Intervista concessa ad Alfa y Omega, Spagna (14-IX-2017) (realizzata da Teresa Gutiérrez de Cabiedes)
Ha la tendenza a incrociare le braccia e allora la sua bocca si apre in un sorriso dal quale vengono fuori parole timide ma piene di humour. A 72 anni è ancora in grado di fare un bel rovescio quando gioca a tennis. La sua sobrietà d’espressione è compensata da uno sguardo affabile e profondo.
Nella storia recente del nostro Paese l’Opus Dei ha lasciato un’impronta profonda, e non solo per l’origine aragonese di un fondatore che ha propagato un carisma divino nei cinque continenti. Fondamentalmente la sua presenza è importante nell’ambito educativo, pubblico, ma soprattutto nella vita di ogni giorno di migliaia di persone qualunque. Ci sembra stimolante interrogare a fondo il leader di una nuova tappa.
Questa conversazione vuol essere un dialogo da cuore a cuore. È appena il caso di dire ai lettori che abbiamo cominciato invocando con forza la benedizione dello Spirito Santo su questo dialogo e sull’eco che produrrà. Il desiderio è quello di fare le domande che tutti si aspettano, di conversare con una sincerità coraggiosa e costruttiva, con tutta la fiducia e la franchezza possibili.
— Passati ampiamente i primi cento giorni dalla sua elezione quale prelato dell’Opera, non so se farle le congratulazioni o le condoglianze per il peso che le è caduto sulle spalle. Come si sente, ora che è il padre spirituale di migliaia di persone in ogni parte del mondo?
So bene che su me ricade una grande responsabilità, però sono tranquillo. Mi aiuta soprattutto sapere che Dio, quando conferisce un incarico, dà anche la grazia necessaria per portarlo a buon fine. Inoltre mi confortano la vicinanza e l’affetto che mi ha dimostrato in modo tangibile il Santo Padre, in occasione della mia nomina e dopo, quando ho avuto occasione di vederlo. Mi sento sostenuto anche dalle preghiere e dall’affetto di molti. Mi viene in mente una lettera che ho ricevuto da un ragazzo, che dall’ospedale mi assicurava di offrire le sue sofferenze; e penso alle lettere di tanti membri dell’Opus Dei e di altre persone. Così mi spiego la serenità che ho notato in me in questi mesi.
— Da quando è stato eletto prelato, i suoi avversari si lasciano battere a tennis?
Spero di no; me ne renderei conto facilmente e la partita perderebbe ogni interesse.
— Recentemente lei ha fatto il suo primo viaggio pastorale in Spagna per andare a trovare i fedeli e gli amici dell’Opus Dei. Quali messaggi voleva trasmettere nei tanti incontri faccia a faccia?
In questo viaggio in Spagna ho voluto soprattutto ricordare che, come cristiani, dobbiamo mettere Cristo al centro della nostra vita. Come ha sottolineato Benedetto XVI in un passo della sua prima enciclica che Papa Francesco cita volentieri, il cristiano non aderisce a un ideale, a una dottrina, ma è colui che ama e segue una persona: Cristo. Su questo ho voluto insistere durante il viaggio, mettendo l’accento sullo spirito specifico dell’Opus Dei, vale a dire, sul fatto che dobbiamo portare la carità di Cristo nella vita ordinaria, nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti con gli amici.
— In Spagna l’Opus Dei ha avuto grandi risultati spirituali e sociali. Però ha generato alcune controversie. Molti hanno trovato la salvezza di Dio grazie a questo carisma e sono felici. Ma esistono anche numerose persone che raccontano, anche pubblicamente, che il loro tragitto nell’Opera ha comportato profonde ferite. È possibile che qualcosa non sia stata fatta bene?
Nei 22 anni che ho lavorato accanto a lui, ho sentito don Javier chiedere perdono alle persone che si sono sentite ferite dal comportamento di qualcuno dei suoi figli. Io mi associo a questa richiesta di perdono e desidero con tutta l’anima che queste persone guariscano dalle loro ferite e superino il loro dolore.
San Josemaría era solito dire che sentiva un affetto particolare per tutte le persone che si avvicinavano al lavoro formativo dell’Opus Dei, anche solo brevemente. S’immagini l’affetto che nutriva per le persone che erano arrivate a far parte dell’Opera. Egli sentiva una profonda paternità spirituale: non si smette mai di amare un figlio o un fratello.
È il caso di considerare due piani diversi. Da una parte, il messaggio dell’Opus Dei è una via aperta per seguire Cristo. Dall’altra, le attività che svolgono le persone e i centri dell’Opera, sui quali, com’è naturale, influiscono le circostanze e i modi di essere. Sicuramente, fra un così grande numero di persone e di attività vi saranno stati, anche se in buonafede, errori, omissioni, negligenze o malintesi. Io vorrei chiedere perdono per ognuno di essi.
— Lei parla di perdono. Una delle benedizioni della fede cattolica è che sappiamo che la misericordia di Dio ci aiuta malgrado le nostre mancanze. Anche quando questi errori macchiano il suo nome. Forse uno dei momenti più belli della nostra storia è stato quando Giovanni Paolo II ha chiesto perdono a nome dei figli della Chiesa universale.
Penso che non dobbiamo separare la richiesta di perdono dalla lode a Dio che nasce dalla gratitudine per l’abbondanza di doni che continuamente concede nella sua misericordia e ci arrivano attraverso la mediazione umana, che diventa così uno strumento dell’azione divina.
San Giovanni Paolo II, durante la sua vita, ci ha dato un grande esempio di queste due dimensioni, che devono essere sempre presenti quando consideriamo la magnificenza di Dio e la debolezza degli uomini. Questo è ciò che accadde nella giornata del Perdono, da lui indetta durante il Grande Giubileo del 2000. Benedetto XVI ha affermato che il perdono è l’unica forza che può vincere il male, che può cambiare il mondo. Innanzitutto, dobbiamo chiedere perdono a Dio. Inoltre, penso che dobbiamo includere nella nostra vita, come cosa abituale, la richiesta di perdono e il perdonare. Lo ripetiamo tutti i giorni quando recitiamo il Padrenostro, ma nella pratica lo dimentichiamo troppo spesso. Quello che è certo è che dobbiamo rispettare la verità, che non possiamo chiedere perdono accusando indirettamente e ingiustamente altre persone con un meaculpismo superficiale. Comunque, perdonare e chiedere perdono sono atteggiamenti cristiani che non umiliano ma nobilitano.
— La cristianità occidentale attraversa un inverno vocazionale preoccupante. Nello stesso tempo, esistono nella Chiesa alcuni germogli primaverili: frutti che fanno ben sperare in comunità che hanno maturato una rinnovata pedagogia della fede. Lo Spirito ha affrettato il passaggio da una ascetica eminentemente volontaristica a un approfondimento della gratuità dell’amore di un Dio che viene incontro, che non aspetta che lo conquistiamo con i nostri meriti, che ha bisogno della nostra povertà per esercitare la sua misericordia. Come è vissuta e annunciata nell’Opus Dei, attualmente, questa relazione con Dio?
Il fondamento dello spirito dell’Opus Dei è la viva consapevolezza della nostra filiazione divina. San Josemaría ha scritto in Amici di Dio: «Dio è un Padre pieno di tenerezza, di infinito amore. Chiamalo Padre molte volte al giorno e digli — da solo a solo, nel tuo cuore — che lo ami, che lo adori: che senti l’orgoglio — che ti riempie di forza — di essere suo figlio». Nell’Opus Dei l’annuncio della relazione con Dio ha questa focalizzazione. Come scrive san Giovanni: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!».
— In questo nostro mondo, tante volte prigioniero della cultura del lamento, percepire così l’amore di un Padre è decisivo per vivere nella speranza.
Sempre, e specialmente in questi momenti, dobbiamo tenere ben presente questa meravigliosa realtà, che aiuta a superare il pessimismo che nasce dai problemi della vita, dalla consapevolezza dei propri difetti, dalle difficoltà dell’evangelizzazione e anche dalla situazione del mondo. La nostra vita non è un romanzo rosa ma un poema epico. Sapere di essere figli di Dio ci aiuta a vivere con fiducia, con gratitudine e con gioia. Ci invita ad amare questo nostro mondo, con tutti i suoi problemi e con tutta la sua bellezza. La pace del mondo dipende più dal contributo che ciascuno di noi può dare nella vita ordinaria (sorridendo, perdonando, non dandosi importanza) che dai grandi negoziati fra Stati, per quanto necessari e di grande rilievo possano essere.
— Fin dalla sua prima lettera pastorale come prelato, lei insiste molto sulla centralità di Gesù Cristo. Per evitare che il cristianesimo scada a ideologia o a insieme di norme di buon comportamento, abbiamo bisogno di sperimentare e rivivere continuamente un incontro personale con l’amore di Dio. Solo come conseguenza, fiorisce nella Chiesa la vita cristiana e sovrabbonda la grazia. Come intende annunciare oggi l’Opus Dei questo kerigma, questa buona novella inesauribile?
Soprattutto mediante la sincera amicizia: da persona a persona, che sempre arricchisce reciprocamente. Per l’evangelizzazione ritengo essenziale il valore della testimonianza e della condivisione della personale esperienza di vita: è molto più efficace di qualunque discorso teorico. Naturalmente questo non esclude la multiforme iniziativa personale che dà anche origine ad attività di evangelizzazione molto diverse (iniziative di insegnamento, assistenziali, ecc.), per alcune delle quali la Prelatura assume la responsabilità dell’orientamento cristiano e presta l’assistenza pastorale dei suoi sacerdoti.
— L’Opus Dei è nato nella Chiesa con un carattere profetico. Tuttavia, la morte del fondatore è coincisa con i primi anni dello «tsunami» post-conciliare. Si capisce che l’Opera si sia ancorata alle fondamenta. È possibile che sia rimasta «la voglia di sentirsi in trincea» davanti a tanta confusione e a tanto caos che ha vissuto (e vive) la barca di Pietro?
La fedeltà a Dio è una dimensione che ha sempre illuminato la storia in venti secoli di cristianesimo. La fedeltà alla fede cristiana, che è fedeltà a Cristo, è stata sempre dinamica, innovatrice e trasformatrice. Penso che effettivamente, dopo il Vaticano II, constatando le conseguenze della «ermeneutica della rottura» (come l’ha chiamata Benedetto XVI in un famoso discorso), si sia presentata la tentazione di sentirsi in trincea a cui accenna.
A ogni modo, tanto la rottura che il chiudersi in difesa sono reazioni congiunturali che è necessario superare. Sono conseguenza di aver ceduto a una mentalità dialettica, politica, che è estranea alla Chiesa, perché divide e rompe la comunione. Nella Chiesa non ci sono, non debbono esserci, fazioni o partiti, ma unità nel legittimo pluralismo.
— Il relativismo provoca stragi nella nostra società disorientata. L’Opera è «famosa» per la sua fedeltà alla Chiesa e al Papa. Ciò è una benedizione in tempi convulsi. Accentuare la dottrina in mezzo alla tormenta dà sicurezza: d’altra parte, potrebbe sfociare nell’ansia di «regolamentare» ogni cosa. Come armonizzare la piena fedeltà alla Legge divina con la libertà gioiosa dei figli di Dio?
Molti problemi nascono quando ci proponiamo dilemmi inutili o riduciamo la realtà a stereotipi dialettici. Fedeltà o creatività, ortodossia o libertà, dottrina o vita... Penso che dobbiamo vivere con una volontà di integrazione che è, sicuramente, molto cristiana. La realtà non si lascia rinchiudere in uno schema esclusivo. Ci richiede un equilibrio, una ponderatezza, uno spirito di integrazione che finiscono con l’essere molto positivi anche nei rapporti interpersonali.
— Infatti, la dialettica genera cortocircuiti. Osserviamolo attraverso un prisma più integratore. A lei piace Beethoven: come eseguire la partitura pur facendone un’interpretazione personale?
Considero perfettamente compatibile la fedeltà alla dottrina con l’apertura alle ispirazioni dello Spirito. La storia della Chiesa lo conferma. Senza perdere la sua identità, è novità permanente. In questo contesto, considero importante la libertà di spirito, che, evidentemente, non consiste nell’assenza di obblighi e di impegni, ma nell’amore. È quello che sant’Agostino espresse nella famosissima frase: «Ama e fa’ ciò che vuoi», o come scrisse san Tommaso d’Aquino, in termini diversi: «Quanto più uno ha di carità, tanto più ha di libertà».
— Allora, una fedeltà creativa richiede che la libertà di amare sia praticata col desiderio di aprirsi alla perenne novità dello Spirito...
Infatti, i modi di dire e di fare cambiano, ma il nucleo, lo spirito, rimane inalterato. La fedeltà non è mai dovuta a una ripetizione meccanica; si dà quando riusciamo ad applicare il medesimo spirito a circostanze differenti. Talvolta ciò comporta conservare anche ciò che è accidentale ma, in altri casi, induce a cambiarlo. In tal senso, il discernimento sereno e aperto alla luce dello Spirito Santo è fondamentale, soprattutto per conoscere i confini (a volte non evidenti) tra ciò che è accidentale e ciò che è essenziale.
— Un altro rischio dell’ipertrofia dello zelo dottrinale nella nostra Chiesa è la proliferazione di anime invischiate in un razionalismo che esclude la dimensione sensibile nella relazione personale con Dio: come se vivere la fede col cuore equivalga a cadere nel sentimentalismo. Come fisico, lei avrebbe il coraggio di affidarsi a un’equazione per crescere in intimità con Dio?
Gli anni di studio di teologia, la vicinanza a determinate persone, mi hanno indotto a dare molto valore alla luce della fede anche nell’esercizio della ragione, sempre, però, senza sottovalutare l’importanza della dimensione sensibile, del cuore, delle emozioni, che sono profondamente umane. Il nostro Dio è sempre vicino: nell’Eucaristia Gesù si avvicina in modo del tutto speciale alla intimità del nostro cuore.
— Una delle sfide più provocatorie che ci lancia la nostra epoca è quella di riconquistare il fecondo valore del silenzio. L’Opera è esperta nel formare cristiani chiamati a vivere alla presenza di Dio in mezzo al mondo. Forse un espediente ce lo ha suggerito san Josemaría, quando ci ha invitato a introdurci nel Vangelo, sorgente permanente di sapienza e di pace, come un personaggio tra gli altri. Come toccare Gesù vivo, oggi e ora?
San Josemaría, nel consigliare di introdursi nei racconti del Vangelo come un personaggio tra gli altri, trasmetteva la propria esperienza. Dio gli concesse una fede viva nell’incarnazione, dalla quale sorgeva un amore ardente a Nostro Signore, a seguire le orme del suo passaggio sulla terra e a considerarlo un modello. Gesù, pur essendo Dio, ma essendo e vivendo come un uomo tra gli uomini, che cresce e si educa, vive in una famiglia, lavora, ha degli amici, ha rapporti con i vicini, soffre e piange..., ci mostra il valore agli occhi di Dio di tutto ciò che è umano e che, pertanto, la nostra vita normale ha, in unione con Lui, un valore divino. Così possiamo toccare Gesù vivo in tutte le occasioni dell’esistenza ordinaria. Soprattutto nei luoghi
privilegiati della presenza del Signore: nei bambini, nei poveri, con i quali Egli ha voluto immedesimarsi in modo particolare; nei malati, che il Papa chiama «la carne sofferente di Cristo»; e, in un modo ancora più intenso, come dicevo prima, nell’Eucaristia.
— L’Opus Dei gode di una immagine di forte unità, e questo è meritorio; però, non si osserva facilmente la pratica di una sana autocritica. Le sue prime parole scritte ai fedeli dell’Opera commentavano la quantità di opere buone (e reali!) che avete prodotto tutti insieme. Mi domando se parlare solo di ciò che è buono e ideale (e capisco che occorre farlo) può generare, forse, un terreno di coltura propizio all’autocompiacimento o può portare all’idealismo di confondere ciò che si aspira a essere (il carisma divino) con ciò che in realtà si è (la povera realizzazione umana, tante volte).
L’autocompiacimento è sempre un pericolo per chi desidera operare il bene. Anche nell’Opus Dei, come dovunque, dobbiamo essere vigilanti per evitare questo pericolo. Come dicevo prima, ho lavorato accanto a don Javier Echevarría per oltre 20 anni. Egli era solito ripeterci che noi persone dell’Opera né siamo né ci sentiamo superiori a nessuno, che ognuno è capace di qualunque cattiveria. Però l’umiltà personale non è sufficiente; esiste anche una umiltà collettiva, istituzionale, che si manifesta in molti modi: nel modo di parlare, nell’ammirazione sincera degli altri, ecc. Per questo, quando riconosciamo le opere buone è per rendere grazie a Dio, che è Colui che ce le concede, non per farci belli. Chiedo a Dio di liberarci dall’autocompiacimento, dal quale don Javier ci metteva spesso in guardia, seguendo anche in questo san Josemaría.
— In questo senso, mi sembra un’espressione molto simpatica quella che lei usa quando parla dell’Opus Dei come di una particella della Chiesa. Le famiglie ecclesiali, sognate dallo Spirito Santo, alle volte corrono il rischio di non vedere al di là del proprio naso, vale a dire, vivere nella miopia del culto all’istituzione, al proprio carisma, al fondatore... Come evitare di promuovere il marchio della casa e mettere piuttosto al primo posto il volto di Dio e l’unità con la Chiesa?
L’espressione particella
della Chiesa è di san Josemaría, che ricorreva al diminutivo tipico della sua parlata aragonese [partecica] per esprimere una sfumatura di affetto. La tentazione dell’auto-referenzialità è sempre in agguato per tutti. A volte per un eccesso di entusiasmo, a volte per ignoranza di altre realtà o per una punta di vanità. San Josemaría ci ha voluto prevenire contro questo pericolo ricordandoci spesso che l’Opera esiste solo per servire la Chiesa come la Chiesa vuole essere servita. Se servire la Chiesa — espressione irrinunciabile dell’amore a Cristo — è sempre una realtà nella vita di ciascuno, andremo bene.
— Mi chiedo se a volte preghiamo per l’unione delle religioni e dimentichiamo l’«ecumenismo intraecclesiale». Un esempio: la famiglia è una delle grandi vittime della nostra società e, purtroppo, della nostra Chiesa. Ecco che cosa succede. In Spagna, nel caso di una famiglia numerosa, accade sovente che ti domandino: «Dell’Opus Dei o Neocatecumenali?». Però molti cristiani qualunque hanno l’impressione che sia gli uni che gli altri non escano dal proprio binario. Come ottenere che, pur rimanendo fedele ai doni ricevuti, ognuno impari ad amare la ricchezza degli altri come frutto della diversità dell’azione di Dio?
Per amare, bisogna prima conoscere. Molte divisioni o malintesi in seno alla Chiesa si spiegano con la mancanza di conoscenza e si risolverebbero, in buona parte, con un maggiore avvicinamento alla realtà. Inoltre, amare Gesù Cristo comporta amare tutti, specialmente coloro che in un qualche modo dedicano la vita al servizio del Vangelo. Anche la gioia è un ponte sincero che unisce le persone al di sopra delle differenze.
— A proposito di conoscersi (prima di tutto con il prossimo nella fede), facciamo una ipotesi. Che succederebbe se organizzaste qualche iniziativa comune? Per esempio: che succederebbe se un evento familiare fosse generato da Neocatecumenali e da fedeli dell’Opus Dei, o se la «Gioventù Studentesca» di Comunione e Liberazione partecipasse a un congresso UNIV o promoveste un evento interreligioso gomito a gomito con i Focolarini?
Noi cattolici corriamo il rischio, come avverte Papa Francesco, di ridurre l’apostolato a strutture, attività ed eventi, che in molti casi non sono particolarmente efficaci per arrivare al cuore e alla mente di persone che non conoscono Cristo. La cosa centrale nell’Opera è impartire una buona formazione cristiana, perché ognuno agisca con libertà e iniziativa, individualmente. Gli eventuali incontri di cui parla potrebbero qualche volta essere utili e, di fatto, si danno, in particolare quando sono il Papa e i vescovi a prendere l’iniziativa. A ogni modo, a me sembra che, a parte fare riunioni, ci incontriamo soprattutto nei luoghi dove ognuno svolge la propria attività abituale: nell’ambito del lavoro, dell’educazione, della cultura, dell’impresa, della politica. Lì stanno già lavorando cattolici di differenti sensibilità, e possiamo collaborare in innumerevoli iniziative di evangelizzazione: con senso ecumenico, sottobraccio con altri cristiani e con spirito aperto, insieme a molte altre persone di buona volontà.
— Il prossimo sinodo della Chiesa sarà dedicato alla vocazione dei giovani, un tema sul quale c’è stata polemica nei confronti dell’Opus Dei. Un benintenzionato zelo apostolico ha potuto «forzare» qualche decisione di impegno vocazionale o trasformare la missione in una attività dei cui risultati si debba rendere conto. Se è andata così, come evitare che torni a succedere? Sarebbe fecondo superare il proselitismo e promuovere un «apostolato del contagio»?
Benedetto XVI e Francesco hanno fatto riferimento al proselitismo nel significato negativo che ha assunto negli ultimi tempi, specialmente in ambito ecumenico, e hanno spiegato molto bene in che cosa consiste l’apostolato cristiano. Naturalmente, il significato con il quale san Josemaría impiegava il termine proselitismo
non era quello negativo; fu sempre un deciso difensore della libertà. Può darsi che talvolta alcuni abbiano commesso gli errori cui accenna. Mi viene in mente, fra le tante manifestazioni pratiche dell’amore di san Josemaría alla libertà, un fatto molto piccolo, che però considero molto significativo. Quando una madre gli chiese di benedire il bambino che portava in grembo, la benedizione fu questa: «Che tu sia molto amico della libertà».
— Forse l’obiettivo può essere che gli altri si domandino: «Da chi nasce la gioia e l’amore che sentono queste persone?».
In realtà, non si tratta tanto di fare apostolato, quanto di essere apostoli. Perciò ripeto che la testimonianza è assolutamente necessaria. Ma ciò non esclude, anzi richiede, la trasmissione positiva del Vangelo, la proposta di seguire Gesù che nasce dall’amore agli altri e, di conseguenza, ne rispetta pienamente l’intimità e la libertà. In questo, come in tutto, l’esempio di Gesù è illuminante e determinante. Non solo «passò beneficando», ma fu anche esplicito e molto diretto nel proporre: «Seguimi», «Convertitevi e credete nel Vangelo».
— L’Opus Dei è diventato un punto di riferimento per aver investito sull’educazione a tutti i livelli e in tutti i continenti. Come si vive nel mondo senza essere mondani? Certe volte, nelle imprese sostenute da istituzioni religiose s’insinua la logica del successo e passano in primo piano il raggiungimento dell’eccellenza o i meriti tangibili premiati dai ranking. Come evitare di finire per oscurare la missione autentica: mostrare sempre più e sempre meglio la bellezza del volto di Dio?
Prima accennavo al pericolo degli stereotipi dialettici. Penso che quando alcune persone dell’Opus Dei promuovono centri d’insegnamento, desiderano che siano eccellenti dal punto di vista professionale e, allo stesso tempo, che offrano una educazione cristiana eccellente, sempre rispettando la libertà degli studenti e delle loro famiglie. Non solo non esiste contrapposizione ma, anzi, lo spirito cristiano richiede l’integrazione. Da un altro punto di vista, si tratta di confermare con opere che il fatto di essere cristiano non comporta che si trascuri tutto ciò che è umano, ma tutto il contrario.
— Temo di non essere riuscita a esprimermi bene. Non si tratta tanto di un «o successi umani o mostrare Dio». E neppure mi riferivo specificamente agli apostolati dell’Opera. Viviamo in un clima di laicismo belligerante nel quale è facile pensare che fare il nome di Dio sia pericoloso e che sia meglio scriverlo in caratteri minuscoli o aggiungerlo poi come un adesivo posticcio. Come si può affrontare la sfida di parlare di Lui con naturalezza, con passione, senza complessi, come dell’amore benedetto che sostiene la nostra vita e le nostre imprese?
Non c’è dubbio che abbiamo la sensazione di vivere in tempi di insicurezza. Allo stesso tempo, si percepisce un gran desiderio di cambiamento. Il nostro mondo sembra allontanarsi da Dio e tuttavia si nota tanta sete spirituale...; temiamo i conflitti e manifestiamo grandi aneliti di pace. L’azione di Dio si compie oggi e ora, nel tempo che ci è toccato di vivere, e magari ci aprissimo a essa! Quando alcuni pensatori dicono che nella nostra società le relazioni interpersonali sono divenute liquide e alludono al nostro naufragio nell’effimero e nel superficiale... ciò non deve riempirci di pessimismo o di amarezza, ma spronarci a contagiare la gioia del Vangelo.
— Probabilmente uno dei primi passi da fare sarà rendersi conto che non sono tanto importanti i numeri quanto la grazia. Se praticassimo un cristianesimo di minoranza ma con la fede invincibile di un granello di senape...
Sono convinto che una delle sfide più importanti della Chiesa oggi sia dare speranza a ogni persona, specialmente ai più giovani, alle famiglie in difficoltà o che si sfasciano e alle vittime della povertà (non solo materiale, ma tante volte sotto forma di solitudine o di vuoto esistenziale). Affrontare questa sfida, tenendo presente i nostri limiti e i nostri peccati, è possibile solo rinascendo nello sguardo misericordioso di Gesù e pregandolo di inviarci a portare il suo amore ai nostri contemporanei.
— La Chiesa ha adottato per l’Opera la formula della prelatura personale al servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari. Però, spesso viene considerata una realtà «extra-diocesana». Per essere giusti, molti sacerdoti della Prelatura stanno sopperendo alla scarsità di sacerdoti diocesani. Ma in termini pratici, il fatto che i fedeli della Prelatura abbiano mezzi di formazione in centri propri, loro confessori, loro opere apostoliche..., può favorire una loro vita ai margini della vita quotidiana della parrocchia. Come affrontare il compito di essere pietre vive (integrate e non accostate) della struttura della Chiesa?
Forse a questo proposito succede che, quando si parla dell’Opera, si pensa soprattutto ai sacerdoti della Prelatura o ai numerari. Però la maggioranza dei fedeli dell’Opera sono soprannumerari, che partecipano attivamente alla vita delle loro parrocchie per quanto a loro è possibile (tenendo conto dei loro impegni di lavoro e di famiglia). Non è sempre facile avere tempo e ciascuno fa quello che può. D’altra parte i sacerdoti della Società della Santa Croce sono sacerdoti diocesani pienamente dediti alle attività pastorali delle loro diocesi. Secondo me, con il passare del tempo diverrà più evidente questa dimensione ecclesiale oggi, forse, meno conosciuta.
— A volte trascuriamo di considerare la realtà che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo e che ognuno, attraverso la propria vocazione, contribuisce al tesoro della grazia mediante la comunione dei santi. Però mi chiedo se un’altra delle grandi sfide nella nostra Chiesa non sia che le parrocchie si arricchiscano di più e meglio con i carismi che lo Spirito Santo suscita. Temo che sia indispensabile uno sforzo di entrambe le parti, superando pregiudizi e venendosi incontro reciprocamente.
Per questo, ci può aiutare un cambiamento di atteggiamento. Invece di contabilizzare che cosa fa ognuno, conviene rendere grazie al Signore perché ognuno di noi dà il suo contributo. Nella prima lettera che ho scritto da prelato, penso di essere stato chiaro al riguardo: «Desidero invitare alcuni fedeli della Prelatura, cooperatori e gente giovane, a offrirsi per collaborare, con piena libertà e responsabilità personali, nella catechesi, nei corsi prematrimoniali, nei lavori sociali, nelle parrocchie o in altri posti dove c’è bisogno di loro, purché si tratti di servizi che concordino con la loro condizione secolare e mentalità laicale, e senza che in questo dipendano dall’autorità della Prelatura. D’altra parte, voglio fare una menzione speciale delle religiose e dei religiosi, che tanto bene hanno fatto e fanno alla Chiesa e al mondo. “Chi non ama e venera lo stato religioso, non è un buon figlio mio”, ci insegnava nostro Padre. Mi rallegra, inoltre, pensare a tanti religiosi, oltre ai sacerdoti diocesani, che hanno visto fiorire la loro vocazione al calore dell’Opera».
— Mi viene in mente un’altra cosa che crea polemica nei confronti dell’Opera. Un aspetto della sua pratica pastorale. Il fatto che uomini e donne siano separati, a volte tanto efficace e necessario, è un elemento del carisma fondazionale? Non potrebbe apparire antinaturale se non ammette eccezioni? All’esterno potrebbe sembrare una direttiva che soffoca iniziative sane che potrebbero nascere naturalmente e/o favorire la convivenza dei giovani, la condivisione spirituale delle coppie di coniugi...
Nell’Opera la separazione tra donne e uomini si limita ai mezzi di formazione, ai centri dove viene impartita, all’organizzazione di apostolati diversificati. In questi casi la separazione è un carattere del carisma originale, che ha ben sperimentati motivi pastorali, anche se capisco che alcune persone non lo condividano e preferiscano altri modi di operare, ugualmente legittimi. Al di là di questi mezzi di formazione, vi sono molteplici attività alle quali partecipano donne e uomini: corsi per coniugi o fidanzati, riunioni per padri o madri nei club giovanili, iniziative di parrocchie affidate a sacerdoti della Prelatura, ecc. Per non parlare delle innumerevoli attività informali che nascono dalla stessa iniziativa e creatività delle famiglie. L’importante, a mio parere, è che uomini e donne sposati ricevano la formazione come un aiuto per consolidare la loro vita coniugale e la loro famiglia; con questo desiderio si offrono loro i mezzi di formazione dell’Opera.
— Viviamo in tempi di tensione, che allo stesso tempo sono appassionanti. Penso ai Paesi dove la Chiesa è perseguitata. Anche lì, tra i missionari del XXI secolo, vi sono molti spagnoli dell’Opus Dei che annunciano Dio. Nella vecchia Europa viviamo come anestetizzati. In che modo possiamo lenire il martirio di tanti nostri fratelli che stanno dando la vita per Cristo?
Prima di tutto, stando loro vicini con la preghiera. Non possiamo assuefarci a queste notizie che purtroppo si susseguono ogni giorno. San Josemaría, che soffriva profondamente tutto ciò che riguardava la Chiesa, denunciava la «cospirazione del silenzio» che pesava sui cristiani perseguitati, in particolare quelli che allora vivevano dietro la cortina di ferro. Chiese alle persone dell’Opera — e penso che sia un consiglio valido per tutti i cattolici — di contrastare il silenzio con l’informazione, facendo conoscere quello che succede ai cristiani perseguitati e aiutandoli nella misura delle nostre possibilità. L’informazione è la chiave, perché far conoscere la realtà può indurci ad aiutare più generosamente e attivamente.
— Certe volte abbiamo la sensazione di vivere in un mondo orfano. Che cosa ha chiesto alla Madonna, nostra Madre, nel suo viaggio a Fatima?
Alla sua presenza materna ho passato in rassegna alcune sfide di questo nostro mondo, tanto complesso ma appassionante. Le chiedevo la grazia di portare a tutti il Vangelo nella sua purezza originaria e, allo stesso tempo, nella sua novità radiosa. In un successivo messaggio ai miei figli ho scritto una cosa che ritengo possa servirci: «La chiamata a che ognuno di noi, con le sue risorse spirituali e intellettuali, con le sue capacità professionali o le sue esperienze di vita, e anche con i suoi limiti e difetti, si sforzi di vedere i modi di collaborare di più e meglio all’immenso compito di mettere Cristo al vertice di tutte le attività umane. Per questo è necessario conoscere in profondità i tempi in cui viviamo, le dinamiche che li percorrono, le potenzialità che li caratterizzano e i limiti e le ingiustizie, talvolta gravi, che li affliggono. Soprattutto è necessaria la nostra unione personale con Gesù, nella preghiera e nei sacramenti. Così potremo mantenerci aperti all’azione dello Spirito Santo, per bussare con carità alla porta dei cuori dei nostri contemporanei».
— Penso che queste parole possano concludere felicemente una conversazione nella quale avrei desiderato affrontare anche altri temi. Però dobbiamo chiudere qui. La ringrazio di cuore per il tempo che ci ha dedicato. Grazie per la sua franchezza e per non aver rifiutato domande scomode. Grazie per aver tentato, insieme, di gettare ponti.
Anch’io la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato. Inoltre, è stato meraviglioso parlare in un clima di libertà, di apertura e di affetto, nel quale impariamo sempre gli uni dagli altri. Sono contento che mi abbia posto alcune domande che forse potrebbero sembrare sgradevoli, ma che mi hanno dato la possibilità di trattare alcuni aspetti interessanti e che, oltretutto, erano motivate da un retto e sincero desiderio di cooperare alla diffusione della verità. A questo proposito, mi viene in mente una frase della terza lettera di san Giovanni, «Cooperatori della verità», che Joseph Ratzinger scelse come motto episcopale.
Romana, n. 65, Luglio-Dicembre 2017, p. 291-302.