envelope-oenvelopebookscartsearchmenu

Comunicazione al Convegno per il 30º anniversario del decreto “Presbyterorum Ordinis” (24-X-1995).

IL SACERDOTE MINISTRO DI SANTIFICAZIONE

«La funzione dei presbiteri, in quanto strettamente unita all’ordine episcopale, partecipa dell’autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio Corpo»[1]. È assai opportuno, nel 30º anniversario della sua promulgazione, prendere spunto da queste parole del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis per trattare del ministero di santificazione del sacerdote. Esse infatti ci collocano nella prospettiva più adeguata, quella cioè che mette in primo piano l’opera santificatrice di Cristo, al cui servizio si pone il ministero sacerdotale.

L’argomento sospinge la nostra riflessione al cuore del mistero del sacerdozio e nel nucleo vitale stesso della realtà della Chiesa come comunione. Desidererei perciò esordire esplicitando una considerazione forse scontata, ma a tutti noi assai cara, perché da essa scaturisce anche la decisione da cui sappiamo derivare tutto il senso della nostra vita. La missione del sacerdote, in quanto ministro di santificazione, si dispiega nella pienezza delle proprie virtualità d’edificazione della Chiesa solo se il presbitero, toccato nella profondità del proprio essere da questa specifica chiamata che lo identifica sacramentalmente con Cristo Sacerdote, sa esprimere in tutti gli aspetti della sua vita la totalità del sì pronunciato un giorno al dono di Dio. La missione ricevuta, e consapevolmente assunta, lo chiama a fare della propria esistenza un continuo olocausto d’amore. Il Santo Padre Giovanni Paolo II ha definito il rapporto intimo e continuo del sacerdote con Cristo come «un incontro personale, vivo, a occhi spalancati, con cuore palpitante»[2]. Cercare la santità per santificare: a questo ci obbliga il nostro ministero. Di qui che la prima cura del sacerdote debba rivolgersi anzitutto alla sua stessa vita spirituale.

Dimensioni fondamentali del sacerdozio ministeriale

Gli stretti limiti di una comunicazione consigliano di sviluppare l’argomento proposto riducendo all’essenziale i punti di riferimento. Il summenzionato decreto ne fornisce parecchi, poiché tratta del ministero santificatore del presbitero in diversi paragrafi e, soprattutto, dedica ad esso l’intero n. 5. Tuttavia è nel quarto capoverso del n. 2 che la dottrina conciliare al riguardo raggiunge il massimo vertice prospettico e di comprensione. Lo prenderò pertanto come guida della presente esposizione, premettendo però l’esame di una precedente affermazione, anch’essa fondamentale, del medesimo decreto.

Com’è noto, il n. 2 del decreto, nelle intenzioni dei Padri conciliari, è una risposta all’interrogativo sulla natura del presbiterato. Nel primo capoverso esso ne delinea la cornice corretta, quella cioè della partecipazione di tutti i fedeli alla missione della Chiesa, perché tutti formano un sacerdozio santo e regale. Ed in questa cornice inquadra l’istituzione del sacerdozio ministeriale: «Ma lo stesso Signore (...) promosse alcuni di loro [dei fedeli] come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero il sacro potere dell’ordine per offrire il Sacrificio e perdonare i peccati, e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale (publice) la funzione sacerdotale»[3]. Questo testo proviene quasi completamente dalle due ultime stesure del decreto[4]e il suo iter redazionale mostra con quanta cura è stato redatto, sicché ogni termine usato risponde a intenti ben precisi.

Questo ministero è sacerdotale e viene caratterizzato, anzitutto, come esercizio in modo pubblico del sacerdozio in nome di Cristo. La Commissione conciliare incaricata di redigere il decreto chiarì che il vocabolo publice «è espressione formale e adatta a distinguere il sacerdozio dei ministri dal sacerdozio personale e privato di tutti i fedeli»[5]. Il mio carissimo predecessore, S.E.R. Mons. Álvaro del Portillo, che fu Segretario della suddetta Commissione, fece osservare che il termine publice aveva dei precedenti, alla luce dei quali andava inteso: egli si riferiva sia alla definizione con cui il Concilio di Trento aveva caratterizzato il sacerdozio del sacramento dell’ordine come «visibile ed esterno»[6], sia a san Tommaso, il quale contrapponeva il sacerdote come «persona pubblica» al laico come «persona privata»[7].

L’altra caratteristica del ministero sacerdotale indicata dal testo che esaminiamo è la potestà, conferita dall’ordine, di celebrare il Sacrificio dell’Eucaristia e di perdonare i peccati nel sacramento della penitenza. Qui il decreto rimanda al primo capitolo e al primo canone del decreto dogmatico del Concilio di Trento sul sacramento dell’ordine[8]. In questo modo tale potestà appare descritta attraverso i suoi atti più rilevanti, rispetto ai quali ogni potere umano è assolutamente incapace e, nello stesso tempo, viene precisato che essa, in quanto posta pro hominibus, per gli uomini, è sostanzialmente potestà di santificazione[9].

Queste due caratteristiche del ministero sacerdotale definiscono le dimensioni fondamentali dell’essere «veri sacerdoti del nuovo testamento», come la costituzione Lumen gentium insegna circa i presbiteri[10]. Con questa premessa possiamo intraprendere l’esame del quarto capoverso del n. 2 del Presbyterorum Ordinis. Esso è formato da cinque periodi. I tre primi provengono dalla penultima stesura e sono stati introdotti allo scopo preciso di porre bene in luce il valore sacerdotale del ministero dei presbiteri, in quanto fondato sulla missione apostolica, partecipazione della missione di Cristo, il quale la compie attraverso i sacri ministri[11].

Ministero sacerdotale per il sacrificio spirituale dei fedeli

«Dato che i presbiteri hanno una loro partecipazione nella funzione (munus) degli Apostoli, ad essi è concessa da Dio la grazia per poter essere ministri di Cristo Gesù fra i popoli mediante il sacro ministero del vangelo, affinché l’oblazione dei popoli sia accetta, santificata nello Spirito Santo». Questo è il primo periodo del suddetto capoverso, che in nota rimanda a Rm 15, 16 secondo l’originale greco. Il munus degli Apostoli come partecipazione nella missione di Cristo, quella ricevuta dal Padre, è enunciato poco prima nello stesso numero[12]. Dallo studio teologico della missione del Figlio di Dio potremmo dedurre il contenuto, il fine e i destinatari della missione apostolica[13], ma non ce n’è bisogno, perché il testo stesso che stiamo considerando offre la sintesi del ministero presbiterale fondato sulla partecipazione in tale missione. Essa viene delineata con parole prese da Rm 15, 16, dove San Paolo presenta se stesso come minister Christi Iesu ad gentes, consecrans evangelium Dei, ut fiat oblatio gentium accepta, sanctificata in Spiritu Sancto[14]. Il Concilio estende ai presbiteri ciò che l’Apostolo delle genti dice di sé.

San Paolo adopera un vocabolo inusitato in lui per definire se stesso, quello di leitourgós, che di per sé ha il significato generico di servitore, ministro, ma al quale le parole che seguono attribuiscono un senso sacrale, poiché egli è un ministro che compie un’azione cultuale, dai connotati sacrificali[15], il cui oggetto è «il vangelo di Dio», conformemente all’espressione presente all’inizio della medesima lettera: «Quel Dio, al quale rendo culto (latreúô) nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo» (Rm 1, 9). Perciò la frase del decreto sacro Evangelii munere fungentes corrisponde esattamente alle parole dell’Apostolo.

Mentre in Rm 1, 9 la natura cultuale dell’azione è vista soprattutto nel soggetto che la compie, nelle sue disposizioni interiori, qui invece, in Rm 15,16, il senso cultuale appare derivato dal termine dell’azione: ut fiat oblatio gentium accepta, sanctificata in Spiritu Sancto. Il ministero dei presbiteri, come quello di San Paolo, mira a questo: che i popoli[16], accogliendo il vangelo, diventino un sacrificio spirituale gradito a Dio, poiché santificato nello Spirito e dallo Spirito. Questo è il nucleo della missione sacerdotale: la glorificazione di Dio attraverso la santificazione degli uomini. Mons. del Portillo ravvisa in questo testo conciliare l’espressione più significativa dello sforzo di sintesi tra le due posizioni emerse durante i dibattiti conciliari: da una parte, quella che insisteva sull’annuncio del messaggio di Cristo a tutti gli uomini; dall’altra, quella che poneva l’accento sul culto e sull’adorazione di Dio[17]. Il prosieguo del testo chiarisce come avviene tale sintesi nel ministero sacerdotale.

«È infatti (enim) proprio per mezzo dell’annuncio apostolico del vangelo che il popolo di Dio viene convocato e adunato, in modo che tutti coloro che appartengono a questo popolo, poiché sono santificati con lo Spirito Santo, possano offrire se stessi come “ostia viva, santa, accetta a Dio” (Rm 12, 1)». Questo secondo periodo, come evidenziato dall’enim, viene introdotto a spiegazione del precedente e, in particolare, delle sue due ultime proposizioni, quella participiale e quella finale.

L’annuncio del vangelo è qui definito “apostolico”, perché si riferisce non alla diffusione del messaggio cristiano di cui tutti i fedeli sono responsabili, bensì all’annuncio del vangelo proprio del munus Apostolorum di cui partecipano i presbiteri. Esso comprende non soltanto la comunicazione della verità del vangelo ai non credenti, ma anche la predicazione ai fedeli. La convocazione e l’adunazione del popolo di Dio per mezzo del ministero della parola avvengono sia con l’incorporazione alla Chiesa mediante l’accoglimento credente dell’annuncio evangelico, suggellato dalla ricezione del battesimo, sia con la continua edificazione della comunità dei fedeli nutrita dal pane della parola di Dio, nutrimento vivo che culmina nella comunione col Corpo di Cristo, vero Pane di vita eterna.

Non si tratta una qualsiasi adunazione indeterminata, indistinta, bensì di quella che ha come scopo la trasformazione dei fedeli in offerta viva a Dio, in Cristo e con Cristo[18]. Questo è possibile perché essi sono santificati con lo Spirito Santo ricevuto come dono nel battesimo. L’offerta di se stessi è il sacrificio spirituale descritto con le parole di San Paolo: «ostia (thusían) viva, santa, accetta a Dio» (Rm 12, 1). Il vocabolario è chiaramente cultuale sacrificale, come confermato dallo stesso San Paolo, che soggiunge: «è questo il vostro culto (latreían) spirituale». Ci troviamo dunque nel nucleo stesso della vita cristiana, fatta di fede, speranza e carità, interamente rivolta a Dio, dedicata a lui. Questo è il fine del servizio dei presbiteri ai fedeli. Il modo in cui essi contribuiscono al sacrificio spirituale dei fedeli viene spiegato nel passo successivo.

Il sacrificio spirituale dei fedeli giunge a pieno compimento per mezzo del sacerdote che celebra il sacrificio eucaristico

«È attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto (consummatur), perché unito al sacrificio di Cristo, unico Mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell’Eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore». Qui interviene il ministero dei presbiteri e, nelle intenzioni del Concilio, il testo distingue accuratamente due momenti: nel primo i fedeli offrono spiritualmente se stessi a Dio, sia mentalmente che con le opere, e già in tale offerta si verifica una congiunzione interna col sacrificio eucaristico; nel secondo i presbiteri, con la celebrazione della Messa, fanno sì che il sacrificio spirituale dei fedeli si congiunga sacramentalmente col sacrificio di Cristo[19] e, in questo modo, esso giunga a pieno compimento[20].

Circa la congiunzione sacramentale del sacrificio spirituale dei fedeli col sacrificio di Cristo, il Concilio precedentemente aveva insegnato: «Partecipando al Sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con essa»[21], e in nota rimandava all’enciclica Mediator Dei di Pio XII, in particolare alle pagine in cui spiega come tutti i fedeli partecipano al Sacrificio eucaristico e offrono la divina Vittima per mezzo del sacerdote celebrante e assieme a lui[22]. Essi non compiono la consacrazione, che viene realizzata solo dal sacerdote prout Christi personam sustinet, non vero prout christifidelium personam gerit[23], ma offrono il sacrificio per mezzo del sacerdote, in quanto questi agisce in persona Christi, di Cristo che è il Capo della Chiesa e compie l’offerta a nome di tutti. Inoltre essi l’offrono assieme col sacerdote perché uniscono la lode, la supplica, l’espiazione e l’azione di grazie propria con quelle del celebrante, anzi di Cristo stesso, sicché esse siano assunte ed espresse nell’offerta liturgica del sacerdote[24].

Il sacrificio spirituale dei fedeli comprende tutta la loro vita. Come insegna lo stesso Concilio, a proposito dei laici: «Tutte infatti le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2, 5); e queste cose nella celebrazione dell’eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme all’oblazione del corpo del Signore»[25]. Esse acquistano così un valore smisuratamente superiore: quello del sacrificio di Cristo che fa propria l’offerta spirituale delle sua membra. E ciò avviene perché il sacrificio di Cristo è sacramentalmente presente sull’altare per mezzo dell’azione ministeriale dei presbiteri.

Ed allo scopo di chiarire che quanto appena detto in modo così stringato, in questo passo del decreto Presbyterorum Ordinis, è il fine dell’attività ministeriale dei presbiteri, il testo aggiunge un’ulteriore asserzione, breve nella formulazione ma densa di conseguenze pratiche per la vita sacerdotale: «A ciò tende e in ciò trova la sua perfetta realizzazione il ministero dei presbiteri». Qui è enunciato un principio ordinatore del ministero presbiterale, in perfetta continuità con quanto un anno prima il Concilio aveva insegnato dogmaticamente: «Ma soprattutto [i presbiteri] esercitano la loro funzione sacra (suum munus sacrum maxime exercent) nel culto o assemblea eucaristica»[26]. Poi il decreto tornerà a ribadire questo principio nel capitolo sulla vita dei presbiteri: «Nel mistero del sacrificio eucaristico, in cui i sacerdoti svolgono la loro funzione principale, viene esercitata ininterrottamente l’opera della nostra redenzione, e quindi se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana»[27]; «questa carità pastorale scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta quindi il centro e la radice di tutta la vita del presbitero»[28]. Da ciò appare quanto ben fondato sia l’insegnamento del Santo Padre secondo cui l’Eucaristia «è la principale ragion d’essere del sacramento del sacerdozio»[29].

Dimensione universale del ministero eucaristico dei sacerdoti

Il brano del decreto conciliare che stiamo analizzando si conclude con un periodo parallelo al secondo sopra esaminato: «Infatti il loro servizio, che comincia con l’annuncio del vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo, e ha come scopo che “tutta la città redenta, cioè la riunione e società dei santi, si offra a Dio come sacrificio universale per mezzo del gran sacerdote, il quale ha anche offerto se stesso per noi nella sua passione, per farci diventare corpo di così eccelso capo”». La citazione è tratta da Sant’Agostino[30].

Questo passo viene addotto a spiegazione del precedente, come risulta dalla congiunzione iniziale «infatti, enim», e perciò l’asserzione secondo cui il servizio (ministratio) dei presbiteri deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo è da intendersi non soltanto in senso generico, valido per la vita di ogni cristiano, bensì in senso riferibile specificamente al ministero sacerdotale: dal sacrificio eucaristico i sacerdoti attingono la forza e l’efficacia necessarie sia per la propria vita spirituale che per le singole azioni del loro ministero.

La citazione di Sant’Agostino fu introdotta nello schema De ministerio et vita Presbyterorum, distribuito ai Padri conciliari il 20 novembre 1964[31], senza che la relazione sul relativo numero ne fornisse un qualche commento[32], e così passò ai successivi schemi fino al testo finale. Il contesto del De Civitate Dei in cui si trova inserita si riferisce al sacrificio spirituale dei fedeli e non contiene accenni all’Eucaristia. Tuttavia la prospettiva eucaristica non ne è assente, poiché poche righe più avanti, alla fine del medesimo capitolo 6, il Santo Vescovo d’Ippona menziona il sacrificio eucaristico con un’affermazione stupenda: «Questo è il sacrificio dei cristiani: i molti formano un unico corpo in Cristo. Esso è costantemente celebrato dalla Chiesa nel sacramento dell’altare, come sanno i fedeli, nel quale le si rivela che in ciò che offre essa stessa è offerta»[33].

Inserite nel testo conciliare, le parole di Sant’Agostino collocano il ministero eucaristico dei presbiteri in quella che è la sua autentica prospettiva universale: non soltanto attraverso di esso giunge a compimento il sacrificio spirituale dei fedeli che partecipano alla celebrazione della Messa, ma è tutta la Chiesa che vi si trova coinvolta. L’oblazione sacerdotale congiunge al sacrificio di Cristo il sacrificio spirituale di tutte e di ciascuna delle membra del Corpo mistico. Lo esprimeva molto efficacemente il beato Josemaría Escrivá: «Quando celebro la santa Messa con la sola partecipazione di colui che mi aiuta, anche allora il popolo è presente. Sento accanto a me tutti i cattolici, tutti i credenti e anche quelli che non credono. Sono presenti tutte le creature di Dio —la terra, il cielo, il mare, gli animali e le piante—: è la Creazione intera che dà gloria al Signore»[34].

Ministero della riconciliazione

Nel secondo capoverso del n. 2 del decreto Presbyterorum Ordinis, il sacerdozio ministeriale è caratterizzato sia dal potere di offrire il sacrificio eucaristico che dal potere di perdonare i peccati. Nel quarto capoverso, sul quale si è concentrata la nostra analisi, non viene fatto cenno esplicito al sacramento della penitenza, perché il ministero dei presbiteri viene visto nella prospettiva del suo fine, in quanto orientato verso l’Eucaristia come proprio centro e apice. Tuttavia la luce della dottrina di questo capoverso risplende sullo sfondo delle ombre del peccato, luci e ombre che compongono il quadro della vita cristiana nel tempo intermedio della Chiesa.

Così come il ministero eucaristico dei presbiteri è finalizzato a consentire che tutti i fedeli si congiungano al sacrificio di Cristo, divenendo essi stessi sacrificio spirituale a Dio gradito, anche il ministero sacerdotale della riconciliazione è ordinato allo stesso fine, ma rimuovendo l’ostacolo principale costituito dal peccato e, più ancora, configurando i fedeli con Cristo, il quale ha espiato per i peccati del mondo secondo il giudizio del Padre. Possiamo perciò giustamente citare le parole di Giovanni Paolo II: «L’Eucaristia e la penitenza diventano così, in un certo senso, una dimensione duplice e, insieme, intimamente connessa dell’autentica vita secondo lo spirito del vangelo, vita veramente cristiana. Cristo che invita al banchetto eucaristico, è sempre lo stesso Cristo che esorta alla penitenza, che ripete il “Convertitevi”. Senza questo costante e sempre rinnovato sforzo per la conversione, la partecipazione all’Eucaristia sarebbe priva della sua piena efficacia redentrice, verrebbe meno o, comunque, sarebbe in essa indebolita quella particolare disponibilità di rendere a Dio il sacrificio spirituale, in cui si esprime in modo essenziale e universale la nostra partecipazione al sacerdozio di Cristo»[35].

Naturalmente il Presbyterorum Ordinis nel n. 5, dedicato a descrivere l’esercizio del munus sanctificandi da parte dei presbiteri, si riferisce —lo fa due volte— al sacramento della penitenza. Ed anche più avanti, nel n. 13, ove tratta del raggiungimento della santità attraverso l’esercizio del triplice munus sacerdotale, non manca di insegnare che i presbiteri si uniscono all’intenzione e alla carità di Cristo particolarmente nell’esercizio della sacramento della penitenza. Ma la prospettiva di fondo è quella data dal quarto capoverso del n. 2, benché esso non accenni a questo sacramento. Il ministero di santificazione dei presbiteri è al servizio dei fedeli non limitatamente al minimo essenziale: esso va ben oltre e si spinge fino alle vette della santità. Una conclusione, questa, che appare necessaria proprio in considerazione del suo fine: far sì che tutta la Chiesa sia offerta a Dio come sacrificio universale per mezzo di Cristo, suo Capo e Sposo.

Su questo cammino di santità, che tutti siamo chiamati a percorrere, ci sovviene l’aiuto materno di Maria. «La Madonna —ha scritto il Beato Josemaría Escrivá— ci insegna a metterci in rapporto con Gesù, a cercarlo e a riconoscerlo nelle diverse circostanze della giornata e, in modo particolare, in questo istante supremo —in cui il tempo si unisce con l’eternità— del Santo Sacrificio della Messa: Gesù con gesto di sacerdote eterno attrae a sé tutte le cose, per porle, divino afflante Spiritu, con il soffio dello Spirito Santo, alla presenza di Dio Padre»[36].

[1] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum Ordinis, n. 2c.

[2] GIOVANNI PAOLO II, Omelia nella cattedrale di Santo Domingo, 26-I-1979.

[3] Presbyterorum Ordinis, n. 2b.

[4] Cfr. Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, Typis Polyglottis Vaticanis, vol. IV, pars VI, p. 346.

[5] Acta Synodalia..., vol. IV, pars VII, p. 119, modus n. 19.

[6] Cfr. sess. 23a, can. 1 de Sacramento Ordinis: DS 1771.

[7] Cfr. In Sent. IV, d. 23, q. 2, a. 1, s. 1, ad 1; A. DEL PORTILLO, Influencia de Santo Tomás en la doctrina del Concilio Vaticano II sobre el sacerdote y su ministerio, in IDEM, Rendere amabile la verità. Raccolta di scritti, Ateneo Romano della Santa Croce — Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995, p. 328.

[8] Cfr. DS 1764, 1771.

[9] Il riferimento al potere sacerdotale nei sacramenti dell’Eucaristia e della penitenza fu introdotto nell’ultima stesura del decreto sia per evitare che il potere sacerdotale venisse intenso in senso solo umano, con un’interpretazione esclusivamente funzionale dell’avverbio publice, sia per sottolineare sin dal primo passo l’importanza del ministero eucaristico dei presbiteri (cfr. Acta Synodalia... vol. IV, pars VII, pp. 117-119, modi nn.13 et 19).

[10] Lumen gentium, n. 28a.

[11] È quanto risulta dalla relazione esplicativa dei particolari del testo (cfr. Acta Synodalia... vol. IV, pars VI, p. 390; il testo dello schema che ci interessa si trova a p. 347), nonché dalla relazione generale presentata da Mons. Marty (cfr. ibid., p. 342).

[12] «Pertanto, dopo aver inviato gli Apostoli come egli stesso era stato inviato dal Padre, Cristo, per mezzo degli stessi Apostoli, rese partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i vescovi, la cui funzione ministeriale fu trasmessa in grado subordinato ai presbiteri, affinché questi, costituiti nell’ordine del presbiterato, fossero cooperatori dell’ordine episcopale, per il retto assolvimento della missione apostolica affidata da Cristo» (Presbyterorum Ordinis, n. 2b).

[13] La costituzione dogmatica Lumen gentium, che sta alla base del decreto Presbyterorum Ordinis, fornisce gli elementi sufficienti per tale studio, a partire dal n. 3, dedicato proprio ad esporre la missione del Figlio.

[14] Cito secondo la Neovulgata. Per l’interpretazione di questo versetto e le questioni da esso sollevate, cfr. J. PONTHOT, L’expression cultuelle du ministère paulinien selon Rom 15, 16, in A. VANHOYE (ed.), L’Apôtre Paul: personnalité, style et conception du ministère, Leuven University Press — Uitgeverij Peeters, Leuven 1986, pp. 254-262.

[15] Cfr. G. SCHRENK, «ierougéw», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, IV, Paideia, Brescia 1968, coll. 823-826.

[16] L’originale latino del decreto parla di gentes e con ciò intende indicare tutti gli uomini, sia fedeli che non cristiani, come chiaramente risulta dalla risposta della Commissione conciliare alla proposta di due Padri di sostituire in gentibus con omni creaturæ: «Non admittitur. Sunt enim verba ipsius S. Pauli. Nec argui potest ex hoc quod in Decreto De activitate missionali Ecclesiæ, vox “gentes” designat paganos, quia adhibetur in alio contextu, in alio schemate, quin pagani excludantur a præsenti consideratione» (Acta Synodalia..., vol. IV, pars VII, p. 122, modus n. 28).

[17] Cfr. A. DEL PORTILLO, Consacrazione & missione del sacerdote, seconda edizione ampliata, Ares, Milano l990, pp. 26-27.

[18] La traduzione «possano offrire se stessi» non corrisponde bene al testo promulgato, che recita «seipsos offerant». Nella penultima stesura appariva l’espressione «offerre possint», poi modificata in seguito al modo di un Padre: «Loco “possint”, dicatur “debent”. Ratio est ut melius respondeatur verbis S. Pauli dicentis “Obsecro...” (Rom 12,1)». La Commissione conciliare rispose: «Modus, sicut proponitur, non accipitur, quia est alia idea. Dicatur tamen: “seipsos offerant» (Acta Synodalia... vol. IV, pars VII, p. 123, modus n. 32). Il testo conciliare non è parenetico e perciò non parla in termini di dovere, ma nemmeno in termini di semplice possibilità: senza il sacrificio spirituale dei fedeli, l’adunazione del popolo di Dio verrebbe vanificata.

[19] Che vi sia stata l’intenzione precisa di distinguere questi due momenti risulta palesemente dalle risposte della Commissione conciliare a due modi circa la penultima stesura. Nella prima, spiegando perché il modo non veniva accolto, si diceva: «sic non congrue distinguerentur duo gradus: primus, in quo fideles ipsi sese Deo offerunt hostiam viventem, etc. (Rm 12, 1; 15, 16), alter in quo Presbyteri agunt ita ut sacrificium spirituale fidelium coniungi possit sacramentaliter pleneque Sacrificio Christi» (Acta Synodalia..., vol. IV, pars VII, p. 122, modus 30). L’altro modo fu accettato ad mentem, ed era così formulato: «Dicatur: “... Rm 12, 1). Per Presbyterorum autem ministerium sacrificium spirituale fidelium consummatur in unione cum sacrificio Christi, unici Mediatoris, quod per manus eorum, nomine totius Ecclesiæ, in Eucharistia incruente et sacramentaliter offertur, donec...”. Textus emendatus denuo emendari debet. Etenim: a) spirituale sacrificium fidelium iam ante celebrationes Missarum coniungitur cum sacrificio Christi, scilicet mentaliter et ipsis fidelibus operantibus; hæc coniunctio vero consummatur in celebratione SS. Eucharistiæ a Presbyteris facta una cum fidelibus; b) utile videtur hic adiungere Presbyteros nomine Ecclesiæ offerre, quia hoc a Concilio Tridentino dicitur, et rationem præbet propter quam sacrificia spiritualia fidelium cum Eucharistia coniungi possint ac debeant» (ibid., pp. 122-123, modus 31).

[20] La traduzione di consummatur come «viene reso perfetto» potrebbe far pensare che l’oblazione spirituale che di se stessi fanno i fedeli sia imperfetta, perciò è meglio tradurre come «giunge a pieno compimento».

[21] Lumen gentium, n. 11a.

[22] Cfr. AAS 39 (1947), p. 552 s. Il tema viene sviluppato nelle pp. 552-558.

[23] Ibidem, p. 555.

[24] Cfr. ibid., p. 556.

[25] Lumen gentium, n. 34b.

[26] Lumen gentium, n. 28a.

[27] Presbyterorum Ordinis, n. 13c.

[28] Presbyterorum Ordinis, n. 14b.

[29] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Dominicæ cenæ, 24-II-1980, n. 2: EV 7, n. 156.

[30] De Civitate Dei, 10, 6: PL 41, 284; senza varianti la si trova anche nell’edizione di CCL 47, p. 279.

[31] Cfr. Acta Synodalia..., vol. IV, pars IV, p. 835.

[32] Cfr. ibid., pp. 863-864.

[33] «Hoc est sacrificium Christianorum: multi unum corpus in Christo. Quod etiam sacramento altaris fidelibus noto frequentat ecclesia, ubi ei demonstratur, quod in ea re, quam offert, ipsa offeratur» (De Civitate Dei, 10, 6: CCL 47, p. 279).

[34] J. ESCRIVÁ, La Chiesa nostra Madre. Omelie, seconda edizione ampliata, Ares, Milano 1993, p. 78 (Omelia Sacerdote per l’eternità, 13 aprile 1973).

[35] Enc. Redemptor hominis, n. 20: EV 6, n. 1254.

[36] J. ESCRIVÁ, È Gesù che passa, 5 ed., Ares, Milano 1988, n. 94.

Romana, n. 21, Luglio-Dicembre 1995, p. 371-378.

Invia ad un amico