“Sacerdote, solo sacerdote. San Josemaría Escrivá, modello di vita sacerdotale”. Discorso nell’atto accademico in onore di san Josemaría tenutosi nel Seminario diocesano di Logroño Logroño 18-I-2003
Ringrazio il caro fratello nell’episcopato, mons. Ramón Búa, dell’affettuoso invito a rivolgere qualche parola al clero della Rioja. Mi ha proposto di trattare della chiamata alla santità nel sacerdozio ministeriale nell’esempio e nell’insegnamento di san Josemaría Escrivá, recentemente canonizzato da Giovanni Paolo II, e lo faccio ben volentieri.
In effetti, evocare la figura e gli insegnamenti di questo santo sacerdote è per me una grandissima gioia. Se poi le persone che mi ascoltano sono presbiteri, sono ancor più felice, poiché conosco bene il profondo amore, anzi la venerazione, che il Fondatore dell’Opus Dei nutriva nei confronti dei suoi fratelli nel sacerdozio. Com’era felice quando aveva occasione di stare con loro! Imparava da tutti e, se glielo chiedevano, non aveva remore ad aprire loro il cuore per parlare dei grandi amori della sua vita: Cristo, Maria, la Chiesa, il Papa, tutte le anime. Soleva dire che si sentiva come uno che va a vendere miele all’apicoltore. Ma il suo era un miele di tale qualità che chi l’ascoltava usciva da quegli incontri con un desiderio rinnovato di fedeltà alla vocazione, con l’animo traboccante di ottimismo, deciso a spendersi con gioia nel lavoro pastorale e apostolico.
Identità del sacerdote
Comincerò il mio intervento citando alcune parole che san Josemaría rivolgeva spesso ai sacerdoti novelli, ma che servono anche e, forse, ancora di più a quelli di noi che sono sacerdoti da molti anni. Diceva: «Siate innanzitutto sacerdoti; poi, sacerdoti; sempre e in tutto, solo sacerdoti». In questa affermazione risalta il suo altissimo concetto del sacerdozio ministeriale, mediante il quale dei poveretti (lo siamo tutti davanti al Signore) sono costituiti ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (1 Cor 4, 1). La sua fede nell’identificazione sacramentale con Cristo che si realizza nel sacramento dell’Ordine era così solida che il suo unico motivo di gloria, a confronto del quale impallidivano tutti gli onori della terra, era semplicemente essere sacerdote di Gesù Cristo.
I santi, fin dai tempi più antichi, si sono soffermati a considerare la dignità del sacerdozio. Vari Papi, tra i quali ricordo in particolare san Pio X, Pio XI e l’attuale Romano Pontefice, hanno scritto documenti indimenticabili, che hanno alimentato e continuano ad alimentare la nostra vita sacerdotale. Anche san Josemaría ci ha lasciato il suo insegnamento. In un’omelia del 1973, quando si diffondevano voci confuse sull’identità del sacerdote e sul valore del sacerdozio ministeriale, riassumeva il suo insegnamento con queste parole: «L’identità del sacerdote è questa: essere strumento immediato e quotidiano della grazia salvifica che Cristo ha meritato per noi. Quando si comprende questo principio, quando lo si medita nell’attivo silenzio della preghiera, come possiamo considerare il sacerdozio una rinuncia? È un guadagno incalcolabile. Maria Santissima, nostra Madre, la più santa delle creature — più di Lei solo Dio —, trasse una sola volta al mondo Gesù; i sacerdoti lo portano su questa terra, al nostro corpo, alla nostra anima, tutti i giorni: e Gesù viene, per nutrirci, per vivificarci, per essere fin d’ora pegno della vita futura»[1].
La consapevolezza della grandezza del sacerdozio lo portava a custodire con estrema cura la sua vocazione sacerdotale, della quale era sempre più innamorato. Quando, per rispondere alle nostre domande, talvolta ci parlava della sua vocazione, sottolineava sempre l’iniziativa di Dio, che gli andò incontro quando aveva quindici o sedici anni. Come ben sapete, accadde a Logroño, nel dicembre 1917 o nel gennaio 1918, quando l’adolescente Josemaría cominciò a presentire che il Signore lo chiamava per qualcosa che lui ignorava. Il pensiero di farsi sacerdote non gli era mai passato per la mente. Ciò nonostante, di fronte all’intervento di Dio, per prepararsi meglio a compiere la Volontà divina, decise di entrare in seminario. In tutta verità, passati gli anni, poteva affermare che l’inizio della sua vocazione sacerdotale era stata «una chiamata di Dio, un presentimento di amore, l’innamoramento di un ragazzo di quindici o sedici anni»[2].
Nel Seminario di Logroño ricevette la prima formazione sacerdotale, che completò poi a Saragozza. Dio voleva che il seme che avrebbe gettato sulla terra il 2 ottobre 1928 trovasse un cuore di sacerdote ben preparato per accoglierlo e farlo fruttificare. Per questo motivo, san Josemaría affermava, pieno di gratitudine per il Signore, che la sua vocazione era — permettetemi che insista — di essere sacerdote, solo sacerdote, sempre sacerdote. Amava alla follia questa condizione che, configurandolo a Cristo, lo aveva preparato per essere strumento, nelle mani di Dio, per la fondazione dell’Opus Dei.
Dono e compito
Anticamente, nell’enumerare le condizioni per l’ammissione al sacerdozio, era prescritto che i candidati dovevano essere scelti tra uomini che conducevano una vita onesta. Questa formulazione, minimalista e superata, sembrava molto povera a san Josemaría. Nel 1945 scriveva: «Intendiamo, con tutta la tradizione ecclesiastica, che il sacerdozio richiede, per le funzioni sacre che gli competono, qualcosa di più di una vita onesta: esige in quelli che lo esercitano una vita santa, proprio perché sono costituiti mediatori tra Dio e gli uomini»[3].
Josemaría Escrivá aveva ricevuto, in famiglia e a scuola, una formazione profondamente cristiana, che comprendeva la conoscenza della dottrina, la frequenza dei sacramenti, la preoccupazione concreta per le necessità spirituali e materiali delle persone, come sottolineano testimoni dell’epoca. Quando seguì la chiamata divina al sacerdozio, la sua esistenza ebbe un cambiamento radicale, nel senso che crebbero l’intensità e la frequenza del suo rapporto con Dio e il suo zelo apostolico per gli altri. Ciò gli conferì una maturità non comune per la sua età, ma soprannaturalmente logica. Si avverava nella sua vita quello che dice la Sacra Scrittura: «Super senex intellexi quia mandata tua servavi, ho più senno degli anziani, perché osservo i tuoi precetti»[4]. Da quei primi presentimenti, l’adolescente Josemaría cominciò a prendere sul serio la santità, cercando di conoscere e compiere fedelissimamente la Volontà di Dio.
Quando il Concilio Vaticano II, nel capitolo V della Costituzione dogmatica Lumen gentium, affronta il tema della vocazione alla santità dei battezzati, afferma: «I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto»[5].
In quanto membri del Corpo Mistico di Cristo, nel quale siamo stati innestati mediante il Battesimo, tutti siamo stati santificati in radice: portiamo in noi stessi il germe e l’inizio della nuova vita che Cristo ci ha guadagnato con la sua Morte e Resurrezione. La consacrazione battesimale è la realtà fondante della chiamata alla santità in qualsiasi genere di vita. Da questo punto di vista, considerando l’assoluta gratuità di ciò che abbiamo ricevuto, la santificazione appare chiaramente nella sua dimensione di dono: un regalo immeritato che Dio nostro Padre ci fa, in Cristo, mediante lo Spirito Santo. Al tempo stesso, la santificazione è una chiamata personale, un compito che è affidato alla responsabilità di ogni cristiano. San Josemaría dirà che è opera di tutta la vita[6].
La santità è dunque dono e compito. Dono gratuito di un bene immeritato e, al tempo stesso, incarico che occorre portare a termine con sforzo personale, con eroica corrispondenza, assumendo un impegno autentico di vita cristiana.
La santità sacerdotale come dono
Poiché la condizione radicale di tutti i battezzati è unica e identica, tutti, sacerdoti e laici, siamo ugualmente chiamati alla pienezza della vita cristiana. «Non esiste una santità di seconda classe: o si lotta incessantemente per essere in grazia di Dio e per conformarsi a Cristo, nostro modello, o si è disertori nelle battaglie divine. Il Signore invita tutti affinché ciascuno si santifichi nel proprio stato»[7].
Siamo di fronte a una delle intuizioni fondamentali che san Josemaría Escrivá predicò, per incarico divino, dal 1928. Nel fondare l’Opus Dei, il Signore gli fece vedere che ogni persona deve cercare di santificarsi nel proprio stato, nel genere di vita a cui è stata chiamata, nel proprio lavoro e attraverso il proprio lavoro, secondo la nota espressione di san Paolo: unusquisque, in qua vocatione vocatus est, in ea permaneat (1 Cor 7, 20).
La santità dei sacerdoti e dei laici, pertanto, ha le stesse fondamenta nella consacrazione originaria del Battesimo, perfezionata dalla Confermazione. Tuttavia, è evidente che il dovere di tendere alla santità obbliga in modo particolare il sacerdote, che è stato scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati (Eb 5, 1).
«A costante contatto con la santità di Dio», ha scritto Giovanni Paolo II, «il sacerdote deve lui stesso diventare santo. È il medesimo suo ministero a impegnarlo in una scelta di vita ispirata al radicalismo evangelico»[8]. E aggiunge nel libro Dono e mistero, scritto in occasione del cinquantesimo anniversario della sua ordinazione episcopale: «Se il Concilio Vaticano II parla della universale vocazione alla santità, nel caso del sacerdote bisogna parlare di una speciale vocazione alla santità. Cristo ha bisogno di sacerdoti santi! Il mondo di oggi reclama sacerdoti santi! Soltanto un sacerdote santo può diventare, in un mondo sempre più secolarizzato, un testimone trasparente di Cristo e del suo Vangelo. Soltanto così il sacerdote può diventare guida degli uomini e maestro di santità»[9].
Il sacerdote è stato consacrato due volte da Dio: nel Battesimo, come tutti i cristiani, e nel sacramento dell’Ordine. Per questo, anche se non si può parlare di santità di prima e di seconda categoria, poiché tutti siamo chiamati alla perfezione con cui lo stesso Padre celeste è perfetto (cfr. Mt, 5, 48), non c’è dubbio che sui sacerdoti ricade in modo particolare il dovere di tendere alla santità. Rileggiamo alcune parole chiarificatrici del Fondatore dell’Opus Dei: «Tutti noi cristiani possiamo e dobbiamo essere non soltanto alter Christus, ma anche ipse Christus: un altro Cristo; lo stesso Cristo! Ma il sacerdote lo è in modo immediato, in forma sacramentale»[10].
Nell’esercizio del ministero per il quale è stato ordinato, il sacerdote trova l’alimento della sua vita spirituale, il materiale che lo fa ardere di amore di Dio. Sarebbe dunque un grave errore che altre aspirazioni o altri impegni offuscassero nella sua anima l’interesse per ciò che gli è indispensabile per raggiungere la santità: la celebrazione accurata e piena di amore del Sacrificio della Messa, la predicazione della Parola di Dio, l’amministrazione dei sacramenti ai fedeli, in particolare di quello della Penitenza; una vita di orazione costante e di gioiosa penitenza; la cura delle anime che gli sono state affidate e i mille servizi che una carità vigilante sa dispensare.
Fin da quando percepì la chiamata al sacerdozio e, più esplicitamente, da quando fu ordinato sacerdote, san Josemaría volle identificarsi con Cristo, essere lo stesso Cristo, nell’esercizio del ministero sacerdotale e in tutta la sua esistenza. Ecco il motivo della sua vita di orazione, della sua celebrazione pacata della Messa, del suo ‘bisogno’ di rimanere a lungo accanto al Tabernacolo e, al tempo stesso, la sua urgenza di cercare anime per condurle, in Cristo, sulla via della santità. Comprese che si può e si deve avere una condotta santa in tutti gli stati di vita e, in particolare, nel matrimonio. Infatti, fin dall’inizio del suo ministero pastorale, oltre ad avviare molte persone al celibato apostolico vissuto con autentica gioia, ne incoraggiò molte altre a scoprire la dignità della vocazione matrimoniale.
Scrive Giovanni Paolo II: «Ogni giorno di più in quel Mysterium fidei si ritrova il senso del proprio sacerdozio. È lì la misura del dono che esso costituisce, e lì è pure la misura della risposta che questo dono richiede. Il dono è sempre più grande! Ed è bello che sia così. È bello che un uomo non possa mai dire di aver risposto pienamente al dono. È un dono ed è anche un compito: sempre! Avere consapevolezza di questo è fondamentale per vivere appieno il proprio sacerdozio»[11].
San Josemaría Escrivá celebrava ogni giorno la Messa con la passione di un innamorato, ben sapendo che, «per mezzo del Sacramento dell’Ordine, il sacerdote è reso effettivamente idoneo a prestare a Gesù nostro Signore la voce, le mani e tutto il suo essere»[12]. Ascoltate come descriveva in una riunione familiare il misterioso eclissarsi della personalità umana del presbitero, che si trasforma in strumento vivente di Dio:
«Mi accosto all’altare e la prima cosa che penso è: Josemaría, tu non sei Josemaría Escrivá (...): sei Cristo. Tutti noi sacerdoti siamo Cristo. Io presto al Signore la voce, le mani, il corpo, la mia anima: gli do tutto. È Lui che dice: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. È Lui che consacra. Altrimenti, io non potrei farlo. Lì si rinnova in modo incruento il divino Sacrificio del Calvario. Pertanto, io sono lì in persona Christi, per fare le veci di Cristo. Il sacerdote scompare come individuo: don Tizio, don Caio o Josemaría... Nossignore! È Cristo»[13].
La santità sacerdotale come compito
La grandezza incomparabile del sacerdote si basa sulla sua identificazione sacramentale con Cristo, che lo fa essere ipse Christus e lo fa agire in persona Christi capitis, soprattutto nella celebrazione eucaristica e nel ministero della Riconciliazione. «Una grandezza ricevuta in prestito», spiegava san Josemaría Escrivá, «compatibile con la mia pochezza. Prego Dio nostro Signore», aggiungeva, «che conceda a tutti noi sacerdoti la grazia di compiere santamente le cose sante, di rispecchiare con la nostra stessa vita lo splendore delle grandezze del Signore»[14].
Ogni cristiano deve far sì che la sua condizione di seguace di Gesù Cristo si rifletta in tutta la sua condotta: in famiglia, nella professione, nell’attività sociale, pubblica, sportiva... Anche l’esistenza concreta, la vita quotidiana del sacerdote, deve dimostrare la sua peculiare appartenenza a Cristo. Per il carattere indelebile ricevuto al momento dell’ordinazione, si è sacerdoti ventiquattr’ore al giorno, non solo nei momenti in cui si esercita di proposito il ministero. Conviene tenerlo ben presente nell’epoca attuale, quando stanno scomparendo, dalla nostra società multiculturale e multireligiosa, tanti segni che ricordavano ai nostri antenati il primato di Dio e della vita soprannaturale. Non lo dico con pessimismo, ma con il desiderio che tutti ci impegniamo perché non si perdano le radici cristiane del nostro popolo, che si manifestano anche nella tradizionale pietà popolare, in diversi aspetti della cultura, dell’arte e del costume.
Il sacerdote deve raggiungere la meta della santità quasi lungo un piano inclinato, sotto la direzione dello Spirito Santo, che modella le sembianze di Cristo nei figli adottivi di Dio. In questo processo, che dura tutta la vita, assieme all’azione soprannaturale della grazia è decisiva la risposta docile della creatura.
Senza lo sforzo per praticare le virtù, senza la lotta per svilupparle quotidianamente, con costanza, la santità non è possibile. A che cosa mirano gli abiti virtuosi che devono strutturare la santità del sacerdote? A nulla che non valga anche per gli altri fedeli, visto che tutti siamo chiamati alla stessa meta dell’unione con Dio e disponiamo degli stessi mezzi per raggiungerla. La differenza sta nel modo di esercitare le virtù. Nel sacerdote, tutto deve compiersi sacerdotalmente, cioè tenendo sempre presente la finalità della sua specifica vocazione, il servizio delle anime. Dobbiamo seguire l’esempio del Signore, che affermò di se stesso: Pro eis ego sanctifico meipsum, ut sint et ipsi sanctificati in veritate (Gv 17, 19).
Non è possibile, nel breve tempo a mia disposizione, offrire un elenco completo delle virtù sacerdotali. Mi limiterò a presentarne alcune che considero fondamentali nell’insegnamento e nell’esempio di san Josemaría.
Virtù umane del sacerdote
Nella metafora della costruzione — immagine di origine biblica —, la prima cosa da fare è cercare un terreno solido. Cristo stesso vi allude, quando conclude il Discorso della Montagna parlando dell’uomo prudente che edificò la sua casa sulla roccia, cosicché, quando vennero i venti e le piogge, nulla poterono contro di essa (cfr. Mt 7, 24-25).
Nella vita spirituale del cristiano il terreno solido dell’edificio spirituale è costituito dalle virtù umane, poiché la grazia presuppone sempre la natura. È bene non dimenticare che, nel ricevere l’ordinazione, il sacerdote non smette di essere uomo. Al contrario, proprio per essere stato scelto tra gli uomini e costituito mediatore tra gli uomini e Dio (cfr. Eb 5, 1), ha bisogno di aver cura della propria preparazione umana, che gli consente di servire meglio le anime.
«Tale formazione — scrive mons. Álvaro del Portillo — comprende tutte le virtù umane che rientrano direttamente o indirettamente nelle quattro virtù cardinali e inoltre il bagaglio di cultura extra-ecclesiastica indispensabile al sacerdote per svolgere con facilità, presupponendo sempre la grazia, il proprio apostolato»[15]. Il mio predecessore a capo della Prelatura dell’Opus Dei sottolinea i motivi principali che devono spingere il sacerdote ad acquisire e a sviluppare queste virtù: «Anzitutto perché fanno parte della lotta ascetica, che normalmente è necessaria per giungere alla perfezione, e poi perché sono un mezzo per svolgere con maggior efficacia l’apostolato»[16].
Nella vita e negli insegnamenti di san Josemaría spicca questo aspetto basilare della formazione cristiana e di quella specificamente sacerdotale. Ne esistono molte testimonianze, dalla sua infanzia fino alla morte, nel 1975. I testimoni del suo lavoro pastorale sono concordi nel descriverlo come un sacerdote innamorato di Cristo, dedicato al servizio delle anime, con una personalità forte e armonica, nella quale l’umano e il soprannaturale si fondevano strettamente nell’unità di vita. Circa questi suoi insegnamenti è paradigmatica l’omelia “Virtù umane”, raccolta nel libro Amici di Dio, nella quale si enuncia il fondamento teologico della necessità di coltivare le virtù umane: la profondità dell’Incarnazione del Verbo, perfetto Uomo senza per questo smettere di essere perfetto Dio. Nell’omelia egli analizza le principali virtù che un cristiano e un sacerdote devono coltivare: la fortezza, la serenità, la pazienza, la laboriosità, l’ordine, la diligenza, la veracità, l’amore per la libertà, la sobrietà, la temperanza, l’audacia, la magnanimità, la lealtà, l’ottimismo, la gioia.
Sul fondamento dell’umiltà
«L’umiltà è il fondamento della nostra vita, mezzo e condizione di efficacia»[17], scrive san Josemaría, in sintonia con la tradizione spirituale del Cristianesimo. Evidentemente, si riferisce al fondamento morale, dato che quello teologale — come predicò con la sua condotta e con i suoi insegnamenti — è centrato sulla fede teologale, che ci porta ad assumere con profondità il senso della nostra filiazione divina in Cristo. Questa convinzione pone in rilievo davanti agli uomini la verità più profonda su noi stessi e, pertanto, potenzia necessariamente l’umiltà, che non riflette altra cosa che il ‘camminare nella verità’ della Santa di Avila: il cammino nella fede.
Se alla base della risposta cristiana c’è una fede forte, si elimina l’errore di presentare l’umiltà come carenza di decisione o di iniziativa, rinuncia all’esercizio di diritti che sono doveri. Nulla di più lontano dal pensiero del Fondatore dell’Opus Dei. «Essere umili — affermò — non significa dover andare in giro sporchi o trasandati; neppure apparire indifferenti a tutto ciò che succede intorno a noi, abdicando ai nostri diritti. Neppure significa spargere sciocchezze sul proprio conto. Non ci può essere umiltà dove c’è finzione e ipocrisia, perché l’umiltà è la verità»[18].
È così importante questa virtù nella vita cristiana che san Josemaría assicurava che “così come gli alimenti si condiscono con il sale, perché non siano insipidi, nella nostra vita dobbiamo sempre porre l’umiltà»[19]. Ricorreva a un paragone classico: «Non fate come le galline che, non appena depongono un uovo, si mettono a chiocciare per tutta la casa. Bisogna lavorare, bisogna svolgere il lavoro intellettuale o manuale, sempre apostolico, con grandi intenzioni e grandi desideri — che il Signore trasforma in realtà — di servire Dio e di non farsi notare»[20].
Ma torniamo a considerare il fondamento teologale, cioè la fede e, con la fede, la speranza: non c’è santità se non si sviluppa una fede onnicomprensiva della realtà, se non si alimenta — come forza che stimola il peregrinare terreno — la virtù della speranza. Fin dal primo momento, il Fondatore dell’Opus Dei fu cosciente del fatto che la missione che Dio gli aveva affidato era immensamente superiore alle sue forze. Perciò ricorreva con insistenza, senza mai abbandonarli, agli unici mezzi capaci di ottenere l’intervento della onnipotenza divina: la preghiera e il sacrificio. Sono innumerevoli le testimonianze su come andasse negli ospedali e nei quartieri poveri di Madrid a mendicare, quasi si trattasse di un tesoro, la preghiera e l’offerta a Dio del dolore di molte persone abbandonate, alle quali recava la consolazione e l’incoraggiamento della sua assistenza sacerdotale.
Quanto bisogno abbiamo noi sacerdoti che la nostra fede e la nostra speranza aumentino sempre più! Svolgiamo un lavoro in cui ciò che più conta, l’unica cosa davvero necessaria (cfr. Lc 10, 42), sono i mezzi soprannaturali. Servono veri miracoli per condurre le anime a Dio. E tuttavia «si sente dire, ogni tanto, che oggi i miracoli sono meno frequenti. Non sarà invece che oggi sono meno le anime che vivono vita di fede?»[21]. Queste parole di san Josemaría risuonano nei nostri orecchi come un richiamo al nostro senso di responsabilità, perché il sacerdote deve essere anzitutto un uomo di fede e un uomo pieno di speranza. «Attraverso la fede egli accede ai beni invisibili che costituiscono l’eredità della Redenzione del mondo operata dal Figlio di Dio»[22].
La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono (Eb 11, 1). Ed è «nell’orazione perseverante di ogni giorno, con facilità o con aridità, che il sacerdote, come ogni cristiano, riceve da Dio (...) luci nuove, fermezza nella fede, sicura speranza nell’efficacia soprannaturale del suo lavoro pastorale, rinnovato amore: in una parola, la spinta per perseverare in questo lavoro e la radice dell’effettiva efficacia del lavoro stesso»[23]. In queste parole di mons. del Portillo, per molti anni il più stretto collaboratore del Fondatore dell’Opus Dei, possiamo scoprire una velata allusione alla vita spirituale di san Josemaría, che ricevette la grazia di essere contemplativo nelle attività più assorbenti. Don Álvaro aggiunge: «Senza orazione, e senza orazione che si sforzi di essere continua in mezzo alle mille occupazioni, non vi è identificazione con Cristo, in quanto essa ha di compito, che si fonda su quanto ha di dono. Anzi, oso affermare che un sacerdote senza orazione, se non giunge a falsificare l’immagine che offre di Cristo — Modello per tutti —, almeno la presenta come una nebulosa che non attrae e non orienta, che non serve come punto di riferimento al popolo che ci vede e che ci ascolta»[24].
Carità pastorale
Giungiamo così alla virtù più decisiva e caratteristica della vita cristiana: la carità, che nel sacerdote acquista un preciso profilo: è carità pastorale. In poche parole, nasce dalla coscienza di essere rappresentante di Gesù Cristo, il Pastore supremo (1 Pt, 5, 4) delle anime, che ha dato la vita per le sue pecore (cfr. Gv 10, 11). Questa convinzione soprannaturale deve spingere il sacerdote a spendersi fino all’estremo nell’esercizio del suo ministero, poiché a questo lo sollecita la carità di Cristo (cfr. 2 Cor 5, 14). Una carità pastorale, fortemente e costantemente alimentata nell’Eucaristia e nell’orazione, darà efficacia di frutti al suo ministero.
La figura di san Josemaría appare illuminante a questo proposito. Fin dai primi momenti della sua vocazione, non risparmiò alcuno sforzo nel servizio delle anime. In precedenza ho accennato ai suoi via vai per i quartieri periferici di Madrid degli anni ’20 e ’30, in continuo contatto con la povertà e con la malattia, occupandosi dei moribondi, confortando gli ammalati, istruendo i bambini e gli adulti nella dottrina cristiana. Posso assicurare, perché l’ho visto con i miei occhi, che spese nello stesso modo il resto della sua esistenza, fino all’ultima giornata: pregava e si sacrificava gioiosamente per tutte le anime, senza eccezione.
La peculiare assunzione della persona da parte di Dio, che si realizza nell’ordinazione sacerdotale, fa sì che il presbitero si vincoli e consacri integralmente al servizio e all’amore totale di Cristo. La ricchezza di questo dono si presenta con un tale rilievo che può assumere come proprie — in un senso particolarmente profondo — le parole dell’apostolo: mihi vivere Christus est (Fil 1, 21), vivo autem iam non ego, vivit vero in me Christus (Gal 2, 20). D’altra parte, la missione ricevuta ha un carattere universale: il sacerdote viene inviato al mondo intero, come strumento vivo di Cristo, che ha dato sé stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone (Tt 2, 14).
L’identificazione sacramentale con Cristo e, assieme ad essa, la missione ricevuta si trovano alla radice delle peculiari esigenze della carità pastorale e collocano il sacerdote in una speciale situazione nel mistero di Cristo e della Chiesa. A proposito dell’approfondimento dottrinale operato dal Concilio Vaticano II, mons. Álvaro del Portillo scrive: «Se si considera che l’Amore incarnato tra gli uomini evitò qualsiasi legame umano — per quanto giusto e nobile — che potesse in qualche modo ostacolare o sottrarre pienezza alla sua totale dedizione ministeriale, si comprende bene la convenienza che il sacerdote ne segua l’esempio, rinunciando liberamente, con il celibato, a qualcosa di buono e santo in sé, per unirsi più facilmente a Cristo con tutto il cuore e per Lui e in Lui porre sé stesso con maggiore libertà al completo servizio di Dio e degli uomini»[25].
Il celibato sacerdotale si configura come una manifestazione della completa oblazione della propria vita che il sacerdote, liberamente, offre a Cristo e alla Chiesa. In quest’ottica si capiscono bene le parole di san Josemaría in un incontro familiare, nel 1969. «Il sacerdote, se ha vero spirito sacerdotale, se è uomo di vita interiore, non si potrà mai sentire solo. Nessuno più di lui può avere un cuore innamorato! È l’uomo dell’Amore, il rappresentante tra gli uomini dell’Amore fatto uomo. Vive per mezzo di Gesù Cristo, per Gesù Cristo, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo. È una realtà divina che mi commuove profondamente, quando tutti i giorni, sollevando e tenendo in mano il Calice e la Santa Ostia, ripeto con calma, assaporandole, le parole del Canone: Per Ipsum, et cum Ipso et in Ipso... Per mezzo di Lui, con Lui, in Lui e per Lui e per le anime vivo io. Del suo Amore vivo io, nonostante le mie miserie personali. E, nonostante queste miserie, forse per esse, il mio Amore è un amore che ogni giorno si rinnova»[26].
Fraternità sacerdotale
Pur amando tutte le anime senza eccezione, san Josemaría riservava un amore di predilezione per i suoi fratelli sacerdoti. Ho già accennato alla sua gioia quando poteva riunirsi con loro, per imparare dalla loro donazione, tante volte eroica, e per trasmettere loro, al tempo stesso, un po’ della sua esperienza personale. Ma non posso tralasciare di ricordare il suo speciale impegno per i presbiteri, in particolare durante gli anni in cui risiedette in Spagna. Negli anni ’40, per esempio, su richiesta dei Vescovi diocesani, predicò molti corsi di ritiro al clero, bisognoso di aiuto spirituale dopo la terribile prova della persecuzione religiosa degli anni precedenti. San Josemaría si dedicò in pieno a questo compito e giunse a occuparsi, a volte, di oltre mille presbiteri in un solo anno.
Fino al termine della sua vita non smise di pregare con insistenza il Signore perché inviasse alla Chiesa molte vocazioni sacerdotali. Personalmente preparò e avviò ai seminari un gran numero di giovani con inquietudini vocazionali verso il sacerdozio. E spingeva i fedeli laici a pregare con insistenza il Padrone della messe, perché mandasse molti operai nel suo campo (cfr. Mt 9, 37-38). Per san Josemaría il polso della vitalità soprannaturale di una diocesi si misura dal numero di vocazioni sacerdotali, di cui i primi responsabili sono i sacerdoti stessi.
Lo riempiva di tristezza imbattersi in qualcuno che non mostrava interesse per questo lavoro! Perché questa omissione costituisce un segno chiaro del fatto che il sacerdote stesso non è contento della propria chiamata. Mi viene alla mente la sua risposta immediata a una domanda circa le cause della scarsità di vocazioni per i seminari: «Forse, la prima ragione è che molte volte noi sacerdoti non valutiamo bene il tesoro che abbiamo tra le mani e, per questo, non infiammiamo la gente giovane del desiderio di possedere questo tesoro. I seminari sarebbero pieni se noi amassimo di più il nostro sacerdozio»[27].
La sua preoccupazione per la santità del clero veniva da lontano. Aveva molto chiaro che il primo apostolato dei sacerdoti si rivolge agli stessi sacerdoti: non lasciarli soli con le loro pene, condividere le loro gioie, incoraggiarli nelle difficoltà, fortificarli nei momenti di incertezza... Conservò incise a fuoco nella sua anima le parole della Sacra Scrittura: frater, qui adiuvatur a fratre, quasi civitas firma (Prv 18, 19), il fratello aiutato dal fratello è forte come una città murata.
Il suo desiderio di aiutare i fratelli nel sacerdozio crebbe tanto intensamente che, nel 1950, quando l’Opus Dei aveva già ricevuto l’approvazione definitiva dalla Santa Sede, pensò di dedicarsi completamente ai sacerdoti diocesani. Aveva già offerto al Signore il ‘sacrificio di Abramo’, deciso a lasciare l’Opera se fosse stato necessario, quando il Cielo gli fece vedere che non lo era. Nello spirito dell’Opus Dei, che insegna ai cristiani a santificarsi in mezzo al mondo, ciascuno nella propria occupazione o lavoro, quello stesso luogo di incontro con Dio c’era anche per i sacerdoti diocesani; bastava che, in piena comunione con il proprio Ordinario e con il presbiterio della diocesi, cercassero la santità nell’esercizio dei doveri ministeriali, trattando con particolare venerazione il Vescovo diocesano, profondamente uniti ai loro fratelli nel sacerdozio. Le porte della Società Sacerdotale della Santa Croce, alla quale appartenevano già i chierici incardinati nell’Opus Dei, si aprirono per accogliere i sacerdoti diocesani che avessero ricevuto questa specifica chiamata divina.
Oggi, in queste terre della Rioja, dove il lavoro dell’Opus Dei è perfettamente integrato nella diocesi da molti anni, elevo il mio cuore pieno di gratitudine alla Santissima Trinità per i copiosi frutti che la Società Sacerdotale della Santa Croce ha prodotto e continua a produrre, al servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari. Tutto è frutto della grazia che Dio ci offre per mezzo della sua Santissima Madre; grazia a cui san Josemaría corrispose pienamente ottantacinque anni fa, quando — proprio a Logroño — ricevette la chiamata al sacerdozio.
[1] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[2] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Appunti presi in una riunione familiare, 28-III-1966.
[3] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 2-II-1945, n. 4.
[4] Sal 119, 100.
[5] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 40.
[6] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Cammino, n. 285.
[7] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[8] GIOVANNI PAOLO II, Dono e mistero.
[9] Ibid.
[10] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[11] GIOVANNI PAOLO II, Dono e mistero.
[12] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[13] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Appunti presi in una riunione familiare, 10-V-1974.
[14] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[15] MONS. ÁLVARO DEL PORTILLO, Consacrazione e missione del sacerdote, Edizioni Ares 1990, p. 12.
[16] Ibid., p. 16.
[17] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 24-III-1930, n. 20.
[18] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Appunti presi durante una meditazione, 25-XII-1972.
[19] Ibid.
[20] Ibid.
[21] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amici di Dio, n. 190.
[22] GIOVANNI PAOLO II, Dono e mistero.
[23] MONS. ÁLVARO DEL PORTILLO, Consacrazione e missione del sacerdote, Edizioni Ares 1990, p. 114.
[24] Ibid, pp. 114-115.
[25] MONS. ÁLVARO DEL PORTILLO, Consacrazione e missione del sacerdote, Edizioni Ares 1990, pp. 57-58.
[26] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Appunti presi in una riunione familiare, 10-IV-1969.
[27] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Appunti presi in una riunione con sacerdoti, 3-XI-1972.
Romana, n. 36, Gennaio-Giugno 2003, p. 110-121.