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Libertà, filiazione divina e secolarità

José Ignacio Murillo

Università di Navarra

Quando si pensa alla religione, a tutto quello che si suole includere in questo termine, pochi pensano alla libertà. Nell’immaginario contemporaneo la religione è più che altro qualcosa di cui uno si può o, forse, si deve liberare. Lo si consideri un fenomeno positivo o negativo, la prima cosa che evoca sono gli obblighi che qualunque culto o determinate credenze impongono: lo pensiamo collegato all’obbedienza e alla rinuncia. Pertanto, ai nostri contemporanei sembra strano che la fede cristiana — che è quella che, sebbene lontanamente e confusamente, ha come referente la cultura occidentale — si sia presentata, in realtà, fin dal principio, come una liberazione. Che ciò avvenga è comprensibile perché il senso della libertà che possedevano e manifestavano i primi cristiani manca assai spesso tra coloro che vivono ai nostri giorni. A che si deve questo cambiamento? La nostra comprensione e la nostra esperienza della libertà si sono trasformate in qualche modo, fino a favorire o provocare questo malinteso?

Nella prelatura dell’Opus Dei la libertà non è solo qualcosa che si rispetta, ma occupa un posto di rilievo nella attività di evangelizzazione e nella vita dei suoi membri, fino al punto che è quasi impossibile descrivere il suo ruolo nella missione della Chiesa senza menzionarla esplicitamente. Di recente, il prelato dell’Opus Dei ha dedicato a questo argomento una lettera pastorale[1], in cui si fa eco dei numerosi insegnamenti di san Josemaría sulla libertà. Infatti, il fondatore dell’Opus Dei affermava in un documento che è necessario «formare cristiani pieni di ottimismo e di slancio, capaci di vivere nel mondo la loro avventura divina — compossessores mundi, non erroris (Tertulliano, De idolol. 14): possessori del mondo, con gli altri uomini, ma non dell’errore —; cristiani decisi a promuovere, difendere e tutelare gli interessi — gli amori — di Cristo nella società; che sappiano distinguere la dottrina cattolica da ciò che è semplicemente opinabile e che nell’essenziale facciano in modo di rimanere uniti e compatti; che amino la libertà e il conseguente senso di responsabilità personale»[2].

Questo articolo non intende realizzare uno studio esaustivo sul posto della libertà nello spirito dell’Opus Dei con tutte le sue conseguenze. Mi limiterò a mettere in rilievo la centralità che ha in esso la libertà e la coerenza che questa realtà ha con i suoi tratti essenziali[3].

Filiazione divina e secolarità

In un certo senso, penso che potremmo definire la vocazione all’Opus Dei come una chiamata alla santità, che si caratterizza esternamente con l’essere nel mondo — ossia, la secolarità — e internamente con l’essere radicata in un essenziale e profondo senso della filiazione divina. Così almeno si esprimeva il beato Álvaro del Portillo: «Santità nel mondo e, allo stesso tempo, radicata e nutrita all’interno di un essenziale e profondo senso della filiazione soprannaturale del cristiano in Cristo. Se il primo postulato — l’essere nel mondo — potrebbe definirsi come una qualità esterna definitoria della vocazione alla santità annunciata dal beato Josemaría Escrivá, il secondo — il suo radicarsi nel senso della filiazione divina — va inteso come la qualità interna definitoria per eccellenza, la più caratteristica, la più importante»[4]. Questa sottolineatura concorda con la chiara affermazione di san Josemaría secondo cui la filiazione divina o, come diceva altre volte, il senso della filiazione divina, è il fondamento della vita interiore di chi cerca la santità con lo spirito dell’Opus Dei[5].

Prenderò come guida questa «specie» di definizione, perché penso che le due caratteristiche che sottolinea permettono di organizzare in modo adeguato i diversi aspetti che costituiscono questa particolare vocazione, lo spirito che la anima e l’istituzione che la promuove e la preserva.

In sostanza, l’argomento di cui ci occupiamo, la libertà, è collegato esplicitamente con entrambe le qualità. Proporre la santità in mezzo al mondo significa asserire la condizione secolare di chi è chiamato a essa e la corrispondente mentalità laicale. Che cosa caratterizza la mentalità laicale? San Josemaría risponde così: «Libertà, figli miei, libertà, che è la chiave della mentalità laicale che abbiamo tutti nell’Opus Dei»[6]. E per confermare la profonda unione tra la filiazione divina e la libertà, basta considerare i suoi commenti alle parole di Gesù: “(...) Veritas liberavit vos (Gv 8, 32), la verità vi farà liberi. Qual è la verità che inizia e porta a compimento in tutta la nostra vita il cammino della libertà? Ve lo dirò sinteticamente con la gioia e la sicurezza che derivano dalla relazione fra Dio e le sue creature: sapere che siamo opera delle mani di Dio, che siamo prediletti dalla Santissima Trinità, che siamo figli di un Padre eccelso. Chiedo al Signore che ci aiuti a renderci conto di tutto questo, ad assaporarlo giorno dopo giorno: in questo modo agiremo da persone libere. Non dimenticatelo: chi non sa di essere figlio di Dio, non conosce la più intima delle verità che lo riguardano, e nel suo comportamento viene a mancare della padronanza e della signorilità che contraddistinguono coloro che amano il Signore al di sopra di tutte le cose”[7].

Questa intima connessione della libertà con il fondamento dello spirito dell’Opus Dei dimostra già da sola che la libertà permea tutte le dimensioni di questa particolare vocazione. Inoltre, proporla come chiave della secolarità, che è l’altro suo carattere essenziale, aggiunge alla nozione una nuova nota di interesse e sembra suggerire anche una indicazione per capire che relazione intercorre tra filiazione divina e secolarità, le due qualità che definiscono la vocazione all’Opus Dei.

La storia e lo sviluppo della coscienza di libertà

Lo spirito dell’Opus Dei vede la luce in un momento storico nel quale la libertà ha acquistato una tale importanza che si è arrivati a utilizzarla come categoria per spiegare il significato stesso della storia universale. Così, già per Hegel, «il fine ultimo del mondo è che lo spirito abbia coscienza della sua libertà e che in tal modo la sua libertà si realizzi»[8]. È il caso di sottolineare l’inatteso parallelismo tra questa affermazione e un’altra che è di san Giovanni Paolo II: «Alle soglie di un nuovo millennio siamo testimoni di una straordinaria e globale accelerazione di quella ricerca di libertà che è una delle grandi dinamiche della storia dell’uomo.

Questo fenomeno non è limitato a una singola parte del mondo, né è l’espressione di una sola cultura. Al contrario, in ogni angolo della terra uomini e donne, pur minacciati dalla violenza, hanno affrontato il rischio della libertà, chiedendo che fosse loro riconosciuto uno spazio nella vita sociale, politica ed economica a misura della loro dignità di persone libere.

Questa universale ricerca di libertà è davvero una delle caratteristiche che contraddistinguono il nostro tempo»[9]. Riassumendo questa ispirazione, il prelato dell’Opus Dei afferma: «La passione per la libertà, cui aspirano persone e popoli, è un segno positivo del nostro tempo»[10]. La consapevolezza che il progresso nella coscienza della libertà e nell’esigerne la realizzazione è un segno positivo dei tempi fa parte, dunque, di una comprensione cristiana della storia.

Questa presa di coscienza dell’importanza della libertà va unita alla secolarizzazione[11], intesa come il processo con il quale il mondo secolare ha preso coscienza della sua autonomia. La secolarizzazione, intesa come affermazione delle leggi che reggono spontaneamente le attività degli esseri umani e le loro reciproche relazioni, può essere considerata una conseguenza della affermazione della natura che, pur con qualche titubanza al momento di manifestarsi nel corso della storia, appare già presente sin dal principio nella vita cristiana e nella sua predicazione[12]. A questa convinzione si può attribuire, fra l’altro, almeno nella cultura occidentale, il riconoscimento dell’autonomia della politica, del diritto e della scienza, che ha permesso la comparsa delle società moderne[13].

In realtà, è comunemente accettato che, nel processo mediante il quale l’umanità prende coscienza della libertà, il cristianesimo ha un posto decisivo. Secondo alcuni, tuttavia, questo processo conduce necessariamente alla secolarizzazione intesa in un altro senso, forse il più comune nel discorso pubblico: l’emarginazione del fatto religioso e delle sue espressioni, che finisce con l’essere inteso come un requisito per realizzare una società pienamente libera. Quest’ultimo modo di comprendere la libertà comporta un lungo e complesso sviluppo storico.

Nel mondo antico la libertà (eleuthería) ha anzitutto una connotazione sociale e politica, vincolata alle leggi che reggono la polis. Non è libero chi è lontano dalla legge, ma chi è regolato da essa. L’uomo libero si contrappone così allo schiavo, che non è riconosciuto come cittadino a pieno diritto né partecipa del fine collettivo della polis e la cui attività è orientata ai fini di un altro. L’importanza del riconoscimento della legge spiega la gravità che si attribuisce alla condanna all’esilio, che priva l’esiliato della possibilità di manifestare la propria umanità. Costui è morto dal punto di vista sociale[14].

La filosofia socratica formula un nuovo senso della libertà, per cui ciò che oggi chiameremmo essere libero consiste anzitutto nel conoscere o, almeno, cercare il vero bene, al di là dei desideri immediati. Di conseguenza, ciò che più si oppone alla libertà è l’ignoranza. L’ispirazione socratica si traduce in diverse proposte per raggiungere il bene umano, che hanno come guida la ricerca razionale del vero bene e la determinazione, anch’essa razionale, dei mezzi adeguati per conseguirlo. Una di esse — estrema nelle sue manifestazioni, ma molto significativa, perché mette in evidenza la limitazione dell’ordinamento sociale e i pericoli che questo può comportare per la vita buona — è quella che incarna il movimento cinico, che propone di seguire le tendenze che si considerano naturali e di rifiutare quelle che ci impongono le convenzioni sociali.

Con l’ellenismo la polis perde indipendenza e rilevanza. Si prende coscienza che non è possibile ridurre l’umanità allo stretto ambito della propria società e che la legge di questa non può essere più concepita come la misura di ciò che è umano. In tale contesto, nel quale manca una norma sociale che valuti l’azione, gli stoici formulano, in continuità con la nozione di libertà morale socratica, la nozione di legge naturale. L’uomo non è concepito più, prima di tutto, come cittadino di una polis, ma come cittadino del cosmo e sottoposto alle leggi di quest’ultimo. Il riconoscimento razionale e l’accettazione di una legge superiore ci liberano dalla necessità di chi non è capace di ordinare i propri desideri in accordo con la realtà.

Secondo gli stoici, quello che può fare l’essere umano è accettare il destino, ciò che non possiamo cambiare, e comportarci in accordo con la natura, vale a dire, cercare l’accordo di tutte le tendenze con la parte più nobile dell’uomo, la ragione. In tale contesto, considerano la libertà come apátheia (assenza di passione) e ritengono che essa sia frutto della virtù, che è ciò che rende l’uomo signore di sé. Essere libero significa non trovarsi alla mercé delle passioni, che ci fanno perdere il controllo e ci abbassano a un livello inferiore, e non essere condizionati dagli avvenimenti esterni.

Ma è il cristianesimo che pone la libertà al centro della comprensione della realtà, quando afferma che Dio crea liberamente suscitando novità che, a loro volta, nel caso delle persone, possono accettare liberamente la propria condizione di creature e scegliere il loro destino: «La Creazione stessa è una manifestazione della libertà divina. I racconti della Genesi lasciano intravedere l’amore creatore di Dio, la sua gioia nel comunicare al mondo la propria bontà e bellezza (cfr. Gn 1, 31) e all’uomo la sua libertà (cfr. Gn 1, 26-29). Nel chiamare ognuno di noi all’esistenza, Dio ci ha reso capaci di scegliere e di volere il bene e di rispondere con amore al suo Amore»[15].

Essere libero equivale, per le persone umane, con capacità di corrispondere per propria iniziativa all’amore di Dio e, di conseguenza, anche con l’indipendenza da tutto ciò che può impedire la realizzazione del senso ultimo della libertà. La libertà umana è quindi il riflesso — l’immagine — della libertà di un Dio che è comunione d’amore di persone e che crea senza necessità alcuna, per un libero amore verso le sue creature.

La misura dell’uomo non è più essere il buon cittadino di una polis costituita secondo leggi umane, anche se l’ispirazione cristiana riprende e rafforza il carattere interpersonale implicito in quella antica concezione. È ciò che sant’Agostino chiama La Città di Dio. Una delle caratteristiche più rimarchevoli di questa nuova comunità — che si realizza misteriosamente nella storia, ma la cui piena realizzazione sarà escatologica — è che a essa sono chiamati ad appartenere tutti gli uomini.

Inoltre si riprende, dandole un senso nuovo, la concezione stoica della libertà come indipendenza da tutto ciò che è esteriore. Però essere libero non si riduce più a essere padrone di sé e a non essere condizionato dall’esterno; ora consiste nella possibilità di unirsi a Dio, il bene supremo, partecipando così al suo dominio sovrano sul cosmo. Offrendogli un destino — una destinazione, diremmo meglio, per distinguerla dal destino stoico —, Dio non obbliga l’essere umano a rinunciare alle sue più profonde aspirazioni, ma lo sprona a realizzarle: «Il senso della filiazione divina conduce a una grande libertà interiore, a una gioia profonda e al sereno ottimismo della speranza: spe gaudentes (Rm 12, 12). Sapere di essere figli di Dio ci fa anche amare il mondo, che è uscito buono dalle mani di Dio nostro Padre, e affrontare la vita con la chiara coscienza che si può fare il bene, vincere il peccato e portare il mondo a Dio»[16].

La fiducia in un Dio onnipotente e benevolo cambia così il significato della libertà, che non viene concepita più come la capacità di aggiustare razionalmente i nostri desideri a ciò che possiamo fare. Giacché, per chi decide liberamente di corrispondere all’amore di Dio, tutto concorre al bene (cfr. Rm 8, 28), di modo che si sente sicuro nell’affermare e rafforzare i propri desideri più profondi e nell’aspirare alla pienezza del bene. Perciò quello di cui ora è necessario liberarsi è, anzitutto, del peccato, che è il responsabile della schiavitù dell’uomo, della sua sottomissione a ciò che è inferiore e, in definitiva, dell’isolamento che frustra la sua condizione personale.

Accettare l’esistenza di un Dio intelligente, libero e onnipotente potrebbe apparire terribile se non fosse unito alla convinzione che ci guarda con compiacimento e benevolenza. Tale convinzione può essere appannata dalla consapevolezza del peccato, che, se non è unita alla speranza, induce a rifuggire dalla divinità, a negarla o a deformarne l’immagine. Essa, però, è ripristinata dalla fede in Gesù Cristo. La libertà che Cristo ci ha guadagnato è quella caratteristica dei figli, e il buon padre non esercita la sua autorità a beneficio proprio, ma a favore del figlio: «Con la grazia nasce una nuova e più alta libertà mediante la quale Cristo ci ha liberati (Gal 5, 1). Il Signore ci libera dal peccato con le sue parole e le sue opere: tutte hanno un’efficacia redentrice. Perciò “in tutti i misteri della nostra fede cattolica aleggia il canto alla libertà” (Amici di Dio, n. 25)»[17]. La certezza che il Dio che ci crea che e ci ama — a differenza delle divinità pagane, soggette al fato — è onnipotente ed è il Signore della storia garantisce una liberazione assoluta e conferisce alla dignità umana un significato nuovo.

Anche se il lievito di questa nuova dottrina opera fin dal primo momento nella vita spirituale di tutti i cristiani, trasformando la loro vita e la loro visione del mondo, ci vorrà tempo per estrarne tutte le conseguenze e applicarle alle diverse dimensioni della vita personale e sociale.

Libertà cristiana e filiazione divina

Questo processo, in ogni caso, non è pacifico. Nell’epoca moderna la libertà assume il ruolo di protagonista. Una manifestazione politica di questa sensibilità sono le rivoluzioni della fine del XVIII secolo, alle quali segue l’espressione teorica, soprattutto intorno all’idealismo tedesco. Le due ispirazioni, quella politica e quella teorica, si tradurranno in diverse iniziative e movimenti nel corso del XIX secolo, le cui conseguenze arrivano fino al XX secolo e di lì ai nostri giorni.

In concreto, nei tempi moderni si scopre che la libertà vuol dire anche la capacità di introdurre alcune novità nella storia mediante il proprio agire[18]. Questa capacità si sperimenta come possibilità di progresso non solo morale e personale, ma anche sociale. La formulazione di questo significato della libertà attenua l’enfasi che i classici ponevano sul fatto che la libertà consistesse anzitutto nel seguire la natura razionale e nel perfezionamento personale attraverso le proprie azioni. Questa convinzione si traduceva in un certo disprezzo dell’attività produttiva e dei benefici che essa può procurare, che rimanevano circoscritti quasi esclusivamente a rendere possibile e garantire la vita. Nella modernità, peraltro, cresce la fiducia nella capacità creativa e trasformatrice dell’uomo. A ogni modo, insieme a questa scoperta, in essa si configura una nuova interpretazione della natura e del dinamismo umano. La natura viene concepita come un ambito sprovvisto di fini e soggetto a leggi, e la libertà come possibilità di autodeterminarsi. Questo porta un po’ per volta a concepirla come semplice indipendenza e a opporla alla natura, che appare come un limite che è necessario dominare o superare.

Concepire la libertà come l’indipendenza di un essere indeterminato, capace di auto-realizzarsi, impedisce di riconoscerla come capacità creata di rispondere liberamente all’amore e obbliga a rifiutare che esista una natura che le possa offrire criteri riguardo a ciò che è conveniente e a ciò che non lo è. Si capisce come questa concezione della libertà, che si sviluppa nella modernità, possa arrivare a meritare la severa denuncia di Cornelio Fabro: «Mancandole un fondamento trascendente, la libertà si è costituita in oggetto e fine di sé stessa: è diventata una libertà vuota, una libertà dalla libertà, legge a sé stessa perché è libertà senza altra legge che l’esplosione degli istinti o la tirannia della ragione assoluta, che si rivela poi come capriccio del tiranno»[19]. In questa complicata storia, la rivendicazione della libertà sembra separarsi dal cristianesimo sino al punto di arrivare a contrapporsi a esso e di ispirare sistemi di pensiero e movimenti politici apertamente anticristiani o addirittura atei.

È proprio in questo contesto, pieno di aneliti ma intellettualmente confuso, che san Josemaría rivendica il significato cristiano della libertà, convinto che sia l’unico capace di abbracciare e vivificare tutti i significati legittimi che evoca negli esseri umani: «Noi cristiani — afferma — non dobbiamo chiedere in prestito a nessuno il vero senso di questo dono, perché l’unica libertà che salva l’uomo è la libertà cristiana»[20].

Dove forse si palesa più chiaramente la sua discordanza dalle concezioni moderne alle quali mi riferivo è nello stretto vincolo che, come abbiamo visto, riconosce tra la libertà e la filiazione divina; infatti, «uno dei fenomeni più notori delle ideologie moderne è il non voler essere figlio, considerare la filiazione come un debito intollerabile»[21]. Tuttavia, «qualunque sia la durata della sua vita, l’uomo è sempre interpellato dalla questione della sua origine, interrogativo che lo conduce al riconoscimento del suo essere generato, al quale non può sottrarsi: non può eluderlo o sostituirlo. L’identità personale è, dunque, indissociabile da tale riconoscimento»[22].

Questo riconoscimento ci rimanda alla nostra condizione di creature. Certe volte si tende a sottovalutare la dottrina cristiana della creazione, non negandola, bensì trattandola come un «fatto» del quale si può fare a meno quando si vuole comprendere l’essere umano. Così si sorvola sul fatto che la creatura è assolutamente irriconoscibile senza l’atto creatore di Dio[23] e che considerarla indipendente da Lui può condurre solo a un miraggio. Il pensiero moderno ha saputo scoprire che la libertà è radicale, ma spesso, per difendere questa posizione, ha ritenuto necessario negare ogni dipendenza ed è incorso nell’errore al quale si riferiscono autori come Fabro o Polo, che priva la persona di identità e di destino, e la condanna a diventare il risultato della sua stessa attività.

Tuttavia, per un cristiano, dipendere da Dio vuol dire essere creato libero, con la libertà di chi sa di essere amato per sé stesso — è figlio — e dispone di una prospettiva illimitata — Dio stesso — di crescita e di sviluppo. Così il riconoscimento dell’identità personale si risolve in quello della propria filiazione divina: «Cresce in me di giorno in giorno l’impulso di proclamare a gran voce l’insondabile ricchezza del cristiano: la libertà della gloria dei figli di Dio! (Rm 8, 21)»[24]. Si tratta di una scoperta piena di conseguenze. Commentando gli insegnamenti di san Josemaría, Polo afferma: «La più profonda interiorità della vita dell’uomo trascende l’intero suo essere. Questo significa che, andando sempre più indietro, si scopre la paternità di Dio. Questa scoperta non è mai sufficiente, perché se Dio è Padre, l’uomo trae origine da ben oltre il suo io [...]. Se Dio è Padre, noi siamo figli, non autori di noi stessi, ma comunque collaboratori»[25]. Cosicché, riconoscere la dipendenza da Dio equivale a confermare la realtà della libertà e non a limitarla.

Però non basta essere consapevoli della ricchezza della filiazione divina e della libertà che l’accompagna, ma è necessario erigerla a norma di comportamento, e questo richiede di ritornarvi di continuo: «Chiedo al Signore che ci aiuti a renderci conto di tutto questo, ad assaporarlo giorno dopo giorno: in questo modo agiremo da persone libere»[26]. In effetti, la vita autenticamente cristiana è uno sviluppo coerente con questa condizione radicale di figlio di Dio. Infatti, il prelato dell’Opus Dei, nella sua lettera pastorale del 9 gennaio 2018, dedica particolare attenzione a questa intima relazione tra libertà e filiazione divina: «La nostra filiazione divina fa sì che la nostra libertà possa espandersi con tutta la forza che Dio le ha conferito. Non sarà allontanandoci dalla casa del Padre che diventiamo liberi, ma piuttosto abbracciando la nostra condizione di figli. “Chi non sa di essere figlio di Dio, non conosce la più intima delle verità che lo riguardano” (Amici di Dio, n. 26); vive volgendo le spalle a sé stesso, in conflitto con sé stesso. Allora, quanto è liberatorio sapere che Dio ci ama! Quanto ci libera il perdono di Dio, che ci permette di rientrare in noi stessi e nella nostra vera casa (cfr. Lc 15, 17-24)»[27].

Il cristiano sa bene che vivere all’altezza della propria condizione richiede la risposta di una dedizione piena d’amore alla chiamata che lo fa tale; ma questa dedizione non è una fastidiosa esigenza, bensì la possibilità inusitata di trattare con Dio a tu per tu, che si rivela come l’unico modo di vivere che valga la pena. «Domandiamoci ancora, alla presenza di Dio: Signore, perché ci hai dato questo potere? Perché hai messo nelle nostre mani la facoltà di sceglierti o di respingerti? Tu vuoi che impieghiamo nel modo giusto questa nostra capacità. Signore, che cosa vuoi che io faccia? Ed ecco la risposta chiara, decisa: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (Mt 22, 37)»[28]. In tal modo la libertà acquista un significato degno di sé stessa e la legge non sarà più considerata una costrizione, ma diventerà il mezzo — il linguaggio, potremmo dire — che ci permetterà di manifestare l’amore, di contraccambiare. «Per amore alla libertà, ci leghiamo. Soltanto la superbia può credere che quei legami siano pesanti come catene»[29].

«Quando si respira questo clima di libertà, si capisce chiaramente che compiere il male non è liberazione, ma schiavitù»[30]. Consiste nel mettersi alla mercé di quello da cui siamo stati liberati. Chi si comporta in questo modo «ha scelto il peggio, l’assenza di Dio, e lì non vi è libertà»[31]. Il fatto è che, ricordiamolo ancora una volta, è Dio l’autore della libertà e l’unico che le può dare compimento. Questo rischio «tratteggia il chiaroscuro della libertà»[32], un rischio che, prima che dell’uomo, è un rischio di Dio[33].

È vero che il cristiano deve essere cauto con sé stesso, perché sa di essere capace di abdicare alla propria condizione per impiegare la libertà in un modo sbagliato. Ma neppure questo carattere fallibile della libertà risveglia necessariamente un moto di paura o di rammarico e può invece trasformarsi in un cantico di gratitudine: «Di nuovo innalzo il mio cuore in rendimento di grazie al mio Dio e mio Signore, perché avrebbe potuto benissimo crearci impeccabili, dandoci un impulso irresistibile verso il bene, ma reputò che i suoi servi lo avrebbero meglio servito se fossero stati liberi di farlo (Sant’Agostino, De vera religione, XIV, 27 [PL 34, 133]). Quanto sono grandi l’amore, la misericordia di Dio nostro Padre! Di fronte all’evidenza delle sue “divine pazzie” per i suoi figli, vorrei avere mille bocche, mille cuori, e più ancora, per poter vivere in continua lode a Dio Padre, a Dio Figlio, a Dio Spirito Santo»[34].

La libertà cristiana: responsabilità e secolarità

Uno dei più importanti risultati dell’amore alla libertà che ha coltivato il fondatore dell’Opus Dei consiste nel rendere operativo il profondo concetto che ne ha e nell’incarnarlo nella vita ordinaria. L’esaltazione della libertà non è retorica, ma vitale e piena di conseguenze. Secondo Fabro, «dopo secoli di spiritualità cristiane basate sulla priorità dell’obbedienza, capovolge la situazione e fa dell’obbedienza una disposizione e una conseguenza della libertà, come un frutto dal suo fiore o, più profondamente, dalla sua radice»[35]. Non si tratta, certamente, di una rivoluzione contro le spiritualità cristiane del passato, ma di mettere in evidenza un aspetto che ne è patrimonio comune. Però questo cambiamento di prospettiva, e le conseguenze che se ne ricavano, non sono un caso ma una esigenza del messaggio e della spiritualità dell’Opus Dei, perché da essi dipende perlomeno l’affermazione di uno dei suoi caratteri essenziali: la secolarità.

Una cosa che permette di distinguere la vera libertà dai suoi surrogati è che essa è sempre unita alla responsabilità: libertà personale con personale responsabilità. Certe volte si tende a considerare la responsabilità come il rovescio negativo della libertà, ma questa identificazione è dovuta, in fondo, a una concezione errata di entrambe. Il fatto è che spesso, contrariamente a ciò che può sembrare a prima vista, quello che costa di più è l’esercizio della libertà. Ciò ha una grande importanza nello spirito dell’Opus Dei, che non intende sopprimere il rischio che accompagna una decisione personale, ma dare luce per esercitarla in modo più radicale[36]. Inoltre è bene ricordare che siamo responsabili anzitutto di ciò che è buono e non, come a volte si tende a pensare, di ciò che è cattivo, malgrado le nostre cattive azioni.

Se poniamo nella persona la sede della libertà, rimane chiaro che essere libero vuol dire esattamente essere capace di rispondere. Poter agire arbitrariamente o senza alcun riferimento agli altri non può essere l’essenza della libertà, perché, se così fosse, la libertà potrebbe avere a che fare ed essere esercitata solo nei confronti di chi è inferiore, di chi magari possiamo dominare ma che non può contraccambiare in modo alcuno. Invece, il perfetto esercizio della libertà e il suo pieno significato sussistono soltanto nella relazione interpersonale. E perché questa relazione si possa stabilire, è necessario che la persona appaia nei suoi atti, cosa che accade solo quando essa si assume la responsabilità della propria attività. È qui che la libertà sembra raggiungere il suo significato più profondo, poiché Dio ci crea liberi per rispondere alla sua chiamata e così stabilire con Lui un dialogo personale.

Non è strano che una delle prime manifestazioni della libertà errata, del peccato, sia che l’uomo si chiude in sé stesso e cerca scuse, anche davanti a Dio, per evitare inutilmente le conseguenze delle proprie azioni[37].

Nella vita psichica questo atteggiamento può essere anche una manifestazione di immaturità. Davanti a questo pericolo, l’attività formativa dell’Opus Dei stimola ciascuno ad assumere la propria responsabilità e il fondatore invitava a rinunciare a scuse come «è che, credevo che, pensavo che», che denotano il rifiuto e la paura, impropri di un figlio di Dio, di assumerla.

Questa norma di comportamento è un’ulteriore conferma di un modo di fare che consiste nel convincere ad adottare con gli uomini lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti di Dio. Si tratta, ritengo, di una conseguenza dell’asserzione che il luogo di santificazione sono le stesse realtà quotidiane ed è, dunque, coerente con l’accettazione radicale del mondo come luogo nel quale e dal quale raggiungere la santità. Dato che quest’ultima non si acquista grazie a una vita interiore separata dalla vita normale degli uomini, ma proprio grazie a essa, per arrivare a Dio è necessario cominciare dall’adottare con gli uomini le caratteristiche del dialogo con Dio. Per esempio, non è possibile lottare per essere sincero con Dio se non si lotta allo stesso tempo per esserlo con gli uomini[38].

La sincerità nella direzione spirituale che raccomandava san Josemaría è un chiaro esempio di questa norma di comportamento. Aprire con chiarezza la nostra anima con chi ci può aiutare è la via migliore per uscire dall’anonimato con Dio, condizione necessaria per vivere con lui un rapporto amichevole e filiale, e non un formalismo vuoto, zeppo di stereotipi: «La sincerità nella direzione spirituale, che ci muove ad aprire liberamente l’anima per ricevere un consiglio, ci spinge anche all’iniziativa personale, a esporre con libertà possibili punti della nostra lotta interiore per identificarci sempre più con Cristo»[39]. Naturalmente, la stessa lotta per trattare con Dio apertamente aiuta a essere sinceri con gli uomini. Tuttavia l’insistenza sulla previa franchezza con gli altri come via per imparare a trattare con Dio sembra essere una peculiarità dello spirito dell’Opera, quanto mai coerente con il suo carattere.

Il fatto stesso che chi guida l’Opus Dei, il prelato, si presenti anzitutto come un padre ha a che vedere anche con questo modo di far diventare la vita quotidiana un mezzo per accedere alle realtà spirituali. In questo contesto si impara a vivere la filiazione e allo stesso tempo si riesce a comprendere che l’obbedienza non rende schiavi, perché l’autorità di un padre, come abbiamo già ricordato, si esercita a beneficio del figlio e non di qualche obiettivo esterno. Se si vive in questo modo la relazione con quelli che governano, si scopre una strada sicura per acquisire un rapporto filiale e pieno di fiducia con Dio.

Dato che l’accettazione della propria responsabilità è il miglior ancoraggio della vera libertà, coloro che esercitano l’autorità possono rafforzarla. Il modo più efficace è la fiducia: «Comandare rispettando le anime vuol dire, in primo luogo, rispettare delicatamente l’interiorità delle coscienze, senza confondere il governo con la direzione spirituale. Il rispetto, poi, porta a distinguere i precetti da quelli che sono soltanto utili esortazioni, consigli o suggerimenti. In terzo luogo — ma non per questo meno importante — significa governare con tale fiducia negli altri che si tiene sempre presente, nella misura del possibile, il parere degli interessati.

Questo atteggiamento di coloro che governano, la loro capacità di ascolto, è una stupenda dimostrazione che l’Opera è famiglia»[40]. Chi nota che si ha fiducia in lui si sente stimolato a essere responsabile. È uno stimolo che ha come termine immediato la libertà, e in ciò si distingue dalla coazione. La coazione obbliga la libertà a piegarsi a fare certe cose per motivi negativi, per evitare un male, in definitiva per timore. Invece la fiducia rafforza la libertà, perché la induce a compiere il bene, e, quando l’adempimento del dovere nasce dalla libertà, trascina con sé le altre forze dell’uomo. Ciò favorisce l’unità di vita, senza la quale non ci si può accingere all’impresa di santificarsi in mezzo al mondo[41].

La convinzione che Dio ha voluto correre il rischio della nostra libertà e la necessità che il cristiano imiti lo stile divino di agire — «siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48) — richiedono che l’uomo non solo tolleri, ma rispetti, ami e favorisca la libertà degli altri. Ciò vale in modo speciale per gli incarichi di formazione e di governo con cui l’essere umano collabora in modo del tutto speciale con Dio. Ecco perché san Josemaría ricordava l’importanza di non imporre opinioni personali e, in caso di dubbio, stare sempre dalla parte della libertà[42]. Il fondatore dell’Opus Dei non considerava la libertà come un principio di disordine o di anarchia, come qualcosa da controllare ma, piuttosto, come un principio di organizzazione e di governo[43]: ciascuno agisce da sé stesso con libertà e spontaneità[44].

Come si vede, qui non viene più accentuato il primato dell’obbedienza, perché quest’ultima viene dopo la libertà, come un requisito per ottenere quello che si vuole. Per questa ragione, l’importante è che lo si voglia veramente. E ciò non solo è già soprannaturale, ma è il motivo più soprannaturale. «Pensate a ciò che vi ho detto tante volte: perché mi va, mi sembra la ragione più soprannaturale di tutte»[45]. È una considerazione che esprime con grande profondità il rapporto tra grazia e libertà, mostrando che non solo sono compatibili, ma si reclamano a vicenda. Nel pieno e radicale esercizio della libertà l’essere umano entra in contatto in un modo particolare con la grazia divina. Dio non vuole schiavi.

Ciò detto, non si vuole sottovalutare l’obbedienza. Infatti, come la redenzione è stata ottenuta mediante l’obbedienza di chi è Figlio per natura, ogni cristiano può far propria questa accettazione fiduciosa e gioiosa della volontà del Padre, che non soggioga ma, alla fin fine, libera. Questa volontà si palesa nella legge morale, ma anche in ogni autorità legittima, che viene obbedita senza che si rinunci alla propria intelligenza. Con la sua «obbedienza intelligente»[46] — usando un’espressione di san Josemaría — l’uomo si identifica con Cristo, che non deve abdicare alla sua condizione di Logos eterno per sottomettersi, in quanto uomo, anche intelligente e libero, al Padre per amore.

A mo’ di conclusione

Per coloro che vivono in mezzo al mondo l’Opus Dei propone una spiritualità che non entra in collisione con la loro condizione secolare ma la rafforza, perché propone la vita ordinaria e le circostanze familiari e sociali di ogni cristiano come mezzo e cammino di santificazione. Ciò significa che la vocazione non si edifica «intorno» alla secolarità come un addobbo, ma proprio attraverso e per mezzo di essa: da essa. Ecco perché a un maggior impegno nella santità non può mai corrispondere un abbandono del mondo, ma una più profonda immersione in esso.

Ma perché questo sia possibile, la risposta alla vocazione rispetta la spontaneità, vale a dire, l’agire di propria iniziativa e in prima persona che caratterizza il comportamento nel mondo, un ambito con leggi proprie, che si deducono dalla sua natura. Ciò è incompatibile con la strumentalizzazione delle realtà umane come mezzo per raggiungere una finalità soprannaturale che risulterebbe esterna a esse. Un modo di dare corpo a questo atteggiamento sarebbe sentirsi un semplice destinatario di consegne che annullassero o compromettessero la propria spontaneità. Ecco perché una delle manifestazioni dell’amore alla libertà nell’Opera è dimostrare il massimo rispetto per le opinioni di ogni fedele, il che riveste una particolare importanza per ciò che riguarda il lavoro professionale e l’agire pubblico[47].

Il contrario significherebbe strumentalizzare le attività secolari, e dunque snaturarle, per cui non sarebbero più adatte, in quanto tali, a trasformarsi in cammino di santificazione.

D’altra parte, perché un serio vincolo di obbedienza nell’ambito spirituale e apostolico non entri in conflitto con la condizione secolare, è necessario che sia fatto proprio con assoluta libertà, cosicché chi obbedisce sia in grado di accettare e di portare a compimento ciò che Dio gli chiede come una decisione personale. Infatti, se per spiegare l’agire del cristiano nella vita sociale fosse necessario mostrare pubblicamente un vincolo di natura spirituale, la condotta di questi risulterebbe frutto della rinuncia alla propria iniziativa e, dunque, contraria alla piena identificazione con la propria condizione che la mentalità laicale comporta.

/////Al pari di altri condizionamenti familiari o personali liberamente assunti, il vincolo all’Opus Dei fa parte della dinamica della propria libertà. Questo spiega perché nell’Opus Dei la libertà non sia solo riconosciuta e rispettata, ma il suo costante esercizio sia un fine della formazione: «Il costante esercizio della libertà, in cui vengono formati i soci dell’Opera — afferma san Josemaría —, è alla base della nostra ascetica, come qualcosa di connaturale e di intimamente connesso con la condizione secolare dei miei figli, con ciò che costituisce il cardine della nostra vocazione e il modo specifico di attuarsi della nostra piena dedizione»[48].

È chiaro che con questo atteggiamento si evitano la commedia, l’inganno o, peggio ancora, l’autoinganno, nella misura in cui la libertà ne è il fondamento. E questo sembra possibile solo se tale fondamento è la condizione di figlio del cristiano. Il figlio lavora nel campo del Padre, secondo lo spirito del Padre, ma anche, allo stesso tempo, nel proprio campo. Probabilmente solo questa concezione della propria attività permette di conciliare la totale e amorosa sottomissione alla volontà di Dio con la scioltezza e la spontaneità necessarie per non usare le realtà del mondo — inteso come l’ambito delle relazioni spontanee tra gli uomini — come semplici strumenti di un fine spirituale da esse separato. Solo l’autocoscienza della libertà della gloria che possiedono i figli di Dio (Rm 8, 21) permette di concepire la propria attività come trasfigurazione operata dall’interno, evitando il pericolo di soccombere alla pressione del peccato che talvolta le deforma.

[1] Cfr. Mons. Fernando Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018.

[2] San Josemaría, Lettera 2-X-1939, n. 6 (Archivio Generale della Prelatura [da ora in poi, AGP], serie A.3, 91-5-2). Sia per il suo temperamento sia, soprattutto, perché lo considerava una esigenza irrinunciabile della chiamata che aveva ricevuto da Dio, amava la libertà fino al punto che si considerava «l’ultimo dei romantici. Il santo aragonese si considerava un erede dei romantici del XIX secolo che lottavano per la libertà personale: “Penso di essere l’ultimo romantico, perché amo la libertà personale di tutti, anche quella dei non cattolici”» (Mariano Fazio, San Josemaría Escrivá. L’ultimo dei romantici, Ares, Milano 2019, p. 12).

[3] Si possono consultare altri studi che si propongono di esporre una panoramica della concezione della libertà in san Josemaría, come quello di Francesco Russo, voce “Libertad”, in José Luis Illanes (coord.), Diccionario de san Josemaría Escrivá de Balaguer, Monte Carmelo-Instituto Histórico San Josemaría Escrivá de Balaguer, Burgos-Roma 2013, pp. 732-741.

[4] Álvaro del Portillo in Santità e mondo. Atti del Convegno teologico di studio sugli insegnamenti del beato Josemaría Escrivá (Roma, 12-14-X-1993), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, p. 225. Il corsivo è nostro.

[5] «La filiazione divina è il fondamento dello spirito dell’Opus Dei» (San Josemaría, È Gesù che passa, n. 64). «Il solido fondamento sul quale tutto si regge nell’Opus Dei e la radice feconda che vivifica tutto è il senso umile e sincero della filiazione divina in Cristo Gesù» (Statuta, n. 80 § 1).

[6] San Josemaría, Lettera 29-IX-1957, n. 55 (AGP, serie A.3, 94-I-3).

[7] Id., Amici di Dio, n. 26.

[8] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Ed. Laterza, Bari 20177.

[9] San Giovanni Paolo II, Discorso alla 50ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 5-X-1995.

[10] Mons. Fernando Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 1.

[11] «Ritengo che la Modernità possa essere identificata con un processo di secolarizzazione, ma essa ha almeno due significati essenziali. Il primo equivarrebbe a una “sclericalizzazione” del mondo medievale attraverso la riscoperta dell’autonomia relativa a tutto ciò che è temporale. Il secondo, viceversa, si identificherebbe con l’affermazione assoluta dell’uomo, tagliando tutti i ponti con una eventuale istanza trascendente» (Mariano Fazio, Secularización y cristianismo. Las corrientes culturales contemporáneas, Universidad de Libros, Buenos Aires 2008, p. 15). Sul concetto di secolarizzazione, cfr. José Ignacio Murillo, “Trabajo, santidad y secularidad. Una alternativa católica a la interpretación hegeliana de la divinización del mundo”, in Javier López Díaz e Federico M. Requena (ed.), Verso una spiritualità del lavoro professionale. Teologia, Antropologia e Storia a 500 anni dalla Riforma, EDUSC, Roma 2018, pp. 335-349.

[12] Il Concilio Vaticano II riconosce l’autonomia delle realtà temporali se con essa si intende che «le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare» (Gaudium et spes, n. 36). Cfr. Elisabeth Reinhardt, “La legittima autonomia delle realtà temporali”, Romana, vol. 15 (1992/2), pp. 323-335.

[13] Cfr. Martin Rhonheimer, Cristianismo y laicidad: historia de una relación compleja, Rialp, Madrid 2009; Rémi Brague, La ley de Dios: historia filosófica de una alianza, Encuentro, Madrid 2011.

[14] Serva come chiarimento questo commento al Crizia di Platone, che narra il tentativo di convincere Socrate a fuggire da Atene e a evitare così la condanna a morte che gli è stata inflitta: «Preferire la morte all’esilio vuol dire asserire che la separazione dalla polis è più letale, per ciò che è specificamente umano, della morte fisica. Una simile convinzione implica che la razionalità riesce a costituirsi solo come principio operativo, come physis, in seno a uno spazio intersoggettivo mediante il riconoscimento, in una città di uomini liberi». Gli schiavi, invece, «non sono generati ed educati in un sistema normativo, e non sono riconoscibili se non come qualcosa di estraneo; non sono della stirpe degli uomini dipendenti dalle leggi, e pertanto sono “liberi” rispetto a esse, nel senso che possono eluderle senza incorrere nell’empietà. Però al prezzo di essere costitutivamente empi, e cioè, di essere schiavi, di non avere un lignaggio da venerare e leggi da osservare, di non avere la misura dell’umano» (Higinio Marín, La invención de lo humano. La construcción sociohistórica del individuo, Iberoamericana, Madrid 1997, p. 67).

[15] Mons. Fernando Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 2.

[16] Ibid., n. 4.

[17] Ibid., n. 3.

[18] Cfr. Leonardo Polo, Persona y libertad, Eunsa, Pamplona 2017.

[19] Cornelio Fabro, “El primado existencial de la libertad”, in Monseñor Escrivá de Balaguer y el Opus Dei, Eunsa, Pamplona, 1982 (2ª ed.), p. 342.

[20] Amici di Dio, n. 35.

[21] Leonardo Polo, “El hombre como hijo”, in Juan Cruz Cruz (ed.), Metafísica de la familia, Eunsa, Pamplona 1995, p. 320.

[22] Ibid.

[23] Per trarre una conseguenza da questa affermazione, se l’uomo per essere deve essere distinto da Dio, come dice Polo, la distinzione Creatore-creatura è maggiore della distinzione essere-nulla, che solo riguarda la creatura in virtù dell’atto creatore, in quanto Dio non ha motivo di distinguersi dal nulla. Cfr. Leonardo Polo, Persona y libertad, Eunsa, Pamplona 2007, pp. 43 ss.

[24] Amici di Dio, n. 27.

[25] Leonardo Polo, El concepto de vida en Josemaría Escrivá de Balaguer, in Anuario Filosófico, 1985 (XVIII), p. 13.

[26] Amici di Dio, n. 26.

[27] Mons. Fernando Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 4.

[28] Amici di Dio, n. 27.

[29] Ibid., n. 31.

[30] Ibid., n. 37.

[31] Ibid.

[32] Ibid., n. 24.

[33] «[...] Dio ha voluto che fossimo suoi cooperatori, ha voluto “correre il rischio della nostra libertà”». La manifestazione di questo mistero appare chiaramente quando si contempla Dio neonato: «[...] un bambino indifeso, inerme, incapace di offrire resistenza. Dio si consegna nelle mani degli uomini, si avvicina e si abbassa fino a noi» (È Gesù che passa, n. 113).

[34] Amici di Dio, n. 33.

[35] Cornelio Fabro, El primado existencial de la libertad, p. 50.

[36] «Non bisogna impostare la direzione spirituale dedicandosi a fabbricare creature prive del proprio giudizio e che si limitano a eseguire materialmente ciò che un altro dice loro; la direzione spirituale invece deve tendere a formare persone di criterio. E il criterio implica maturità, fermezza nelle proprie convinzioni, sufficiente conoscenza della dottrina, delicatezza di spirito, educazione della volontà» (Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 93).

[37] Cfr. Gn 3, 12-13.

[38] Cfr. Statuta, 90. Cfr. Amici di Dio, n. 82. Questa affermazione, secondo la quale ciò che è naturale è un cammino che predispone alla grazia, è chiara in san Josemaría che, parlando delle virtù umane, afferma: «Se il cristiano lotta per acquistare tali virtù, la sua anima si dispone a ricevere efficacemente la grazia dello Spirito Santo; allora le buone qualità umane si rafforzano mediante le mozioni che il Paraclito pone nell’anima» (Amici di Dio, n. 92).

[39] Mons. Fernando Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 11.

[40] Ibid., n. 13.

[41] Cfr. Antonio Aranda, La lógica de la unidad de vida. La identidad cristiana en una sociedad pluralista, Eunsa, Pamplona, 2000.

[42] «Nel dubbio, [optate] per la libertà; così non sbaglierete mai. La libertà si può perdere solo per Amore; altro genere di schiavitù non lo comprendo» (San Josemaría, AGP, biblioteca, P.10, n. 168).

[43] «Sono amico della libertà perché è un dono di Dio, perché è un diritto della persona umana, perché con la libertà personale e la responsabilità personale si sarebbe evitata la maggior parte dei crimini del mondo» (San Josemaría, AGP, biblioteca, P.10, n. 170).

[44] «La Prelatura chiede ai suoi fedeli una intensa e costante attività apostolica personale, che si deve esercitare nello stesso lavoro e nell’ambito sociale propri di ciascuno, liberamente e responsabilmente, completamente impregnata di spontaneità» (Statuta, 119). San Josemaría ricorre al termine «spontaneità» per riferirsi all’atteggiamento e all’attività dei cristiani che si santificano in mezzo al mondo. «Noi attribuiamo un’importanza primaria e fondamentale alla “spontaneità apostolica della persona”, alla sua libera e responsabile iniziativa, sotto la guida dello Spirito; e non alle strutture organizzative, agli ordini, alle tattiche, e ai programmi imposti dall’alto, in sede di governo» (Colloqui, n. 19).

[45] San Josemaría, Lettera 8-VIII-1956, n. 38 (AGP, serie A.3, 94-1-2).

[46] «Dio non ci impone un’obbedienza cieca, ma un’obbedienza intelligente» (È Gesù che passa, n. 17).

[47] «Per ciò che riguarda l’agire professionale, così come le dottrine sociali, politiche, ecc., ognuno dei fedeli della Prelatura, entro i limiti della dottrina cattolica circa la fede e i costumi, gode della medesima piena libertà degli altri cittadini cattolici. Da parte loro, le autorità della Prelatura devono astenersi assolutamente anche solo dal dare consigli su questi temi» (Statuta, 88, 3).

[48] San Josemaría, Lettera 25-I-1961, n. 37 (AGP, serie A.3, 94-2-2). Per sottolineare che l’attività più importante dell’Opus Dei è quella che i suoi membri portano avanti in nome proprio, san Josemaría arriva ad affermare che «l’Opera stessa ha come lavoro esclusivo la formazione dei suoi membri» (San Josemaría, Instrucción para la Obra de san Rafael, 9-I-1935, n. 11, AGP, serie A.3, 89-3).

Romana, n. 66, Gennaio-Giugno 2018, p. 182-197.

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