa dal frequente uso del concetto soprannaturale. Nella prospettiva della teologia dei giorni nostri questo riferimento non appare molto raccomandabile; infatti il concetto del «soprannaturale» oggi viene considerato screditato, perché nella relazione fra natura e grazia favorisce un meccanicismo tendente a un «pensiero a due livelli», e in questo modo favorirebbe un estrinsecismo nella dottrina sulla grazia in contraddizione con il modo organico di percepire l’unità fra natura e grazia[4]. Ma l’utilizzazione del vocabolo, in sé, non autorizza a impugnarne il contenuto con il verdetto di estrinsecismo, perché l’espressione sta solo a indicare la sublimità e la superiorità della grazia di Dio su tutto il creato.

Il rimprovero di una dizione inadeguata nel caso di Escrivá è del tutto fuori luogo; infatti, da una parte, egli ha una profonda coscienza dell’unità di natura e di grazia (come si vedrà più avanti) e, d’altra parte, con una cosciente intenzione teorica, dà una esatta descrizione di tale relazione. Escrivá introduce la relazione con una immagine espressiva, quando indica il soprannaturale come il contrario di una superficie bidimensionale, quasi una terza dimensione che fa parte dell’esistenza concreta di un essere umano. «La gente ha una visione piatta, attaccata alla terra, a due dimensioni. Quando vivrai la vita soprannaturale otterrai da Dio la terza dimensione: l’altezza e, con essa, il rilievo, il peso e il volume»[5]. Il punto di paragone teologicamente rilevante in questa immagine consiste nel fatto che tale dimensione non può essere concepita come una struttura aggiunta alla realtà esistente, mentre invece appartiene alla realtà; pur essendo intimamente legata a essa, la supera ampiamente in quanto a importanza e valore.

Mantenendo le differenze essenziali tra natura e grazia, creazione e redenzione, bisogna considerare la valutazione corretta del soprannaturale a partire dal modo in cui l’autore concepisce il naturale. Se questi concepisse il naturale come qualcosa di puramente esteriore, esso perderebbe per l’uomo il significato essenziale, teleologico e determinante per ciò che riguarda la salvezza o la condanna. Come abbiamo già notato, l’autore non dà nei suoi testi di spiritualità nessuna spiegazione teorica su questa re-lazione, che la tradizione cerca di chiarire (in modo poco convincente) con l’aiuto della potentia oboedientialis della moderna teologia utilizzando il termine (non esente da problemi) di «esistenziale soprannaturale»[6]. Però esistono criteri atti a dimostrare che Escrivá concepisce questa relazione come qualcosa di interiore e dinamico, che fa sì che l’uomo, come persona che esiste e ama, si orienta a ciò che della grazia è gratuito, sicché non è un’aggiunta esteriore all’essere uomo, ma il suo intimo complemento e la sua pienezza. È soprattutto significativo nella concezione di Escrivá l’impiego di un topos fondamentale: il «cammino», il «cammino dell’uomo verso la santità». Questa espressione mette in evidenza l’orientamento dell’essere umano verso la grazia[7]. Un fondamento originale, benché non impiegato come argomento teologico, in questa relazione è la concezione di Escrivá sul legame tra le virtù naturali e quelle soprannaturali. Alcune parole di Escrivá rendono palpabile l’unità organica fra le due realtà: «Praticando la carità — l’Amore — si attuano tutte le virtù umane e soprannaturali del cristiano che formano un’unità»[8]. Perciò la pietà cristiana «esige anche l’esercizio delle virtù umane»[9]. In un consiglio spirituale ai coniugi dice: «Marito e moglie devono sviluppare la propria vita interiore e apprendere dalla Sacra Famiglia a vivere con finezza — per un motivo che è allo stesso tempo umano e soprannaturale — le virtù del focolare cristiano. Lo ripeto ancora: la grazia di Dio ce l’hanno»[10]. Una certezza di questo tipo si spiega solo se parte dalla convin-zione che tutto ciò che è naturale sta sotto l’influenza della grazia che lo dirige.

Se ora prendiamo in considerazione un altro aspetto, questo vale anche per la relazione tra ragione (intelletto) e fede: «Dato che il mondo è uscito dalle mani di Dio, ed Egli ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli ha dato una scintilla della sua luce, il lavoro dell’intelligenza — ancorché richieda un duro sforzo — deve sviscerare il senso divino già insito naturalmente in tutte le cose; e con la luce della fede ne percepiamo anche il valore soprannaturale, reso comprensibile dalla nostra elevazione all’ordine della grazia»[11].

Questa unità tra l’umano-creaturale e la grazia viene spiegata sommariamente con la forza dell’amore che agisce nell’uomo: «Dobbiamo essere molto umani, perché altrimenti non potremmo neppure essere divini. L’amore umano, l’amore di quaggiù, quando è vero, ci aiuta ad assaporare l’amore divino. Pregustiamo in tal modo l’amore con cui godremo Dio e quello che intercorrerà fra di noi in Cielo, quando il Signore sarà tutto in tutti»[12]. Partendo da queste esperienze della vita umana, l’esperta guida spirituale e pastore di anime introduce la verità teologica di un desiderium naturale e presenta il fondamento di una profonda concezione unitaria di natura e grazia, lontana sia da fratture dualiste che da confusioni moniste.

Come ultima considerazione sulla concezione unitaria di natura e grazia, caratteristica dell’opera spirituale del Fondatore dell’Opus Dei, citiamo un pensiero di carattere assolutamente originale, che si potrebbe definire come un contenuto proprio ed esclusivo della sua spiritualità. Ci riferiamo a un aspetto presente in tutta la sua opera: il significato teologico di lavoro e la sua relazione con la santità. Il tentativo di scoprire nel lavoro umano un mezzo e una esigenza mediatrice per la grazia parte, secondo Escrivá, dal racconto della creazione, dove il lavoro è incluso nell’ambito della somiglianza dell’uomo a Dio. «Le attività professionali [...] sono testimonianze della dignità della creatura umana; occasione di sviluppo della personalità; vincoli di unione con gli altri; fonti di risorse; mezzi per contribuire al miglioramento della società in cui viviamo, e per promuovere il progresso dell’umanità tutta... Per un cristiano, queste prospettive si allungano e si allargano ancora di più, perché il lavoro — assunto da Cristo come realtà redenta e redentrice — si trasforma in mezzo e cammino di santità, in concreta occupazione santificabile e santificatrice»[13].

Non c’è dubbio che il lavoro servirà da mezzo di santificazione solo per l’uomo credente e in grazia che santifica il lavoro: dal suo lavoro scaturisce, quasi come un riflesso, una rinnovata santificazione. Però, oltre ad aver raggiunto la vita della grazia nella sua dimensione soprannaturale, vige anche il postulato secondo cui «qualsiasi attività» può trasformarsi «in un modo di servire il Signore e gli uomini»[14]. In altre parole, anche il lavoro, in quanto realtà naturale, per il suo carattere creazionale, esprime relazione dell’essere umano con Dio. Questo non manca d’importanza per ciò che riguarda la relazione tra la realtà soprannaturale e l’essere toccato dalla grazia; infatti «nella semplicità del tuo lavoro ordinario, nei particolari monotoni di ogni giorno, devi scoprire il segreto — nascosto per tanti — della grandezza e della novità: l’Amore»[15]. Questo è valido specialmente quando il lavoro, in una relazione oggettiva sia con gli uomini che con Dio, «acquista il valore dell’Amore con cui viene realizzato»[16].

Nell’ambito dell’amore, il lavoro umano è orientato verso il supremo amore soprannaturale di Dio che, attraverso l’azione del Redentore, innalza definitivamente ciò che è naturale alla dimensione della santità e della salvezza. Però questo vincolo non è una sovrapposizione casuale e puramente esteriore a una realtà umana che non sarebbe affatto orientata verso un tale legame e un tale innalzamento. L’amore, che in modo naturale, come è compito della creazione, agisce per mezzo del lavoro, è piuttosto la caratteristica interiore che, per così dire, va incontro all’amore soprannaturale di Dio, in modo tale che l’unione dell’amore naturale e di quello soprannaturale non può essere considerata come una cosa casuale o estrinseca. Dal lavoro naturale, e dal fatto che viene concepito come un impulso verso l’amore più elevato di Dio, discende — ecco un aspetto significativo nel pensiero spirituale di Escrivá — il passaggio dal lavoro naturale all’azione soprannaturale e all’apostolato. Anche questo è fondato sul lavoro naturale, allo stesso modo in cui le virtù del lavoro naturale, a loro volta, sono imprescindibili per l’attività apostolica[17].

Non c’è dubbio che includendo, come è caratteristico in Escrivá, il lavoro nell’ambito della grazia, appare il problema che — se non se ne tenesse conto — potrebbe sembrare una sorta di obiezione contro l’esattezza di questa posizione teologica: l’agire umano, ossia un’attività naturale orientata verso un risultato, sembra contraddire la gratuità della grazia ed eliminare il suo carattere di dono non meritato. L’obiezione è rivolta non solo alla fase originaria del passaggio ascendente dalla natura alla grazia, che così potrebbe essere interpretato come ottenuto «dal basso»; l’obiezione riguarda anche il fare e l’agire apostolico, richiesto sempre nello stato di grazia: in altre parole, il lavoro apostolico che deve dar frutto e contribuire alla santificazione del mondo. Il pastore di anime e Fondatore dell’Opus Dei esige da quelli che gli sono stati affidati un impegno apostolico e un lavoro continuo e deciso per la realizzazione del regno di Dio. Nello stesso tempo mette in guardia energicamente dalla pigrizia, da una falsa autosufficienza, dalla tiepidezza e dalla mediocrità. Serva da esempio il testo che segue: «Non ci deve avanzare nemmeno un secondo di tempo: non sto esagerando. Lavoro ce n’è; il mondo è grande e si contano a milioni le anime che ancora non hanno ascoltato con chiarezza la dottrina di Cristo. Mi rivolgo a ciascuno di voi. Se ti avanza tempo, rifletti un momento: è quasi certo che sei caduto nella tiepidezza, o che, soprannaturalmente parlando, sei un paralitico. Immobile, inerte, sterile, non sviluppi tutto il bene che dovresti comunicare a coloro che ti stanno accanto, nel tuo ambiente, nel tuo lavoro, nella tua famiglia»[18].

In queste esigenze aleggia un nobile pathos di zelo per il lavoro, la continua attività e la donazione ardente. L’energico vocabolario potrebbe alimentare il sospetto di attivismo, di una eccessiva insistenza nel «fare» e di fiducia nelle proprie for-ze, a scapito del ruolo della grazia.

Ma in realtà questi richiami esigenti sono teologicamente ben fondati: nel primo caso, nel quale avviene l’ascesa — con la mediazione dell’amore — di ciò che è natu-rale al livello della grazia e dell’apostolato, si attesta che l’amore, per essenza, non forza, né richiede, né pretende nulla per sé, ma riconosce la libertà di Dio, datore della grazia; nell’altro caso (quello dell’attività apostolica del cristiano che è già in grazia) si attesta in base a una chiara convinzione di fede, sempre presente, che ogni azione nella grazia sgorga dalla grazia e non è mai una realizzazione personale. Vale a dire, che ogni operazione umana è una cooperazione con la grazia.

Il carattere di questo agire umano nell’apostolato, indice di un’attività personale sul fondamento della grazia divina, è espresso, in modo insuperabile, dalla necessità della preghiera in tutte le attività apostoliche e nel loro collegamento con la contemplazione; infatti, nella misura in cui l’orazione modella e vivifica il lavoro, esso è inseparabile dalla grazia divina. Queste due esigenze della grazia si trovano unite in testi come questo: «Penso, effettivamente, che rischiano seriamente di smarrire la via coloro che si lanciano nell’azione — nell’attivismo — prescindendo dall’orazione, dallo spirito di sacrificio e dai mezzi indispensabili per ottenere una solida vita di pietà: la frequenza ai Sacramenti, la meditazione, l’esame di coscienza, la lettura spirituale, un assiduo rapporto con la Vergine e con gli Angeli custodi... Tutte queste cose, d’altronde, contribuiscono con insostituibile efficacia a rendere piacevole la giornata del cristiano, perché dalla sua ricchezza interiore stillano dolcezza e felicità divine, come il miele dal favo»[19].

In conseguenza, per ciò che nella concezione spirituale di Escrivá si riferisce alla energica maniera di accentuare l’attività umana, si deve confermare che la relazione tra natura e grazia è corretta in tutti i suoi aspetti ed è messo in evidenza l’aspetto dominante e preferenziale dell’efficacia della grazia, senza cadere nella pretesa di una efficacia universale alla maniera protestante.

Ma la dottrina spirituale di Escrivá sulla grazia non si rende ancora evidente a chi prende in considerazione solo l’integrità dogmatica fondamentale che in essa si manifesta. Se si va più a fondo, si arriva alla contemplazione dell’agire concreto della grazia nell’uomo e nel cristiano.

2. La grazia come forza per il cammino: conversione e vocazione

La dogmatica tradizionale presenta la comprensione completa della grazia come realtà della vita cristiana, aiutandosi con la differenziazione tra grazia attuale ausiliaria e grazia abituale santificante con il relativo corteo; a questo — secondo una modalità scolastica corretta — si antepone una definizione concettuale dell’essenza della grazia divina. È chiaro che così non si svela formalmente il mistero dell’essenza della grazia. Inoltre, su un piano di pensiero e di espressione spirituale, non c’è posto per una definizione simile. Anche se in alcune edizioni di opere del Fondatore dell’Opus Dei appaiono nell’indice analitico alcune voci come «essenza ed effetti della grazia»[20], non viene data alcuna vera e propria definizione. In realtà le definizioni non sono altro che analogie come «luce», «forza», «potere di Dio»[21], «tesori inesauribili di amore, di misericordia, di tenerezza»[22]. Comprensibilmente, termini specifici nella scienza teologica, come gratia actualis — habitualis (sanctificans), non hanno nessun ruolo essenziale. Tuttavia questo non significa che di fatto queste realtà non siano presenti; perché altrimenti la teologia della grazia resterebbe, come nel protestantesimo, notevolmente ridotta[23].

La differenza citata appare, nella teologia spirituale, in altri contesti e sotto un’altra terminologia. Terminologia che dipende chiaramente dal modo fondamentalmente dinamico e personale — Dio e l’uomo, l’uno di fronte all’altro — del pensiero di Escrivá e si associa al carattere basilare di ciò che Escrivá (significativamente già nella sua prima opera) intende come «cammino» dell’uomo verso Dio e verso la santità: un movimento incessante, presente anche nel lavoro, al quale da parte di Dio corrisponde un agire ugualmente dinamico e permanente, che trasforma il cammino dell’uomo in un cammino di salvezza. La teologia dogmatica adopera qui il concetto di «grazia cooperante». Anche Escrivá certe volte parla di un «aiuto» da parte di Dio, ma poi paragona questo termine non specifico con il carattere di andatura e di cammino dell’esistenza umana e interpreta l’aiuto di Dio, anzitutto, nel senso di punto di partenza decisivo, come grazia della conversione.

Perciò quello che la teologia tradizionale chiama grazia attuale appare in primo luogo sotto il nome di conversione, che unisce l’azione divina e la decisione umana: «La conversione è cosa di un istante. La santificazione è lavoro di tutta la vita»[24]. La conversione dà all’uomo «luci nuove» che si manifestano come con-tentezza, perché il Signore «ti ha fatto scoprire» di nuovo tante realtà[25]. È l’evento nel quale Dio fa in modo che l’uomo reagisca[26]. Questo succede quando uno sente «dolore per i tuoi peccati veniali! — Perché, fino a quel momento, non avrai cominciato ad avere una vera vita interiore»[27]. È un momento simile al risveglio di Lazzaro dalla rigidezza della morte: «Se ascolti l’ispirazione di Dio, e la segui — Lazare, veni foras! — tornerai alla Vita»[28].

In conformità con l’immagine della vita umana come cammino, conversione assume il significato di «una nuova rettifica»[29], con la quale si fa strada un convincimento che è un impegno d’amore: «Amarti: in questo consisterà la mia vita»[30]. È il momento in cui l’anima, con la quale Dio ha fatto finta di incontrarsi casualmente, esclama: «Nunc coepi!, adesso comincio!»[31]. Attra-verso questo cammino si avverte la chiamata: «Convertiti adesso, mentre ancora ti senti giovane... Com’è difficile rettificare quando l’anima è invecchiata!»[32]. È il momento in cui il direttore di anime assicura «che si può arrivare a essere un al-tro Sant’Agostino, con il mio passato», non senza ricordare prima: «Però, devi troncare coraggiosamente e alla radice, come il santo vescovo di Ippona»[33]. Il presupposto indispensabile per un cambiamento di questo genere sta nell’umiltà: «Alla conversione si ascende per mezzo dell’umiltà, per via di abbassamento»[34].

Escrivá trova nella parabola del figlio prodigo l’immagine biblica più appropriata per caratterizzare la conversione operata da Dio e dalla sua grazia, in cooperazione con l’uomo: «Il Signore, nostro Padre, quando accorriamo a Lui con pentimento, trae ricchezza dalla nostra indigenza, forza dalla nostra debolezza [...]. Soltanto perché suo figlio — che l’aveva tradito — è ritornato, Egli prepara una festa»[35].

La ricchezza interiore donata a chi si converte consiste anzitutto nella fede: «Alcuni passano per la vita come per un tunnel, e non si spiegano lo splendore e la sicurezza e il calore del sole della fede»[36]. Escrivá, in accordo con la sua concezione di base del dinamismo personalista, concepisce la fede non solo come una fede in quanto contenuto dottrinale (benché questo aspetto non manchi mai), ma soprattutto in quanto vita con Dio in Cristo: «Vivi la fede, allegro, unito a Gesù»[37].

La conversione operata dalla grazia, nella spiritualità di Escrivá, acquista un chiaro significato specifico, che spesso è presente tra i dottori di spiritualità, ma che in Escrivá acquista una fisionomia molto marcata: è la conversione vista come un rinnovamento continuo e come un continuo ricominciare nel cammino spirituale, che deve essere sempre accompagnato dalla grazia attuale, anche quando c’è una unione vitale e amorevole con Cristo, ma in un modo molto particolare nel caso in cui si sia perduta la grazia dell’unione con il Signore. Nel primo caso vale il principio: «Per un figlio di Dio, ogni giornata dev’essere occasione per rinnovarsi, sicuro che, con l’aiuto della grazia, giungerà al termine del cammino, che è l’Amore»[38]. Nel secondo caso vale la riflessione che poggia sulla realtà della grazia cooperante: «Se in qualche momento un’anima sperimenta la caduta, o fa un passo falso — non è necessario che succeda —, gli si dà il rimedio opportuno, come si fa abitualmente quando è in pericolo la salute fisica; poi, di nuovo in marcia!»[39]. Il paragone con la vita ordinaria è adeguato, in quanto chiarisce la continuità nella vita spirituale, che da un altro punto di vista viene considerata anche come una lotta[40], impossibile da comprendere senza la con-tinua attività della grazia attuale.

Nella via della vita ordinaria, «c’è bisogno di molto sole del Cielo e di sforzi personali, piccoli e costanti, per strappare quelle inclinazioni, quelle immaginazioni, quell’abbattimento: quel fango appiccicoso delle tue ali»[41]. È un continuo ricominciare: «Rettificare. Ogni giorno un po’. Questo è il tuo lavoro costante, se davvero vuoi farti santo»[42]. «La tua esistenza non è ripetizione di atti sempre uguali, perché ogni atto deve essere più giusto, più efficace, più pieno di Amore del precedente. Ogni giorno nuova luce, nuovo slancio!, per Lui!»[43]. «Ogni giorno, fa’ tutto il possibile per conoscere Dio, per frequentarlo, per innamorarti ogni istante di più, senza pensare ad altro che al suo Amore e alla sua gloria»[44].

Con questi richiami Escrivá si pone sulla linea spirituale della dottrina cattolica intorno alla grazia, che unisce la forza della grazia, che l’uomo è incapace di meritare, alla cooperazione umana. Escrivá non ignora il rimprovero e il pericolo di un pelagianesimo che accentui la giustificazione attraverso le opere, benché egli non consideri tale posizione come un difetto congenito della dottrina cattolica sulla grazia; da qui il testo che segue: «È stato messo in rilievo, molte volte, il pericolo delle opere senza vita inte-riore che le animi: però si dovrebbe anche sottolineare il pericolo di una vita interiore — ammesso che possa esistere — senza opere»[45]. Così prende apertamente posizione contro un sola gratia, che potrebbe apparire cattolico, partendo dal fatto che l’origine di ogni azione salvifica affonda le radici nella grazia e volendo rinunciare così a una concausalità umana. Qui Escrivá presenta una decisa e corretta applicazione del principio agostiniano: Qui te creavit sine te, non te iustificat sine te[46]. Il contrario di questa continua sollecitudine all’azione è per Escrivá la falsa tranquillità, comodità e passività di un amore senza spirito, che egli certe volte definisce semplicemente come «pigrizia». Per esempio: «Lottate contro l’eccessiva comprensione che ciascuno prova verso di sé: siate esigenti con voi stessi! Talvolta [...], con falsi pretesti, ce la prendiamo troppo comoda, dimentichiamo la benedetta respon-sabilità che pesa sulle nostre spalle, ci accontentiamo di salvare la faccia, ci lasciamo trascinare da "ragioni senza ragione" per restare con le mani in mano, mentre Satana e i suoi complici non vanno mai in ferie»[47].

Queste esigenze, che conferiscono alla spiritualità di Escrivá un carattere stra-ordinariamente attivo, con una voglia di fare orientata all’azione (senza che vi sia il pericolo di un semplice azionismo o di un ostentato attivismo, perché la forza della grazia interiore è sempre presente), si rivelano ancora più penetranti quando appaiono in rela-zione con la realtà del grande avversario e nemico di tutto ciò che è buono, vale a dire, del Maligno in persona, la cui realtà Escrivá non ha mai negato. È qui che la vita cristiana acquista un preciso carattere di lotta e l’attività della grazia spinge a un rinnovato impegno di resistere al nemico e di affrontarlo. È qui che mette nuovamente in evidenza il fine avvicinamento psicologico al mistero del male per una vita cristiana: «Non turbarti se, nel considerare le meraviglie del mondo soprannaturale, senti l’altra voce — intima, insinuante — dell’uomo vecchio». «Il mondo, il demonio e la carne sono degli avventurieri che [...] [approfittano] della debolezza del selvaggio che porti dentro»[48]. Cosciente della realtà di questa continua lotta, mostra comprensione per quelli che gli sono stati affidati, ma non senza spingerli a mobilitarsi: «Costa! Lo so bene. Ma avanti! Nessuno riceverà il premio — e che premio! — se non colui che lotta con bravura»[49].

Ciò che prima avevamo presentato come il «quotidiano» del cammino umano sotto l’azione della grazia, acquista una qualità superiore per merito di un aspetto della grazia divina da unire strettamente alla conversione, ma che si differenzia per una caratteristica particolare: si tratta della vocazione, inclusa nella grazia stessa. Nella vocazione prendono forma la tendenzialità e la completa realizzazione del cammino. «Conversione» e «vocazione» sono per Escrivá termini coestesi, realtà che provengono l’una dall’altra e rimangono unite; infatti nella vocazione la conversione con l’aiuto della grazia riceve il suo orientamento specifico verso la missione speciale — nel mondo o nel Regno di Dio — che Dio ha previsto per quella persona. Nello stesso tempo, nella vocazione risplende ancora più chiaramente il carattere della sovranità di Dio nel concedere la grazia, mentre la cooperazione umana si riduce a una certa inclinazione dell’uomo, che non influisce causalmente sulla vocazione.

Escrivá, nei suoi testi di spiritualità, allude spesso alla vocazione: «È la grazia più grande che il Signore abbia potuto farti»[50], dice a uno dei suoi seguaci. Il termine, però, non si riferisce a una vocazione «religiosa», ma — in corrispondenza al significato spirituale che ha radici nel lavoro profano — a qualunque azione di una professione nel mondo: «La tua perfezione consiste nel vivere perfettamente nel luogo, nell’ufficio e nel grado in cui Dio, per mezzo di chi ha autorità, ti vorrà collocare»[51]. Infatti una chiamata di Dio è già contenuta nella professione nel mondo come ambito di santità, nel suo triplice aspetto di santificare sé stesso, santificare il lavoro e santificare il mondo. La prima forma di vocazione è indubbiamente la scelta dell’uomo da parte di Dio a essere cristiano. Qui è inclusa la chiamata all’apostolato, al risanamento e alla santificazione del mondo. Escrivá, le cui parole sono piene di echi della Sacra Scrittura e dei Padri, cita qui un testo di Clemente Alessandrino sulla testi-monianza della vita reale dei cristiani nel mondo: «Convinciti che Dio è dappertutto; noi coltiviamo i campi lodando il Signore, solchiamo i mari ed esercitiamo ogni altro mestiere cantando le sue misericordie»[52].

Nella spiritualità di Escrivá, con l’assemblaggio della propria santificazione con la santificazione del mondo, la vocazione del laico alla santità, alla sequela di Cristo e al servizio del Signore che conferisce ai battezzati il carattere sacerdotale comune, sfocia necessariamente nell’apostolato. La chiamata «a una vita cristiana, a una vita di santità, a una vita di elezione, a una vita eterna»[53], rivolta a tutti, ha già in sé la spinta all’apostolato: «Figli di Dio. Portatori dell’unica fiamma capace di illuminare i cammini terreni delle anime [...]. Il Signore si serve di noi come di torce, perché questa luce illu-mini»[54]. Ed «è compito dei figli di Dio far sì che tutti gli uomini entrino — liberamente — nella rete divina, e così giungano ad amarsi. Se siamo cristiani, dobbiamo trasformarci in pescatori, come quelli descritti dal profeta Geremia, con la metafora che anche Gesù ha impiegato spesso: Seguitemi — dice a Pietro e ad Andrea —, vi farò pescatori di uomini»[55]. Questo vale specialmente per il sacerdozio: «è un apostolato!»[56]. Nel sacerdozio ministeriale l’essere e l’operare di Cristo si esprimono in un unico modo, in quanto il sacerdote «è sempre un altro Cri-sto»[57]. Qui la vocazione all’apostolato, come dono della grazia, trova la sua impronta più profonda. Sicuramente questa impronta apostolica va unita a un carattere essenziale che contrassegna già la vita di Cristo: si svolge sotto il segno della croce. «Essere cristiano — e in modo particolare essere sacerdote; ricordando anche che tutti noi battezzati partecipiamo al sacerdozio regale — significa stare conti-nuamente in Croce»[58].

Ritorniamo ora alla relazione — che Escrivá sottolinea sempre — tra natura e grazia, tra le virtù naturali umane, che devono essere impiegate nell’apostolato, e i doni soprannaturali, per segnalare infine una nuova sfumatura: «Dobbiamo essere molto umani; perché altrimenti non potremmo neppure essere divini»[59]. Questo postulato vale evidentemente come dimostrazione dell’unità organica tra natura e grazia, ed è come un baluardo contro ogni estrinsecismo nella dottrina sulla grazia. Però una simile unità organica tra il piano naturale e quello soprannaturale, con il conseguente riferimento al soprannaturale nell’uomo apostolico, non deve farci dimenticare che questa è una natura ferita e vulnerata. Dunque, l’elevazione e il perfezionamento della natura mediante la grazia e la sua corrispondenza, continuamente rinnovata, al soprannaturale, non possono essere concepiti nel senso puramente umanistico di una armonizzazione ed elevazione della natura. Questa elevazione non si può compiere, secondo Escrivá, in nessun altro modo che sotto il segno della croce. Questo significa che la natura capace di elevazione e destinata all’unità può trovare la sua corrispondenza alla grazia solo at-traverso la croce. Perciò «se davvero i suoi discepoli vogliono imitarlo, devono trasformare la propria esistenza in corredenzione di Amore, con l’abnegazione di sé, attiva e passiva»[60]. Qui compare come segno dell’attività apostolica il concetto di «corredenzione», che, del resto, non connota una sinergia insufficientemente ponderata, ma l’effetto dell’opera di redenzione di Cristo in una persona che abbia sensibilità apostolica.

Dal punto di vista della teologia della grazia, fine dell’attività apostolica è la santificazione del mondo e lo stato soprannaturale di santità, verso il quale si orienta ogni considerazione cattolica sulla grazia.

3. La santità, meta del cammino della grazia

Non c’è dubbio che nella teologia spirituale di Escrivá «conversione» e «vocazione», che rimandano al concetto di grazia attuale, sono orientate verso il fine della santificazione, nella quale la grazia — in corrispondenza all’espressione tecnica di «grazia santificante» — è diventata nell’uomo una realtà perenne di vita divina. La concezio-ne di fondo dinamico-personale della grazia nel Fondatore dell’Opus Dei chiarisce che essa non si caratterizza per l’attenzione alla realtà più elevata, la grazia creata, intesa come accidente inerente all’anima o abito, ma per l’attenzione allo stato che risulta dagli atti di santificazione: alla santità. Questo stato si può pensare solo unito a una persona, che tale stato trasforma in una persona santa.

È appena il caso di aggiungere che gli atti di conversione e vocazione che conducono alla santità non si possono separare dalla santità stessa; infatti anche l’uomo in grazia, il giustificato, ha bisogno — dato che, finché vive nel mondo, lo stato di grazia non ha in sé una fermezza inviolabile — dell’aiuto delle grazie attuali. È una necessità richiesta non solo dai motivi ontologici addotti dalla tradizione scolastica, come quello che un abito soprannaturale può stabilirsi solo mediante un impulso divino attuale[61], ma anche dalla fragilità e tentabilità della persona giustificata, che deve sostenere una lotta continua per mantenersi in grazia e santità. Così si rafforza il caratte-re di lotta dell’esistenza cristiana (Escrivá insiste spesso su questo punto) mediante una continua conversione e un rinnovato «sì» alla vocazione, per il fatto che il giustificato ha bisogno della grazia attuale[62].

A questa necessità si aggiunge anche il dovere di una orazione permanente, so-prattutto per conservare intatto lo slancio apostolico[63]. Affinché l’impegno per la santità rimanga senza incrinature allo stato del primo amore, originario e primaverile, è particolarmente importante pregare per la perseveranza: «Costanza, che nulla faccia vacillare. Ne hai bisogno. Chiedila al Signore e fa’ quanto puoi per ottenerla: perché è un gran mezzo per non separarti dal fecondo cammino che hai intrapreso»[64]. È vero che il «cammino» che Escrivá traccia nel percorso della conversione e della vo-cazione arriva alla sua meta terrena con la santificazione, però la meta non è il definitivo telos escatologico. Perciò il «cammino» prosegue anche dopo la giustificazione, sebbene su un piano più elevato.

L’insieme inseparabile dell’efficacia della grazia divina attuale e della vita in santità condiziona anche la continuità dell’impegno dell’uomo, donazione sacrificata e attività personale, che non possono mancare nell’esistenza apostolica che Escrivá indica segnata dalla croce, a somiglianza di Cristo. Un cristiano in stato di santificazione mediante la grazia, infatti, non smette mai di cooperare e di essere un agile lottatore. Da tutto ciò si potrebbe credere che la concezione della grazia in Escrivá sia qualcosa di sovrapposto, di attivista e di esigente, che non riesce a rivelare la bellezza, la ricchezza e la felicità della grazia santificante. Eppure, in verità, la sua continua attività nella realtà di una vita di santità conduce a conclusioni ben diverse. Essa ci permette di intravedere lo splendore di una vita in grazia, che costituisce il motivo più profondo dell’ottimismo che pervade ogni riflessione intorno alla struttura del soprannaturale.

A questo punto si deve mettere nuovamente in rilievo una caratteristica metodico-concettuale, che conferisce a questa concezione della grazia, sicuramente acquisita attraverso un’esperienza personalissima, la sua vitalità e il suo intimo dinamismo. Al di fuori della terminologia della gratia creata (che l’autore lascia da parte, pur riconoscendone la necessità), essa raggiunge rapidamente l’ambito di ciò che la teologia tradizionale (forse senza soppesare a sufficienza i dati teologici) chiama «corteo della grazia santificante», includendovi non solo le virtù teologali soprannaturali, le virtù mo-rali infuse e i doni dello Spirito Santo, ma anche l’inabitazione nel giusto dello Spirito Santo e delle tre persone divine. Questo significa che l’autore, senza avere la pretesa di risolvere l’attuale problematica intorno a gratia creata e gratia increata, nella struttura del suo pensiero concede alla grazia increata una priorità oggetti-va e una preferenza rispetto alla grazia creata. La grazia increata (che è Dio stesso nella sua donazione gratuita all’uomo) può essere vista come l’essenza dello stato di grazia, per la cui attualizzazione la grazia creata si mette a disposizione. In una concezione glo-bale della grazia, questo punto di partenza significa che la grazia, al livello più alto, non è un dono diverso e separabile da Dio, ma s’identifica con il Datore trinitario, che qui si dona alla creatura in una misteriosa unione personale.

Perciò le espressioni fondamentali di Escrivá sulla vita di santità si presentano, sotto questo aspetto personale della grazia, come una unione del beneficiato alla vita divina nelle tre persone divine. La ricchezza concettuale per esprimere questo aspetto è notevole. Anche se i diversi concetti hanno un’affinità tra loro, ognuno connota una particolare e diversa sfumatura. Così, fra l’altro, è possibile intuire qualcosa sulla ricca va-rietà e la viva pienezza della grazia personale.

Tra questi concetti ve ne sono alcuni di grande importanza: la «amicizia con Cristo», la «presenza di Dio», la «filiazione divina», la «unità con lo Spirito Santo», la «divinizzazione», «l’amore», la «infanzia spirituale», la «venuta dello Spirito Santo», la «partecipazione alla vita divina», la «identificazione con Cristo». In tutti, la grazia si esprime come santità attraverso una relazione personale. Le relazioni umane si caratterizzano per un semplice «faccia a faccia» che mantiene le distanze. In quest’altra relazio-ne, invece, nasce un’intimità che non ha nulla di analogo sul piano umano. Essa induce a considerare la grazia della santificazione come una unione con le persone divine, una penetrazione dello Spirito di Dio nella mente umana, una armonia tra la Parola di Dio e la voce della creatura.

Dal punto di vista dell’unione vitale, il significato delle virtù teologali — principi efficienti soprannaturali — ci appare in una nuova prospettiva. La comunione con il Dio della grazia nell’essere e nella vita si trasforma in una comunità nel fare e in una unità nell’agire. Il dono delle virtù soprannaturali conduce a un cambiamento e a una trasformazione della vita cristiana, che si differenzia nel più intimo della vita umana in generale. La fede «dispone la nostra intelligenza a dare assenso alle verità rivelate, a rispondere di sì a Cristo»[65], concede «il punto di vista soprannatura-le»[66], però è anche confidare e abbandonarsi nel Signore. Induce a «presagire nell’anima l’amore, la compassione, la tenerezza con cui Cristo Gesù ci guarda — perché Lui non ci abbandona — [...]; confidando nel Signore, nonostante le nostre miserie — anzi, con le nostre miserie —, saremo fedeli a Dio nostro Padre; risplenderà il potere divino e ci sarà di sostegno nella nostra fragilità»[67].

Anche l’agire nei confronti della salvezza produce nella vita del cristiano una elevazione simile, grazie alla virtù soprannaturale della speranza, «perché la speranza ci spinge a stringere la mano forte che Dio ci tende senza posa, affinché non perdiamo il punto di mira soprannaturale; [...] Io vivo con la persuasione che, se non guardo in alto, se non cerco Gesù, mai otterrò qualcosa»[68]. Nella «trama divina delle tre virtù teologali, che formano il canovaccio sul quale si tesse l’autentica esistenza dell’uomo cristiano, della donna cristiana, [...] la speranza in Dio accende meravigliosi falò d’amore, il cui fuoco conserva il cuore palpitante, senza sconforti, senza mancamenti, anche se lungo il cammino si soffre, e a volte duramente»[69].

La vita che germoglia dall’unità con Dio in Gesù Cristo sente in sé, inoltre, un nuovo impulso dato dallo Spirito Santo e dai suoi doni: «Non dimenticare che sei tempio di Dio. Il Paraclito è nel centro della tua anima: ascoltalo e segui docilmente le sue ispirazioni»[70]. I suoi doni sono disposizioni che favoriscono la sua azione diretta nella persona in grazia, specialmente nel caso di esigenze e realizzazioni straordinarie; infatti «pur mancando di talento, di rinomanza e di beni di fortuna, possiamo essere strumenti efficaci se ricorriamo allo Spirito Santo affinché ci conceda i suoi doni»[71].

Partendo dalla convinzione, basata sulla fede, di una unità personale di vita e di azione con le persone divine, che comprende l’essenza della grazia, come fosse la sua vetta, si apre al cristiano una maturità spirituale e una ricchezza soprannaturale che fanno della sua vita nel mondo un cammino in alta quota, malgrado l’esperienza sempre presente della fragilità umana e della miseria del dolore. Ma è proprio questa la grandezza della grazia che sovrasta la piccolezza e la debolezza di tutto ciò che è terreno ed è il fondamento che sostiene la posizione assunta nei confronti della vita caratterizzata dalla fiducia, dalla gioia e dall’ottimismo che si apre alla grazia.

La prima e originaria espressione della gioia soprannaturale, che solo raramente si nomina in riferimento a temi sulla grazia, e che invece va unita radicalmente alla grazia, è la gratitudine. Facendo continuamente riferimento a questa profonda reazione dell’uomo segnato dalla grazia, Escrivá esprime non solo etimologicamente un modo basilare della comprensione della grazia, secondo il quale gratia esprime anche il «grazie» di chi ha ricevuto un dono; ma che, inoltre, si riferisce al carattere per-sonale di relazione e di scambio nel processo della grazia, nel quale l’uomo è coinvolto con la sua risposta riconoscente. La coscienza di essere stato toccato dalla grazia deve condurre l’uomo a un intenso impulso di riconoscenza.

A questo convincimento dobbiamo i numerosi richiami di Escrivá a essere riconoscenti. Le parole che rivolge ai suoi discepoli valgono per tutti i cristiani: «Tu, proprio perché hai ricevuto tutto di colpo, sei tenuto a mostrarti molto grato al Signore; nello stesso modo in cui reagirebbe un cieco che recuperasse la vista all’improvviso, mentre agli altri non viene neppure in mente di dover ringraziare perché ci vedono»[72]. Proprio per questo, secondo il Fondatore dell’Opus Dei, il ringraziamento è un elemento indispensabile nella comunicazione personale con la divinità che si compie attraverso la grazia. Ecco il consiglio: «Fa’ in modo che il tuo ringraziamento, ogni giorno, sgorghi impetuoso dal tuo cuore»[73].

Ma il ringraziamento è solo una prima espressione della gioia che, mediante la grazia divina, determina e penetra l’esistenza cristiana come una forza vitale. Ebbene, se il Signore è veramente vicino — «Dominus prope est» —, allora s’impone un proposito nella persona riconoscente: «Servirò Dio con gioia!»[74]. Dunque, è an-che vero: «Che gioia imperturbabile ti dà l’esserti donato a Dio!»[75]. È ugualmente vero che dalla sorgente spirituale della gioia sgorga anche, nella zona più profonda dell’anima, come espressione di donazione a Dio, la gioia che anche nei testi esortativi di san Paolo appare come dualità di pace e di gioia (Rm 14,7; Gal 5,22).

Portando alla luce il ricco patrimonio spirituale dovuto all’unione con il Dio della grazia, Escrivá riesce non solo a vitalizzare il modo di annunciare la dottrina della grazia, ma anche la diffusione del Vangelo e di tutta la fede cristiana come un messaggio di gioia e come la religione della primigenia felicità spirituale. Mentre nell’era moderna la religione spesso viene ridotta all’aspetto pratico e il cristianesimo alla sua utilità sociale, Escrivá la presenta in tutta la sua magnificenza come una comunione redentiva con Dio che va oltre le dimensioni umane. La dottrina spirituale sulla grazia che E-scrivá sviluppa è una proclamazione dello splendore del cristianesimo come religione della grazia.

Tuttavia il Fondatore dell’Opus Dei sa bene che tutta la grandezza e la magnificenza dell’umano non è ancora la pienezza. L’eccellenza della grazia in questo mondo deve essere vista solo come inizio, caparra e frammento. È qualcosa che può crescere con le buone opere degli uomini. Ciò che appare come limitato e finito mostra con il suo dinamismo la tendenza a ciò che è illimitato e infinito. L’imperfetto vive nell’anelito di divenire pienezza in Cielo. Perciò la grazia qui in terra è solo un inizio della gloria, una gloria inchoata, così come la pienezza del Cielo è una gratia consummata. Anche qui la dottrina di Escrivá sulla grazia mostra il suo carattere coerente e una certa totalità armoniosa, quando, con una prospettiva escatologica, orienta lo sguardo dei suoi discepoli e seguaci verso la pienezza della grazia del Cielo. Parlare della grazia e non pensare al Cielo sarebbe la contraddizione più assoluta.

Questo orientamento escatologico della verità della grazia ha un’importanza essenziale nella vita cristiana. Per sapere esattamente dove si sta andando occorre conoscere la meta. Il cammino della grazia sarebbe un cammino senza senso se mancassero la fede e la speranza del Cielo. Il fatto che la vita della grazia appaia a molti cristiani qualcosa di insapore, incolore e priva di dinamismo interiore è dovuto, in parte, al fatto che il Cielo viene considerato qualcosa di irreale. Perciò Escrivá sprona i suoi ascoltatori in una omelia: «Andiamo all’essenza, a ciò che è veramente importante. Ebbene, la nostra aspirazione è andare in Cielo. Altrimenti non c’è nulla che valga la pe-na»[76]. E fa questa proposta: «In mezzo alle tue occupazioni, ti ho chiesto di alzare gli occhi al Cielo con perseveranza, perché la speranza ci spinge a stringere la mano forte che Dio ci tende senza posa»[77]. Così non si allude semplicemente a uno sguardo anelante, ma a uno sforzo vero verso la meta, da unire armoniosamente alla realtà delle tribolazioni e degli scarsi successi apostolici, da cui sgorga, come una chiamata alla liberazione e alla felicità definitiva, un clamore verso il Cielo; infatti quelli che seguono il cammino della salvezza «alla fine, li accoglie un giardino delizioso, la felicità eterna, il Paradiso»[78].

In questo realismo nei confronti della salvezza, biblicamente ben fondato, c’è posto anche per l’idea, eticamente molto umana, del salario. L’impostazione della vita come lotta contiene in questo senso l’idea del premio della vittoria: «Costa! Lo so bene. Ma avanti! Nessuno riceverà il premio — e che premio! — se non colui che lotta con bravura»[79]. In questo modo Escrivá ricorda la promessa paolina che «ciascuno sarà remunerato nella misura del suo lavoro»[80]. Il raccolto sarà in proporzione alla semina[81].

Nel considerare il Cielo, Escrivá rinuncia (in corrispondenza della sua concezione personal-salvifica di giudizio e condanna) a immagini apocalittiche o a tentativi di oggettivizzare il mistero. Le sue espressioni seguono la linea di continuare ed elevare tutto quello che è stato avviato nella grazia. Ciò che del Cielo è visibile rimane indietro e cede il passo a una visione spirituale dell’essenziale: «Che cosa sarà il Cielo che ci attende, quando tutta la bellezza e la grandezza, tutta la felicità e l’Amore infiniti di Dio si riverseranno nel povero vaso d’argilla che è la creatura umana, per saziarla eternamente, sempre con la novità di una felicità nuova?»[82].

Il Cielo è la pienezza definitiva e insuperabile della grazia, dell’unione con le persone divine in amore, gioia, santità e gloria. Questa prospettiva escatologica conferma non solo il carattere dinamico-personale della concezione spirituale di Escrivá, ma gli conferisce una relazione organica che permette di scorgere le vette e gli abissi della fede cristiana.

[1] «Das Eigentliche, das Erste und Lezte, muß die Gnade bewirken» in PETER BERGLAR, Opus Dei. Leben und Werk des Gründers Josemaría Escrivá, 3. erw. Aufl. Köln 1992, S. 108.

[2] PETER BERGLAR, Opus Dei, Milano 1987, p. 6.

[3] Ibidem, p. 28.

[4] Cfr. LEO SCHEFFCZYK, Die Heilsverwirklichung in der Gnade. Gnadenlehre: Katholische Dogmatik VI (hrsg. von L. Scheffczyk und A. Ziegenaus), Aachen 1998, S. 370-372.

[5] Cammino, n. 279.

[6] Cfr. L. SCHEFFCZYK, op. cit., pp. 405 ss.

[7] Cfr. ÁLVARO DEL PORTILLO, Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, Milano 1992, cap. XI, passim.

[8] Colloqui con Mons. Escrivá, Milano 1987, 62.

[9] Ibidem, 102.

[10] Ibidem, 108.

[11] È Gesù che passa, 10.

[12] Ibidem, 166.

[13] Forgia, n. 702.

[14] Ibidem, n. 684.

[15] Solco, n. 489.

[16] Ibidem, n. 487.

[17] Su questo tema cfr. Ibidem, n. 927.

[18] Amici di Dio, 42.

[19] Ibidem, 18.

[20] Cfr. Forgia, pag. 261: «grazia divina».

[21] Così in È Gesù che passa, 114.

[22] Ibidem, 162.

[23] Su questo tema cfr.: LEO SCHEFFCZYK, «Vielgestaltigkeit und Reichtum der göttlichen Gnade», in: Der Mensch zwischen Sünde und Gnade (hrsg. von A. Ziegenaus), Buttenwiesen 2000, S. 11-30.

[24] Cammino, n. 285.

[25] Ibidem, n. 298.

[26] Cfr. Ibidem, n. 326.

[27] Ibidem, n. 330.

[28] Ibidem, n. 719.

[29] Forgia, n. 32.

[30] Ibidem, n. 202.

[31] Solco, n. 161.

[32] Ibidem, n. 170.

[33] Ibidem, n. 838.

[34] Ibidem, n. 278.

[35] Amici di Dio, 309.

[36] Cammino, n. 575.

[37] Forgia, n. 448.

[38] Ibidem, n. 344.

[39] Amici di Dio, 94.

[40] Intorno al carattere dell’esistenza cristiana come lotta cfr. per esempio: Cammino, nn. 707-733 ed È Gesù che passa, 73-201.

[41] Cammino, n. 991.

[42] Ibidem, n. 290.

[43] Forgia, n. 736.

[44] Ibidem, n. 737.

[45] Ibidem, n. 734.

[46] SANT’AGOSTINO, Sermo 119, 13.

[47] Amici di Dio, 62.

[48] Cammino, nn. 707, 708.

[49] Ibidem, n. 720.

[50] Ibidem, n. 913.

[51] Ibidem, n. 926.

[52] CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata 7, 7, citato in Amici di Dio, 66.

[53] Forgia, n. 13.

[54] Ibidem, n. 1.

[55] Amici di Dio, 259.

[56] Forgia, n. 582.

[57] Cammino, n. 66.

[58] Forgia, n. 882.

[59] È Gesù che passa, 166.

[60] Solco, n. 255.

[61] Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th. I-II, q. 109, a. 9.

[62] Cfr. su questo aspetto: Cammino, nn. 707-737.

[63] Cfr. Cammino, n. 89.

[64] Cammino, n. 990.

[65] Amici di Dio, 191.

[66] Ibidem, 194.

[67] Ibidem.

[68] Ibidem, 213.

[69] Ibidem, 205.

[70] Cammino, n. 57.

[71] 71, Solco, n. 283.

[72] Ibidem, n. 4.

[73] Forgia, n. 866.

[74] Solco, n. 53.

[75] Ibidem, n. 88.

[76] È Gesù che passa, 76.

[77] Amici di Dio, 213.

[78] Ibidem, 130.

[79] Cammino, n. 720.

[80] Ibidem, n. 748.

[81] Cfr. Solco, n. 863.

[82] Solco, n. 891.

Romana, n. 43, Luglio-Dicembre 2006, p. 263-280.

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