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Diritto e Spirito

Nel ventesimo anniversario della costituzione dell’Opus Dei come prelatura personale

Antonio Viana

Università di Navarra (Pamplona, Spagna)

1. L’Opus Dei nella Chiesa

Il 28 novembre 1982 Giovanni Paolo II eresse l’Opus Dei come prelatura personale mediante la Costituzione apostolica Ut sit. Per essere più precisi alla luce del diritto canonico, diciamo che la celebrazione del ventesimo anniversario di quell’atto pontificio deve ampliarsi nel tempo in modo da comprendere altre due date importanti: il 19 marzo 1983 il documento papale fu promulgato oralmente da monsignor Romolo Carboni, allora Nunzio apostolico in Italia, a tal fine autorizzato dal Romano Pontefice, e il 2 maggio dello stesso anno i testi furono pubblicati nel Bollettino ufficiale della Sede Apostolica, dopo che il 25 gennaio erano stati promulgati i canoni del Codice di Diritto Canonico del 1983[1].

Si concludeva così il lungo itinerario giuridico dell’Opus Dei e si compiva ciò che san Josemaría Escrivá aveva definito la sua “intenzione speciale”, per la quale pregò e fece pregare con grandissima intensità durante tutta la sua vita. In effetti, san Josemaría desiderava la prelatura personale sin da quando il Concilio Vaticano II aveva previsto tale figura nel decreto Presbyterorum Ordinis n. 10, del 1965, e, un anno più tardi, il Papa Paolo VI aveva specificato dal punto di vista legislativo ciò che il Concilio aveva previsto, con il motu proprio Ecclesiæ Sanctæ, I, 4. Tuttavia già da molti anni prima pregava affinché un intervento dell’autorità ecclesiastica confermasse l’unità di vocazione dei membri dell’Opus Dei e garantisse la loro condizione di fedeli laici o di sacerdoti secolari nella Chiesa; permettesse ai sacerdoti la dedicazione stabile (incardinazione, nella terminologia propria del diritto canonico) alla formazione dei membri e la partecipazione alle attività apostoliche dell’Opera; riconoscesse al futuro Prelato gli strumenti canonici necessari al governo ordinario e all’impulso dell’attività apostolica; si adattasse all’organizzazione internazionale dell’Opus Dei, non limitata a un territorio concreto, e lo facesse all’interno del diritto comune della Chiesa, non in regime di privilegio o di eccezione, in modo che i fedeli dell’Opus Dei non smettessero di far parte delle diocesi in cui vivono e continuassero a dipendere dai Vescovi locali, come gli altri fedeli delle diocesi[2].

Quello che si cercò con fede nel potere della preghiera, prima che nella mera ideazione e nello studio degli aspetti formali, fu una soluzione al problema istituzionale dell’Opus Dei che desse risposte e garanzie a tutte le esigenze summenzionate: l’unità della vocazione, senza categorie di membri o gradi diversi di incorporazione; la piena secolarità dei fedeli dell’Opus Dei, senza assimilazione alcuna alle caratteristiche proprie della vita religiosa o di quella che oggi si chiama vita consacrata; la formazione e l’incardinazione di un clero proprio; la potestà del prelato; la configurazione interdiocesana senza esenzioni rispetto alla potestà dei Vescovi diocesani. Tali esigenze erano e sono imprescindibili per l’effettiva realizzazione del messaggio che san Josemaría si impegnò a trasmettere sin dal 1928 «per divina ispirazione», come dice testualmente Giovanni Paolo II all’inizio della bolla Ut sit[3]. Si comprende allora l’importanza degli atti pontifici del 1982-1983 e anche la profonda gioia e la gratitudine verso Dio con cui fu accolto il compimento dell’intenzione speciale di san Josemaría. Come sottolineò il suo successore, monsignor Álvaro del Portillo, quelli furono giorni «di esultanza»; e subito aggiungeva: «È l’inizio di una nuova tappa del cammino di lealtà e di fedeltà alla Chiesa che si è aperto il 2 ottobre 1928»[4].

Dall’inizio di quella nuova tappa sono già passati vent’anni. La cosa più importante di tutto questo periodo è stato il consolidamento del lavoro apostolico dell’Opus Dei nei cinque continenti, nonché l’inizio del lavoro in nuovi Paesi. Allo stesso tempo, questa crescita apostolica è stata accompagnata da una chiara percezione del proprio orientamento al servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari.

Infatti, questi anni hanno portato a un progressivo chiarimento dottrinale dell’inserimento dell’Opus Dei nella comunione ecclesiale. Non che prima essa risultasse oscura, ma certo l’adeguamento tra la realtà dell’Opera e la legislazione canonica comune ha permesso una riflessione profonda e fruttuosa, teologica e canonica, sull’Opus Dei nella Chiesa. Come pensava san Josemaría, prima viene la vita, poi la norma che la regola e la incanala, e alla fine la riflessione teologica.

Questo processo di approfondimento teologico si è svolto anche al ritmo di alcuni eventi di notevole importanza. Ricordiamo qui l’ordinazione episcopale dei due primi Prelati, mons. Álvaro del Portillo nel 1991 e mons. Javier Echevarría nel 1994[5]. Queste ordinazioni propriamente non hanno implicato una sorta di coronamento della struttura giuridica dell’Opus Dei, già consolidata mediante gli atti pontifici del 1982 e 1983. Tuttavia, da una parte, esse sono perfettamente adeguate alla struttura interna dell’Opera, basata sulla distinzione e sulla cooperazione organica tra laici e sacerdoti; dall’altra, esse facilitano il servizio dell’Opus Dei alle diocesi. Infatti, con la consacrazione episcopale il Prelato entra nel collegio dei Vescovi e, rappresentando la Prelatura, stabilisce con essi i corrispondenti vincoli di comunione. Il Prelato esercita una funzione di natura episcopale, in quanto è capo del presbiterio della Prelatura (formato a partire dalla promozione all’ordine sacro e dall’incardinazione nella Prelatura di alcuni fedeli laici dell’Opus Dei) e Ordinario proprio della Prelatura, in comunione con il Romano Pontefice e con gli altri Vescovi membri del collegio episcopale.

Questo insieme di legami e di rapporti tra il Prelato e il Romano Pontefice, i Vescovi, i sacerdoti e i fedeli della Prelatura è una manifestazione di ciò che un documento della Congregazione della Dottrina della Fede del 1992 ha denominato «unità e diversità nella comunione ecclesiale», questione che evoca a sua volta la debita armonia e il debito coordinamento tra l’Opus Dei e le Chiese locali. Come dice testualmente il documento citato, «per una visione più completa di questo aspetto della comunione ecclesiale — unità nella diversità —, è necessario considerare che esistono istituzioni e comunità stabilite dall’Autorità Apostolica per peculiari compiti pastorali. Esse, in quanto tali, appartengono alla Chiesa universale, pur essendo i loro membri anche membri delle Chiese particolari dove vivono e operano. Tale appartenenza alle Chiese particolari, con la flessibilità che le è propria, trova diverse espressioni giuridiche. Ciò non solo non intacca l’unità della Chiesa particolare fondata nel Vescovo, bensì contribuisce a dare a quest’unità l’interiore diversificazione propria della comunione»[6].

Non è possibile soffermarsi qui sulle questioni canoniche concrete che si pongono nella relazione della Prelatura dell’Opus Dei con le Chiese locali[7]. Però, come abbiamo appena ricordato citando il documento del 1992, queste relazioni sono basate sul principio della duplice e inseparabile ascrizione dei fedeli dell’Opus Dei sia alla Prelatura che alla Diocesi in cui hanno il proprio domicilio.

Per ciò che si riferisce alla posizione dei fedeli laici dell’Opus Dei nelle diverse diocesi, ricordiamo, infatti, che la potestà del Prelato su di essi riguarda tutto ciò che si riferisce «all’adempimento dei peculiari obblighi che essi hanno assunto con vincolo giuridico, mediante una convenzione con la Prelatura»[8]. Dato che questi obblighi hanno un contenuto ascetico, apostolico e formativo, che per sua natura non rientra nella potestà del Vescovo diocesano, essendo specificazioni e sviluppi della libertà di cui gode ogni fedele nella Chiesa, è perfettamente possibile non solo che questi laici continuino a dipendere in tutto il resto dal Vescovo diocesano, ma anche che questa dipendenza sia uguale, né più né meno, a quella degli altri fedeli della diocesi[9]. Queste puntualizzazioni sono importanti per i rapporti dell’Opus Dei con le Diocesi, perché escludono ogni possibile ottica di esenzione o di separazione delle giurisdizioni.

2. I discorsi pontifici degli anni 2001 e 2002

Oltre all’ordinazione episcopale dei due primi Prelati, un altro fatto di particolare rilievo in questi vent’anni di vita dell’Opus Dei come prelatura personale è stata l’udienza concessa da Giovanni Paolo II, il 17-III-2001, ai partecipanti alle giornate di studio sulla sua lettera Novo millennio ineunte; le giornate si tennero a Roma e furono promosse da mons. Javier Echevarría, attuale Prelato dell’Opus Dei. Il discorso pronunciato dal Papa in quella udienza costituisce un passaggio di particolare importanza nel menzionato processo di approfondimento teologico e canonico, perché tratta espressamente della natura, della struttura interna e della finalità apostolica dell’Opus Dei come prelatura personale. Vale la pena di soffermarsi sui contenuti del discorso papale, sia pure in modo molto conciso[10].

Giovanni Paolo II comincia col sottolineare la composizione di pastore, presbiterio e fedeli laici che è propria dell’Opus Dei come prelatura personale, articolata in base alla distinzione e alla reciproca relazione tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale degli ordinati in sacris; composizione che nel discorso citato il Papa denomina «convergenza organica di sacerdoti e laici» e che, a somiglianza di altre circoscrizioni ecclesiastiche, conferisce all’Opus Dei una «natura gerarchica [...], stabilita dalla Costituzione apostolica con la quale ho eretto la Prelatura»[11]. Giovanni Paolo II, nel ricordare la propria intenzione quando vent’anni fa eresse l’Opus Dei come prelatura personale, sottolineava inoltre la continuità con ciò che il Concilio Vaticano II aveva previsto intorno alle prelature personali[12]. Con tali espressioni il Papa volle confermare che l’Opus Dei non è strutturato come un movimento di laici al quale si aggiungerebbero dei sacerdoti con funzioni di cappellania o, viceversa, una corporazione clericale con la quale potessero collaborare dall’esterno i fedeli laici. Al contrario, la Prelatura dell’Opus Dei, come precisa la Cost. ap. Ut sit e sottolineano anche i suoi statuti, è una “compagine apostolica” di sacerdoti incardinati e di laici incorporati, organica e indivisa, in “convergenza organica”, secondo la terminologia pontificia[13].

Dopo aver descritto la struttura personale dell’Opus Dei, Giovanni Paolo II si è voluto soffermare sulla vocazione e sulla missione dei fedeli della Prelatura nel contesto di una “spiritualità di comunione”.

Per un verso, i laici “in quanto cristiani” sono chiamati a compiere un ampio apostolato nelle loro attività ordinarie: «Le loro specifiche competenze nelle diverse attività umane sono in primo luogo uno strumento affidato loro da Dio per consentire “all’annuncio di Cristo di raggiungere le persone, plasmare le comunità, incidere in profondità mediante la testimonianza dei valori evangelici nella società e nella cultura” (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 29) [...]. Ed il loro zelo apostolico, l’amicizia fraterna, la carità solidale, faranno sì che essi sappiano volgere i rapporti sociali quotidiani in occasioni per destare nei propri simili quella sete di verità che è la prima condizione per l’incontro salvifico con Cristo».

Per l’altro verso, i sacerdoti «esercitano una funzione primaria insostituibile: quella di aiutare le anime una a una, nei sacramenti, nella predicazione, nella direzione spirituale, ad aprirsi al dono della grazia».

Partendo dalla descrizione pontificia delle missioni proprie ai laici e ai sacerdoti, si riconosce nell’Opus Dei un riflesso dei vincoli di comunione e della struttura sacerdotale della Chiesa. I fedeli laici incorporati alla Prelatura sono chiamati a vivere secondo lo spirito dell’Opera la vocazione cristiana di santificazione delle realtà terrene. I sacerdoti servono con il loro ministero tutti i fedeli, prima di tutto i membri dell’Opus Dei, e cooperano organicamente con loro al servizio della missione apostolica. Gli uni e gli altri in comunione col Romano Pontefice e con i Vescovi, attraverso l’unione con il loro padre e Prelato. Come dice Hervada, «la relazione tra l’ordo e i fedeli era ed è nell’Opus Dei quella ministeriale, vale a dire la stessa e ordinaria relazione che costituzionalmente esiste tra presbiteri e laici o popolo fedele. Infatti i presbiteri si ordinavano — e si ordinano — per il servizio ministeriale dei laici appartenenti all’Opus Dei, e allo stesso tempo presbiterio e laicato compiono insieme un’azione apostolica. La relazione presbiteri-laici nell’Opus Dei è la relazione costituzionale clero-laicato»[14].

Si comprende allora meglio come la struttura interna dell’Opus Dei possa avere natura gerarchica, in quanto riflette i vincoli della comunione ecclesiale, la communio fidelium e la communio hierarchica, che sono presenti in tutte le circoscrizioni ecclesiastiche. Una comunione reale che deve alimentarsi spiritualmente e apostolicamente. In questo senso non è accidentale che Giovanni Paolo II abbia voluto parlare nella Novo millennio ineunte della communio come di un atteggiamento spirituale, e il discorso del 17 marzo 2001 che stiamo ricordando è un invito affinché venga «richiamata l’importanza di quella “spiritualità di comunione” sottolineata dalla Lettera apostolica»[15], venga cercato il volto di Cristo come compimento dell’aspirazione che veniva spesso alle labbra di san Josemaría, «uomo assetato di Dio e perciò grande apostolo. Egli ha scritto: “Nelle intenzioni, Gesù sia il nostro fine; negli affetti, il nostro amore; nella parola, il nostro argomento; nelle azioni, il nostro modello”»[16].

Il ventesimo anniversario della costituzione dell’Opus Dei come prelatura personale nella Chiesa è coinciso con altre due grandi celebrazioni dell’anno 2002: da una parte, il 9 gennaio cadeva il centenario della nascita di Josemaría Escrivá de Balaguer; dall’altra, il 6 ottobre dello stesso anno, si è svolto l’avvenimento di gran lunga più importante (per il significato teologico e le conseguenze spirituali e apostoliche che comporta per tutta la Chiesa) della sua canonizzazione.

Le due celebrazioni sono state l’occasione per nuovi discorsi di Giovanni Paolo II, in riferimento alla dottrina che il Signore ha voluto ricordare e trasmettere attraverso san Josemaría e all’Opera da lui fondata. A differenza del citato discorso del 17-III-2001, le nuove parole del Papa non hanno trattato della Prelatura come istituzione, bensì del messaggio che per volere di Dio l’Opus Dei è chiamato a trasmettere e insegnare a vivere.

In occasione del centenario della nascita di san Josemaría si è svolto a Roma, dall’8 al 12 gennaio 2002, un Congresso internazionale dal titolo “La grandezza della vita ordinaria. Vocazione e missione del cristiano in mezzo al mondo”. L’ultimo giorno del Congresso i partecipanti sono stati ricevuti da Giovanni Paolo II nell’Aula Paolo VI. In tale occasione il Papa la letto un discorso tutto incentrato sul valore della vita quotidiana come cammino verso la santità[17]. Il Santo Padre ha insistito sulla nozione di “unità di vita”, tante volte impiegata da san Josemaría e sottolineata dal recente magistero pontificio, per esprimere la necessaria corrispondenza tra la fede e le opere del cristiano. L’uno e l’altro aspetto — santità nelle situazioni ordinarie e unità di vita — sono collegati fra loro, perché «il Signore vuole entrare in comunione d’amore con ciascuno dei suoi figli, nella trama delle occupazioni di ogni giorno, nel contesto feriale in cui si svolge l’esistenza»[18]. Il Papa invitava a dimostrare ogni giorno che «l’Amore di Cristo può informare tutto l’arco dell’esistenza, consentendo di raggiungere l’ideale di quell’unità di vita che, come ho ribadito nell’Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, è fondamentale nell’impegno di evangelizzazione nella società contemporanea (cfr. n. 17)»[19].

Giovanni Paolo II è ritornato sull’argomento nell’omelia del 6 ottobre, nella messa della canonizzazione di Josemaría Escrivá. In quella solenne occasione ha parlato di «elevare il mondo a Dio e trasformarlo dal di dentro», e ha incoraggiato a non lasciarsi «intimorire dinanzi a una cultura materialistica, che minaccia di dissolvere l’identità più autentica dei discepoli di Cristo»[20]. Più avanti il Santo Padre ha osservato che «Josemaría Escrivá comprese più chiaramente che la missione dei battezzati consiste nell’elevare la Croce di Cristo su ogni realtà umana e sentì nascere interiormente l’appassionante chiamata a evangelizzare tutti gli ambiti. Accolse allora senza vacillare l’invito fatto da Gesù all’apostolo Pietro e che poco fa è risuonato in questa piazza: “Duc in altum!”. Lo trasmise a tutta la sua Famiglia spirituale, affinché offrisse alla Chiesa un contributo valido di comunione e di servizio apostolico»[21].

Pertanto l’Opus Dei è una “famiglia spirituale” chiamata a offrire alla Chiesa i beni dell’unità e del servizio apostolico. Questo contributo però non è principalmente corporativo o ufficiale, ma avviene soprattutto attraverso l’attività personale dei suoi fedeli nei luoghi più diversi. Questo è il fatto sostanziale e a questo serve la Prelatura come istituzione. Infatti, nel Codice di Diritto Particolare dell’Opus Dei (Statuti) non troviamo nessun titolo che si riferisca all’attività della Prelatura in quanto tale; non tanto perché questa attività non esista, quanto perché si concretizza soprattutto nella formazione e nell’assistenza spirituale dei fedeli, affinché essi siano in condizione di essere e di agire, individualmente o associati con altri, come il fermento nella massa della società[22]. L’Opus Dei non è principalmente né corporativamente orientato verso la realizzazione di attività istituzionali della Prelatura, bensì a rendere capace e a spingere ogni cristiano alla santificazione delle realtà terrene, a «elevare la Croce di Cristo su ogni realtà umana», come ricordava il Papa con parole già citate in precedenza. Ciò si realizza attraverso l’impegno personale, in unità di vita, dei suoi fedeli e di altre persone che cooperano o partecipano agli apostolati della Prelatura.

3. Diritto e spiritualità

In questo senso la forma giuridica della prelatura personale regolata dai cc. 294-297 del CIC ha un carattere strumentale, come qualunque altra forma corporativa nella Chiesa e nella società civile. È al servizio della vocazione soprannaturale della persona, della crescita spirituale dei figli di Dio. Non è un caso che negli Statuti della Prelatura dell’Opus Dei si scopra un forte collegamento fra diritto scritto e spiritualità.

Infatti gli Statuti contengono molti riferimenti alla fisionomia non solo organizzativa, ma anche spirituale dell’Opus Dei, con un chiaro proposito di articolare correttamente le relazioni tra vocazione soprannaturale e norma giuridica. Negli Statuti troviamo abbondanti riferimenti al fine dell’Opus Dei, che si concretizza nella santificazione delle persone mediante l’esercizio delle virtù cristiane nel proprio stato, professione e condizione di vita secondo una spiritualità secolare (n. 2 § 1), con la vocazione contemplativa, la vita di orazione e di sacrificio, il senso della filiazione divina, la formazione ascetica e dottrinale-religiosa, la santificazione del lavoro professionale ordinario, l’apostolato personale «tamquam fermentum in massa humanæ societatis» (n. 3 § 1, 3°), l’unità di fine e di regime, «di vocazione e di spirito» (n. 4 § 3), ecc.

In particolare, l’intero titolo III degli Statuti è dedicato alla vita, alla formazione e all’apostolato dei fedeli della Prelatura. Esso si divide in tre capitoli: vita spirituale, formazione dottrinale-religiosa e apostolato. Come spiega José Luis Illanes, la vita spirituale nell’Opus Dei è «qualcosa di unitario attorno a due cardini portanti: da una parte, il senso della filiazione divina, da cui deriva un atteggiamento o disposizione dell’anima che induce a riferire tutto ciò che accade a un Dio riconosciuto come Padre; dall’altra, il lavoro, ossia l’insieme delle attività e degli impegni secolari nei quali deve incarnarsi e farsi storia quella consapevolezza della vicinanza di Dio»[23].

In tal senso, vale la pena ricordare il n. 79 § 1 degli Statuti, che mette in risalto l’armonia tra la fede e le opere come criterio ispiratore e verificatore di tutti i riferimenti spirituali che si trovano in essi. Dice così: «Lo spirito dell’Opus Dei presenta un duplice aspetto, ascetico e apostolico, che si corrispondono pienamente e che sono intrinsecamente e armonicamente uniti e compenetrati nel carattere secolare dell’Opus Dei, in maniera tale che deve sempre spingere e comportare una solida e semplice unità di vita ascetica, apostolica, sociale e professionale»[24].

Il forte contenuto spirituale di questi ed altri testi finisce per confermare il senso strumentale delle norme che reggono l’Opus Dei. Infatti il diritto particolare dell’Opus Dei si configura come «espressione del carisma o, forse più esattamente, determinazione di ciò che il carisma richiede»[25], e dunque del posto dell’Opus Dei nella Chiesa. Una strumentalità che riconosce anzitutto i limiti del diritto scritto, perché le espressioni di un carisma trascendono, vanno oltre un testo normativo, in quanto sono chiamate a rendersi visibili soprattutto nel cuore e nella vita dei fedeli. Ma al tempo stesso e quasi paradossalmente una strumentalità necessaria, perché qui il diritto non solo è garanzia di unità istituzionale mediante il rispetto e l’osservanza di ciò che dispone la norma scritta, ma anche riconoscimento e promozione di uno spirito che va vissuto nella storia delle relazioni umane.

Inoltre, dal punto di vista storico, i frequenti richiami degli Statuti a realtà metagiuridiche (spiritualità, mezzi ascetici, vocazione cristiana in mezzo al mondo) si spiegano con la volontà di san Josemaría Escrivá di andare riflettendo gradualmente in queste norme lo spirito dell’Opus Dei[26], affinché attraverso il loro contenuto si potesse comprendere correttamente il resto delle disposizioni statutarie, soprattutto in quell’epoca storica in cui l’Opus Dei visse nella Chiesa rivestita di forme giuridiche non adeguate alla sua natura, in quanto erano forme proprie del diritto dei religiosi, di ciò che oggi si chiama vita consacrata[27].

Tutti questi aspetti sono così rilevanti che alla fine spiegano e danno un senso all’attività della Prelatura: stimolare e sostenere la vita spirituale dei fedeli perché sia cosciente in essi la vocazione alla santità con le sue conseguenze pratiche; dare loro una formazione dottrinale tale per cui «in tutti gli ambiti della società vi siano persone intellettualmente preparate, che, con semplicità, nelle circostanze ordinarie della vita di ogni giorno e del lavoro, compiano, con l’esempio e con la parola, un efficace apostolato di evangelizzazione e catechesi»[28]; fornire loro anche una formazione apostolica e l’assistenza pastorale indispensabile per questo lavoro di evangelizzazione e di catechesi, per realizzare questo apostolato.

4. Spontaneità apostolica e istituzione gerarchica

La storia della Chiesa ci mostra parecchi esempi di tensione tra legge e vangelo, diritto e vita, carisma e istituzione. Da una parte vi sono i casi di dottrine chiaramente deviate dall’ortodossia cattolica, che per strade diverse sono giunte ad affermare una divisione tra la Chiesa della carità e la Chiesa del diritto, come se si trattasse di dimensioni per se stesse separate e incompatibili, come se le forme giuridiche soffocassero l’espressione spontanea e personale della carità cristiana. Il luteranesimo classico costituì un’aperta sfida al diritto pontificio in nome della libertà individuale. Nelle sue formulazioni più radicali esso afferma l’incompatibilità del diritto con la realtà della Chiesa[29]. Tutt’al più si arriva ad ammettere una certa disciplina od organizzazione, ma come uno strumento umano inevitabile, non salvifico né canale dell’azione divina.

Dall’altra parte vi sono le dottrine, o forse meglio gli atteggiamenti, che, senza essere eterodossi, rivelano una marcata sfiducia verso il diritto o verso la funzione del diritto al servizio della giustizia e della libertà. Questi atteggiamenti e questi sentimenti non solo si manifestano nella vita della Chiesa, ma sono presenti anche nella società civile. Si nota negli ultimi decenni il radicarsi di una visione negativa del diritto, inteso come norma limitatrice delle libertà o anche come frutto dei compromessi e degli equilibri pragmatici tra le forze politiche, senza una particolare considerazione o anche a prescindere dalle ragioni di dignità delle persone e delle cose. Invece la visione cristiana del diritto lo considera al servizio della realizzazione della giustizia, del bene personale e del bene comune; non come una sovrastruttura prescindibile, ma come una dimensione caratteristica della persona umana nelle sue relazioni sociali. Nella Chiesa il diritto adempie anche una funzione imprescindibile, in quanto è strumento di convivenza, unità e continuità del messaggio rivelato nel corso della storia, indipendentemente dalle persone che in un dato momento storico sono titolari degli incarichi ecclesiastici. Quando il Signore istituisce la Chiesa, stabilisce anche la sua organizzazione fondamentale mediante la scelta dei dodici apostoli, a mo’ di collegio o di gruppo stabile, e la chiamata di Pietro a capo del collegio apostolico[30]. Inoltre, l’istituzione divina dei sacramenti stabilisce, assieme alla determinazione dell’autorità, l’altro pilastro fondamentale sul quale poggia il diritto divino positivo, in quanto i sacramenti sono beni dati dal Signore alla Chiesa, che li distribuisce attraverso i suoi ministri, in modo tale per cui esiste l’obbligo di darli e il diritto di riceverli[31].

Chiesa e diritto non solo risultano compatibili, ma sarebbe addirittura un errore ecclesiologico affermare il contrario. Il Signore ha voluto che nella sua Chiesa fosse presente l’elemento giuridico non in una forma esclusiva, ma neppure in modo facoltativo. Lo Spirito Santo alimenta la vita della Chiesa, che esiste come «una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino [...]. Infatti, come la natura assunta è a servizio del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per la crescita del corpo»[32]. Lo Spirito Santo mentre suscita e promuove i carismi, favorisce nella Chiesa l’unione armonica del diritto divino con il diritto umano durante le diverse tappe storiche. È vero che talvolta la presenza vivificante dello Spirito può arrivare a oscurarsi a causa dell’ipertrofia delle strutture o di un’eccessiva fiducia nell’azione degli uomini, ma il potere di Dio sa anche suscitare nuovi carismi, stimolare quelli antichi e dare sempre nuovo impulso ad aspirazioni di santità non solo nella vita personale e associata dei fedeli, ma anche in seno alle strutture gerarchiche della Chiesa, come le diocesi o le prelature. In tal senso, non è azzardato affermare che la figura giuridica della prelatura personale è uno strumento atto a promuovere e consolidare realtà di santità e di apostolato; uno strumento storico, di diritto umano, per l’azione dello Spirito Santo.

Occorre insistere sul fatto che i carismi, le vocazioni speciali, la spiritualità, la vita apostolica non trovano il loro corso soltanto nelle associazioni o negli istituti di vita consacrata. Anche le circoscrizioni ecclesiastiche, e tra esse le prelature personali, sono chiamate ad essere comunità in cui la vita cristiana sia proprio questo: vita in Cristo e donazione agli altri, ambiti in cui fioriscano la vita spirituale, la santità cristiana e, inseparabilmente, l’apostolato. L’apostolato è fine della Chiesa[33] e di tutte le comunità cristiane, indipendentemente dal fatto che abbiano una struttura gerarchico-istituzionale o associativa[34].

Contemplato alla luce dell’azione pastorale e apostolica, lo spirito dell’Opus Dei si trasmette in due modi. Da una parte, il Prelato e il suo presbiterio svolgono un particolare lavoro pastorale al servizio del laicato della Prelatura, come espressione della missione di servizio del sacerdozio ministeriale al sacerdozio comune; dall’altra, tutta la Prelatura, sacerdoti e laici congiuntamente, in cooperazione organica, realizzano un apostolato al servizio delle Chiese locali[35].

Nella sua dimensione sostanziale, pertanto, la Prelatura dell’Opus Dei si presenta:

— come una communitas di fedeli formalmente organizzata dall’autorità suprema della Chiesa per diffondere e realizzare tra persone di ogni condizione la chiamata alla santità di vita nelle attività ordinarie;

— composta da sacerdoti e laici, reciprocamente legati in base alla distinzione e alla cooperazione tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale;

— servita e governata da un Prelato come ordinario proprio, con la cooperazione di un presbiterio.

Questi aspetti sostanziali denotano un principio di responsabilità comune e condivisa, una chiamata ad essere Opus Dei e a fare l’Opus Dei, come piaceva ripetere a san Josemaría; ossia a impegnarsi personalmente nel corrispondere alla grazia del battesimo, a cercare la santità cristiana e a servire il prossimo nelle attività di ogni giorno[36].


Riassumendo, i vent’anni trascorsi dalla costituzione dell’Opus Dei come prelatura personale costituiscono un’occasione per ringraziare Dio dei doni elargiti in questo tempo: i frutti di servizio alla Chiesa e agli uomini che questo strumento giuridico ha prodotto, l’estensione raggiunta dall’attività apostolica dei fedeli della Prelatura, il processo di approfondimento teologico del messaggio che Dio ha voluto ricordare e ravvivare nella Chiesa fin dal 1928, la canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei e l’accoglienza data alla sua esperienza di vita e di dottrina nelle Chiese locali. Sono circostanze e realtà che inducono a guardare al futuro con ottimismo e desideri di fedeltà. Il futuro è una chiamata a saper armonizzare la spontaneità, la forza spirituale e apostolica che sgorga dalla vocazione soprannaturale, con l’impulso, la direzione e il governo dell’attività apostolica e della vita dell’Opus Dei. Spirito e diritto, carisma e istituzione gerarchica, non solo sono compatibili, ma sono anche dimensioni inseparabili di quella realtà complessa e familiare che è la Chiesa.

[1] Questi dati si trovano in A. FUENMAYOR - V. GÓMEZ-IGLESIAS - J. L.ILLANES, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Giuffrè, Milano 1991, pp. 628-645.

[2] A parte altri dati citati ne L’itinerario giuridico, cit. (nota 1), sulla storia dell’Opus Dei precedente al 1982, nello stesso libro (p. 470, nota 106) viene riportato un episodio molto espressivo dell’intenzione assai precoce di san Josemaría Escrivá. Infatti, Pedro Casciaro, uno dei primi membri dell’Opus Dei, racconta che nel 1936 accompagnò san Josemaría nella chiesa di Santa Elisabetta a Madrid, di cui all’epoca questi era rettore. San Josemaría, vedendo che Casciaro si soffermava su alcuni aspetti della decorazione della chiesa, gli indicò due lapidi funerarie collocate ai piedi del presbiterio, nel pavimento, e disse all’incirca queste parole: «Lì c’è la futura soluzione giuridica dell’Opera». San Josemaría non diede altre spiegazioni. Le due lapidi ricordano due Prelati spagnoli, uno della seconda metà del XVIII secolo, l’altro vissuto tra la metà del XIX e gli inizi del XX secolo, entrambi cappellani maggiori del Re di Spagna e vicari generali castrensi, vale a dire titolari di una giurisdizione quasi-episcopale non territoriale sui membri della Casa reale e degli eserciti della Spagna. Come si spiega nel luogo citato: «La testimonianza di Pedro Casciaro è importante e significativa perché mostra che nella mente del Fondatore dell’Opus Dei fu sempre presente, in un modo o nell’altro, l’idea di una struttura giurisdizionale di carattere secolare e personale».

[3] «Con grandissima speranza, la Chiesa rivolge le sue materne premure e le sue attenzioni verso l’Opus Dei, che per divina ispirazione il Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer fondò a Madrid il 2 ottobre 1928, affinché esso sia sempre un valido ed efficace strumento della missione salvifica che la Chiesa adempie per la vita del mondo», GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Ut sit, 28-XI-1982, in AAS, 75 (1983), pp. 423-425, proœmium.

[4] A. DEL PORTILLO, Omelia nella celebrazione eucaristica in occasione dell’inaugurazione ufficiale della Prelatura dell’Opus Dei, Roma 19-III-1983, in “Studi cattolici” n. 268, giugno 1983, p. 376.

[5] Cfr. al riguardo i due commenti di V. GÓMEZ-IGLESIAS, L’ordinazione episcopale del Prelato dell’Opus Dei, in “Romana” 12 (1991), pp. 183-192 e Circa l’elevazione all’Episcopato del secondo Prelato dell’Opus Dei, in “Ius Ecclesiæ”, 8 (1995), pp. 800-810. Cfr. anche, F. OCÁRIZ, Unità e diversità nella Comunione ecclesiale in “Romana” 14 (1992), pp. 173-175, e VELASIO DE PAOLIS, Nota sul titolo di consacrazione episcopale in “Ius Ecclesiæ” 14 (2002), pp. 59-79.

[6] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, 28-V-1992, in AAS, 85 (1993), pp. 838-850, n. 16.

[7] Rimando per questo al mio studio Contenidos del Derecho Particular del Opus Dei, in “Ius Canonicum”, 39 (1999), specialmente pp. 115-122; cfr. anche P. RODRÍGUEZ, Chiese particolari & prelature personali, Milano 1985.

[8] Cost. ap. Ut sit, n. III.

[9] Questo principio di uguaglianza è sancito dagli Statuti dell’Opus Dei quando al n. 172 § 2 dichiarano che i fedeli laici della Prelatura dipendono dagli ordinari locali secondo le norme del diritto universale «allo stesso modo degli altri cattolici nella propria diocesi». E la Declaratio della Congregazione per i Vescovi del 23-VIII-1982 (AAS 75, 1983, pp. 464-468) chiarisce che «i laici incorporati alla Prelatura dell’Opus Dei rimangono fedeli delle singole diocesi nelle quali hanno il proprio domicilio o quasi-domicilio, e sono quindi sottoposti alla giurisdizione del vescovo diocesano in tutto quanto il diritto stabilisce per la generalità dei semplici fedeli» (Declaratio, n. IV, c). Il n. IV, a, della Declaratio chiarisce, a sua volta, che «gli appartenenti alla Prelatura sono sottoposti, secondo le prescrizioni del diritto, alle norme territoriali riguardanti sia le direttive generali di carattere dottrinale, liturgico e pastorale che le leggi d’ordine pubblico e, nel caso dei sacerdoti, anche alla disciplina generale del clero». Gli Statuti (Codex Iuris Particularis Operis Dei) sono stati pubblicati in appendice a L’itinerario giuridico dell’Opus Dei, cit. (nota 1), pp. 875-914, e anche in P. RODRÍGUEZ-F. OCÁRIZ-J.L.ILLANES, L’Opus Dei nella Chiesa: ecclesiologia, vocazione, secolarità, 1ª ed., Casale Monferrato 1993, pp. 329-380, nonché in V. GÓMEZ-IGLESIAS-A. VIANA-J. MIRAS, El Opus Dei, Prelatura Personal. La Constitución Apostólica “Ut sit”, Pamplona 2000, pp. 131-165.

[10] Il testo del discorso pontificio si può leggere ne L’Osservatore Romano, 18.III.2001, p. 6 (riprodotto in “Romana”, 32 (2001) pp. 41-43). Un approfondito commento del discorso si trova in J. MIRAS, Notas sobre la naturaleza de las prelaturas personales. A propósito de un discurso de Juan Pablo II, in “Ius Canonicum”, 42 (2002), pp. 363-388.

[11] «Voi siete qui, in rappresentanza delle componenti in cui la Prelatura è organicamente strutturata, cioè dei sacerdoti e dei fedeli laici, uomini e donne, con a capo il proprio Prelato. Questa natura gerarchica dell’Opus Dei, stabilita nella Costituzione apostolica con la quale ho eretto la Prelatura (cfr. Cost. ap. Ut sit, 28-XI-1982), offre lo spunto per considerazioni pastorali ricche di applicazioni pratiche. Innanzitutto desidero sottolineare che l’appartenenza dei fedeli laici sia alla propria Chiesa particolare sia alla Prelatura alla quale sono incorporati fa sì che la missione peculiare della Prelatura confluisca nell’impegno evangelizzatore di ogni Chiesa particolare, come previde il Concilio Vaticano II nell’auspicare la figura delle prelature personali. La convergenza organica di sacerdoti e laici è uno dei terreni privilegiati sui quali prenderà vita e si consoliderà una pastorale improntata a quel «dinamismo nuovo» (cfr. Lett. ap. Novo millennio ineunte, 15) cui tutti ci sentiamo incoraggiati dopo il Grande Giubileo. In questo contesto va richiamata l’importanza di quella «spiritualità di comunione» sottolineata dalla Lettera apostolica (cfr. ibid., 42-43).

[12] Vedi nota precedente: «...come previde il Concilio Vaticano II nell’auspicare la figura delle prelature personali».

[13] «Poiché l’Opus Dei, con l’aiuto della grazia divina, crebbe in tal modo da diffondersi ed operare in un gran numero di diocesi in tutto il mondo, agendo come una compagine apostolica che, formata da sacerdoti e da laici, uomini e donne, è allo stesso tempo organica ed indivisa — cioè come un’istituzione dotata di una unità di spirito, di fine, di regime e di formazione —, si rese necessario attribuirle una appropriata forma giuridica, che fosse consona alle sue caratteristiche peculiari», Cost ap. Ut sit, proœmium. Come abbiamo constatato nel testo citato più sopra (nota 11), il discorso papale parla esplicitamente di laici incorporati alla Prelatura dell’Opus Dei.

[14] J. HERVADA, Aspectos de la estructura juridica del Opus Dei, in ID., “Vetera et nova. Cuestiones de Derecho Canónico y afines (1958-1991)”, vol. II, Pamplona 1991, p. 1058 (questo studio è stato pubblicato anche in versione italiana ne “Il Diritto Ecclesiastico”, luglio-dicembre 1986, pp. 410-430). Il concetto è espresso alla lettera negli Statuti dell’Opus Dei quando affermano: «Il sacerdozio ministeriale dei chierici e il sacerdozio comune dei laici si intrecciano intimamente e reciprocamente si richiamano e si completano, per realizzare, in unità di vocazione e di regime, il fine che si propone la Prelatura» (la traduzione è nostra. Cfr. Statuta, n. 4).

[15] Cfr. il n. 1 del Discorso, che rimanda ai nn. 42 e 43 della Novo millennio ineunte.

[16] La frase di san Josemaría si trova al n. 271 di Cammino, citato nel n. 3 del discorso di Giovanni Paolo II.

[17] Si veda PONTIFICIA UNIVERSITÀ DELLA SANTA CROCE, La grandezza della vita quotidiana. Vocazione e missione del cristiano in mezzo al mondo, Roma 2002. Questo volume contiene una parte degli atti del Congresso e anche le versioni italiana, inglese e spagnola del discorso di Giovanni Paolo II del 12-I-2002, già pubblicato anche in “Romana” 34 (2002), pp. 14-15.

[18] GIOVANNI PAOLO II, Discorso 12.I.2002, n. 2 (p. 14 di “Romana” 34).

[19] Ibid., n. 4 (p. 15 dell’edizione citata).

[20] GIOVANNI PAOLO II, Omelia 6-X-2002, n. 3. Il testo dell’omelia si trova in “Romana” 35 (2002). Nel discorso del 7.X.2002, rivolto a coloro che erano stati presenti alla cerimonia di canonizzazione di Josemaría Escrivá, Giovanni Paolo II ha affermato: «San Josemaría era profondamente convinto che la vita cristiana richieda una missione e un apostolato: siamo nel mondo per salvarlo con Cristo. Amò il mondo appassionatamente, con “amore redentore” (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 604). Proprio per questo motivo i suoi insegnamenti hanno aiutato così tanti comuni cristiani a scoprire la forza redentrice della fede, la sua capacità di trasformare la terra. Questo messaggio ha implicazioni numerose e feconde per la missione evangelizzatrice della Chiesa. Promuove la cristianizzazione del mondo “dall’interno”, mostrandoci che può non esserci contrasto fra la legge divina e le esigenze di autentico progresso umano. Questo sacerdote santo pensava che Cristo dovesse essere l’apice di tutta l’attività umana (cfr. Gv 12, 32). Il suo messaggio esorta i cristiani ad agire nei luoghi in cui si plasma il futuro della società. Dalla presenza attiva del laicato in tutte le professioni e presso le frontiere più avanzate dello sviluppo può derivare soltanto un contributo positivo al rafforzamento di quell’armonia fra fede e cultura che è una delle necessità più importanti del nostro tempo». Si veda il testo del discorso in “Romana” 35 (2002).

[21] 21 Ibid., n. 4, p. 208.

[22] 22 Nella lettera di mons. Del Portillo ai membri dell’Opus Dei dell’8-XII-1981 — lettera che inviò ai fedeli solo dopo l’annuncio dell’erezione della Prelatura — si faceva riferimento a questo aspetto, nel contesto della storia che aveva preceduto l’atto di erezione, da parte di Giovanni Paolo II, dell’Opus Dei come prelatura personale: «Ci hanno accusato — ve lo racconto perché è diventato di dominio pubblico e perché abbiamo perdonato fin dal primo istante — che volevamo essere indipendenti dai Vescovi, che cercavamo di restare al di fuori della Gerarchia o che non ci saremmo inseriti nelle Chiese locali. Forse non comprendevano che l’unica cosa che ci interessava era quella di essere riconosciuti per quello che siamo: sacerdoti pienamente secolari e comuni fedeli che costituiscono certamente a livello internazionale una unità giurisdizionale di spirito, di formazione specifica e di regime, ma che — come gli altri fedeli — continuano volentieri a dipendere dai Vescovi in tutto ciò che si riferisce alla cura pastorale ordinaria, la stessa che ogni Vescovo esercita su tutti gli altri laici della sua diocesi [...]. L’equivoco stava nel fatto che — non conoscendo a sufficienza la natura propria dell’Opera — alcuni volevano trattarci come religiosi, o come membri di associazioni o movimenti ecclesiali che operano sempre in gruppo, nelle strutture ecclesiastiche o nella vita civile [...]. Non capivano che la nostra caratteristica — malgrado la solidità di formazione e di regime — non è, normalmente, quella di lavorare come un gruppo ulteriore, ma quella di aprirci a ventaglio, sforzandosi ognuno di essere fermento e sale lì dove svolge la sua attività professionale, nella sua famiglia e tra i suoi amici [...]. E vedendo che non eravamo come uno degli altri gruppi che lavorano nella diocesi, senza rendersi conto che volevamo essere — ripeto — fermento e sale, che scompaiono nella massa, pensavano che non volessimo collaborare e che restassimo al margine della pastorale diocesana. Non si accorgevano che attraverso i canali ordinari in cui scorre la vita secolare, professionale e familiare, siete presenti, figli miei, in ogni luogo: negli ambienti accademici e nel mondo del lavoro, nelle parrocchie, nelle associazioni diocesane, nelle iniziative civili, educative, assistenziali, ecc. Lì dove i cittadini e i fedeli cristiani vivono la loro esistenza ordinaria, i membri dell’Opus Dei sono presenti: di solito, ognuno personalmente — ripeto, non in gruppo —, vivificando tutti questi ambienti con zelo apostolico, al servizio della Chiesa universale e della Chiesa locale» (la traduzione è nostra; il testo originale si trova ne L’itinerario giuridico, cit., appendice n. 66, pp. 859-861).

[23] J. L. ILLANES, Nella Chiesa e nel mondo: la secolarità dei membri dell’Opus Dei, in L’Opus Dei nella Chiesa, cit., p. 282.

[24] Cfr. Statuti, n. 79 (la traduzione è nostra).

[25] L’itinerario giuridico, cit., pp. 113-114.

[26] Gradualmente perché si trattò di un processo nel quale le formulazioni si andarono profilando a poco a poco: «Con la grazia di Dio — scriverà il Fondatore nel 1961 — io elaboravo a poco a poco le norme del nostro diritto peculiare, prendendo le misure all’Opera che cresceva», cit. ne L’itinerario giuridico, cit., p. 113. Ciò che preoccupava il Fondatore era — come scriveva ancora nel 1961 — «la grave responsabilità di far sì che questo nuovo fenomeno venisse esposto, nelle norme del nostro diritto peculiare, secondo il volere del Signore», ibidem, pp. 117-118, nota 30.

[27] Cfr. L’itinerario giuridico, cit., p.255.

[28] Cfr. Statuta, n. 96 (la traduzione è nostra).

[29] È la nota tesi di Rudolf Sohm, giurista evangelico tedesco dell’inizio del secolo XX. Sohm riconobbe allo stesso tempo che il cattolicesimo afferma l’ordine giuridico come qualcosa di necessario per la Chiesa. Cfr., fra i tanti, J. OTADUY, La ley y el Espiritu. Lo invisible de una Iglesia visibile, in “Imágenes de la fe”, 212 (1987), pp. 14, 9-15.

[30] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, nn. 8, 18 e ss.

[31] Su tale questione è fondamentale lo studio di J. HERVADA, Las raíces sacramentales del derecho canónico, in P. RODRÍGUEZ ET ALII, (eds.), “Sacramentalidad de la Iglesia y Sacramentos”, IV Simposio Internacional de Teología, Pamplona 1983, pp. 359-385.

[32] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 8.

[33] Cfr. CONCILIO VATICANO II, decr. Apostolicam Actuositatem, n. 2.

[34] Questo aspetto è stato acutamente messo in rilievo da J. HERVADA, Aspectos, cit. (nota 14), p. 1059: «Potrebbe sembrare, infatti, che le circoscrizioni ecclesiastiche (diocesi, prelature, ecc.) non siano apostolicæ compagines. I corpi sociali apostolici sarebbero quelli associativi, dove si vivrebbe la dimensione apostolica della missione cristiana. Ma ciò non è più sostenibile dopo l’ultimo Concilio Ecumenico [...]. Le circoscrizioni ecclesiastiche sono apostolicæ compagines, con una duplice dimensione: ad intra grazie all’azione pastorale del Vescovo, del Prelato, ecc., sul clero e sui fedeli, del presbiterio sui fedeli e dei fedeli tra loro o — per quanto possibile (ad es. con la correctio fraterna) — dei fedeli rispetto ai presbiteri e al titolare dell’ufficio principale; ad extra, l’azione di tutto l’insieme ordo-plebs rispetto ai lontani o ai non credenti. Cosa diversa è che questa struttura di compages apostolica si avverta poco — o passi inavvertita — in molte circoscrizioni ecclesiastiche, perché questo è in ogni caso solo un deprecabile dato di fatto».

[35] Cfr. J. MIRAS, Notas sobre la naturaleza de las prelaturas personales, cit. (nota 10), p. 373, che menziona una nota informativa che la Congregazione dei Vescovi, nel novembre del 1981, inviò ai Vescovi delle diocesi nelle quali esistevano centri eretti dell’Opus Dei.

[36] «Ciascuno di noi deve essere, con la sua vita dedicata al servizio della Chiesa, Opus Dei, cioè operatio Dei, lavoro di Dio, per fare l’Opus Dei sulla terra», J. ESCRIVÁ DE BALAGUER, Lettera, 14-II-1950, cit. da F. OCÁRIZ, La vocazione all’Opus Dei come vocazione nella Chiesa, in L’Opus Dei nella Chiesa, cit. (nota 9), p. 170. «Un membro dell’Opus Dei, un fedele della Prelatura, non è altro che un laico, un comune cristiano che ha preso coscienza delle esigenze della vocazione battesimale e pertanto si impegna a dare il suo contributo alla diffusione di questo ideale, anzitutto vivendolo egli stesso in prima persona, ossia concretizzandolo in fatti della vita quotidiana. È quello che il Fondatore diceva in modo così efficace: che l’impegno è di “fare l’Opus Dei, e per questo anzitutto essere personalmente Opus Dei”. Tutto questo comporta ovviamente la collaborazione del sacerdozio ministeriale, senza il quale la vita cristiana non c’è né può mai esserci», J. L. ILLANES, Nella Chiesa e nel mondo, cit., p. 212.

Romana, n. 36, Gennaio-Giugno 2003, p. 176-188.

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