Discorso di S.E. Mons. Alvaro del Portillo, Gran Cancelliere dell'Ateneo Romano della Santa Croce, per l'inaugurazione dell'anno accademico 1991_1992 (30_X_1991).
Eminentissimi ed Eccellentissimi Signori, autorità accademiche, professori, studenti e personale non docente dell'Ateneo Romano della Santa Croce, Signore e Signori.
Il Segretario Generale ricordava poc'anzi nella sua relazione gli eventi più rilevanti della vita accademica dell'Ateneo durante l'ultimo anno.
Per un disegno della divina provvidenza, l'Ateneo è nato ed ha mosso i suoi primi passi in un contesto di singolare importanza storica. Sono in molti, infatti, a considerare questo tempo come l'inizio di una nuova era della storia.
Un aspetto, forse il più esteriore, dei segni dell'epoca attuale è costituito dagli avvenimenti sociali e politici che stiamo vivendo in questi ultimi anni. Tutti noi seguiamo le cronache del processo in corso nei paesi del Centro e dell'Est europeo, con sentimenti di attesa fiduciosa e di solidarietà, da cui scaturisce spontaneamente la preghiera. Ma non si tratta di mutamenti storici geograficamente circoscritti, bensì di una svolta che possiamo definire epocale e che richiede il fattivo impegno della generazione presente.
Questa stessa mescolanza di gioia, fiducia e senso di responsabilità, ho potuto percepirla nel mese di agosto, a Czestochowa, mentre partecipavo alla VI Giornata Mondiale della Gioventù presieduta da Giovanni Paolo II. L'atmosféra che si respirava era appunto di una profonda gioia e di una speranza permeate dalla piena consapevolezza di essere alle soglie di una nuova epoca. Durante l'omelia, rivolgendosi al numeroso gruppo di giovani provenienti dall'Est europeo presenti tra quella moltitudine, Giovanni Paolo II ha esclamato con forza: "Oggi, finalmente, è giunta la vostra ora!" Ma nel contempo non ha tralasciato di fare appello alla responsabilità di tutti i giovani ricordando l'urgenza del compito che ci attende: ricostruire, non solo ad Est ma anche ad Ovest, le solide basi spirituali e culturali, sulle quali deve sostenersi la società del terzo millennio.
Seguendo l'invito del Maestro: euntes docete omnes gentes, tutti noi siamo chiamati a collaborare alla ricristianizzazione della società. A voi, professori e studenti delle scienze sacre, compete pure in prima persona un peculiare dovere in questo sforzo comune di tutti i cristiani.
Gli stessi cambiamenti politici e sociali dei paesi dell'Europa centrale ed orientale, la libertà appena conquistata da milioni di persone —cambiamenti che peraltro percepiamo in modo diretto nella vita dell'Ateneo, grazie alla presenza di numerosi studenti provenienti da questi paesi—, sono certamente un motivo di conforto, ma sono anche un invito a ravvivare il nostro senso di responsabilità. Questa è la grandezza perenne del Vangelo, della missione affidata alla Chiesa, dell'obbligo che a tutti i cattolici incombe di essere apostoli: muteranno le circostanze sociali, storiche, morali, ma mai scadrà l'attualità portata da Gesù Cristo di trasformare, di elevare all'ordine soprannaturale il tempo in cui viviamo.
I problemi degli uomini possono trovare la loro giusta soluzione solo se vengono affrontati con la prospettiva adeguata, partendo da un'antropologia che comprenda l'uomo nella sua piena dimensione. Perché, come afferma ancora una volta Giovanni Paolo II nella sua recente enciclica Centesimus annus, "solo la fede (...) rivela pienamente (all'uomo) la sua vera identità"[1].
Comprendete perché all'inizio dell'anno accademico ho considerato opportuno ricordarvi quale panorama sconfinato si schiude dinanzi a voi, studiosi delle scienze sacre. Il vostro lavoro intellettuale non può restare estraneo alla responsabilità di collaborare al rinnovamento della cultura nel mondo. "La dimensione teologica risulta necessaria sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana"[2]. Con queste parole scritte da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus viene indicata con estrema chiarezza la portata del vostro impegno accademico. Anche quando vi occupate di questioni apparentemente —solo apparentemente— lontane dai concreti problemi dell'esistenza umana, non perdete mai di vista l'ampio orizzonte in cui esse vanno inquadrate, nonché la relazione che intercorre tra il vostro studio e tali problemi, in sostanza, la dimensione di servizio a Dio, alla Chiesa ed agli uomini che siete chiamati a prestare.
Nell'omelia della Santa Messa celebrata dal Santo Padre l'anno scorso per l'inaugurazione dell'anno accademico delle università ecclesiastiche, il Papa ha ricordato la stretta relazione che esiste tra la formazione e la "trasformazione". Lo studio, la formazione intellettuale, proprio perché è un'attività vitale, coinvolgente tutta la persona, deve trasformare la persona, facendo della conoscenza acquisita su Dio, il mondo e l'uomo, la guida dell'intera condotta. "La formazione —diceva il Santo Padre— è una partecipazione creativa all'agire redentore di Dio"[3]. Partecipazione creativa in quanto attraverso di essa, l'uomo diventa più uomo, impegnando le proprie capacità, e partecipazione all'agire redentore di Dio, poiché con il proprio agire l'uomo può e deve collaborare con Lui alla redenzione, alla liberazione dalla corruzione, dal peccato, restaurando nel mondo l'armonia divina impressa dal suo Creatore.
Vorrei terminare questo breve discorso proponendo alla vostra considerazione l'esempio, per me estremamente vivo e caro, del Venerabile Josemaría Escrivá, Fondatore dell'Opus Dei, alla cui beatificazione, ormai così prossima, ci prepariamo con tanta gioia e gratitudine al Signore. Dalle sue labbra ho appreso ciò che costituisce il nucleo e la finalità dello spirito che Dio volle trasmettergli e che in una delle sue omelie esprimeva con queste parole: "Gesù stesso ricorda a tutti: Et ego si exaltatus fuero a terra omnia traham ad meipsum[4], quando mi collocherete al vertice di tutte le attività della terra, compiendo il dovere di ogni momento ed essendo miei testimoni nelle cose grandi e piccole, allora omnia traham ad meipsum, attrarrò tutto a me, e il mio regno in mezzo a voi sarà una realtà (...).
A tutto ciò siamo stati chiamati noi cristiani, questo è il nostro compito apostolico e l'ansia che deve consumarci interiormente: far sì che il regno di Cristo divenga realtà, che non ci sia più odio né crudeltà, e che si estenda per tutta la terra il balsamo forte e pacifico dell'amore"[5].
Questa è stata la ragione per cui ho scelto come stemma episcopale la Croce di Cristo inscritta nel mondo e come lemma le parole evangeliche: regnare Christum volumus! Vorrei che questo fosse anche un vostro anelito, che questa breve frase, che è tutto un programma di vita, illumini il vostro impegno accademico, incitandovi a conoscere e ad amare Dio, a trasformarvi in Cristo per redimere con Lui: "Ognuno di noi —continuava il Fondatore dell'Opus Dei— dev'essere alter Christus, ipse Christus, un altro Cristo, lo stesso Cristo. Allora potremo intraprendere l'impresa grande, immensa, illimitata, di santificare dal di dentro tutte le strutture temporali portando in esse il fermento della Redenzione"[6].
Lascio tutte queste nostre ambizioni spirituali, apostoliche, formative, nelle mani della Madonna Sedes Sapientiae, e nell'invocare su tutti noi l'assistenza dello Spirito Santo, dichiaro inaugurato il presente anno accademico 1991-1992.
[1] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 54
[2] O. c., n. 55
[3] Giovanni Paolo II, Omelia per l'inaugurazione dell'Anno Accademico delle Università ecclesiastiche, 24_X_1990, in La Traccia, 1139/X
[4] Gv 12, 32
[5] J. Escrivá de Balaguer, omelia Cristo Re, in E' Gesù che passa, Ares, 3ª ed., Milano 1982, n. 183
[6] J. Escrivá de Balaguer, o. c., n. 183
Romana, n. 13, Luglio-Dicembre 1991, p. 274-276.