Conferenza “Identità sacerdotale, pietà sacerdotale”, rivolta al clero di Valencia, Spagna (5-II-2010)
Con gioia e con il desiderio di imparare da voi tutti, ho accolto l’invito di Mons. Carlos Osoro di rivolgere alcune parole ai sacerdoti di questa arcidiocesi in occasione dell’Anno Sacerdotale. Se per me è sempre un motivo di gioia partecipare a una riunione con i miei fratelli nel sacerdozio, in questo caso si aggiunge il fatto di trovarmi a Valencia, una terra profondamente amata da San Josemaría Escrivá.
Molti sono i motivi che giustificano questo particolare affetto di San Josemaría per Valencia. Qui, infatti, ebbe luogo la prima espansione dell’Opus Dei, nata il 2 ottobre 1928, al di fuori di Madrid. In questa città il Fondatore dell’Opera venne spesso, prima e dopo il conflitto che flagellò il Paese, per gettare le basi dell’attività apostolica; da qui uscirono alcune delle prime persone — uomini e donne — chiamate da Dio all’Opus Dei; qui predicò vari corsi di ritiro spirituale — anche a seminaristi e a sacerdoti —, fin dal 1939, e coltivò un’amicizia fraterna con sacerdoti valenzani esemplari.
Senza la pretesa di una enumerazione esaustiva, mi piace ricordare alcuni di questi grandi servitori della Chiesa. In primo luogo, l’Arcivescovo Prudencio Melo y Alcalde, che insistette molto perché desse inizio al lavoro stabile dell’Opera in questa arcidiocesi; don Antonio Rodilla, Vicario Generale e poi Rettore del Seminario, che gli chiese di dirigere corsi di ritiro ai sacerdoti, ai seminaristi, agli universitari; il Servo di Dio don Eladio España, un sacerdote che godeva di grande fama di confessore e che inviava a San Josemaría i giovani desiderosi di ricevere una formazione più profonda nella fede e nella vita cristiana; e anche don Joaquín Mestre, segretario dell’Arcivescovo Marcelino Olaechea e testimone della fama di santità che il Fondatore dell’Opera godette in vita. Nel processo canonico per la beatificazione del Fondatore dell’Opus Dei, don Joaquín Mestre testimoniò quanto gli ripeteva mons. Marcelino negli ultimi anni: «Se io muoio prima di don Josemaría, tu dovrai testimoniare che l’ho sempre considerato un sacerdote santo». San Josemaría frequentò anche Mons. José María García-Lahiguera e l’amatissimo don Miguel Roca. Al primo riservò una particolare riconoscenza, perché l’aveva accolto fraternamente quando era bersaglio dell’incomprensione dei buoni; provò per don Miguel un affetto paterno, e lo orientò verso il sacerdozio.
Questi brevi ricordi ci introducono entro l’alveo in cui vogliono scorrere queste considerazioni: mostrare che la pietà sacerdotale, che scaturisce dal saperci alter Christus, ipse Christus, è condizione necessaria per l’efficacia del nostro ministero al servizio delle anime. Possiamo certamente fare nostre le parole che San Josemaría scrisse in uno dei suoi libri: “Dio mio, vedo che non ti accetterò come mio Salvatore, se nel contempo non ti riconosco come Modello”[1].
1. Il sacerdozio di Cristo, unico sacerdozio della Nuova Alleanza
Il decreto Presbyterorum ordinis del Concilio Vaticano II mette in evidenza sin dalle prime righe che “nostro Signore Gesù, ‘che il Padre santificò e inviò nel mondo’ (Gv 10,36), ha reso partecipe tutto il suo corpo mistico di quella unzione dello Spirito che egli ha ricevuto (cfr. Mt 3,16; Lc 4,18; At 4,27 e 10,38)”[2]. Questa verità costituisce il fondamento di un insegnamento basilare sulla natura della Chiesa: la partecipazione di tutti i cristiani all’unzione e all’opera salvifica di Cristo, vale a dire, al suo Sommo Sacerdozio. Infatti, commentando le parole della prima Lettera di San Pietro, il Concilio prosegue: “In Cristo tutti i fedeli formano un sacerdozio santo e regale, offrono a Dio ostie spirituali per mezzo di Gesù Cristo e annunziano la grandezza di colui che li ha chiamati dalle tenebre nella sua luce meravigliosa (cfr. 1 Pt 2,5.9). Non vi è dunque nessun membro che non abbia parte nella missione di tutto il corpo, ma ciascuno di essi deve santificare Gesù nel suo cuore (cfr. 1 Pt 3,15) e rendere testimonianza di Gesù con spirito di profezia (cfr. Ap 19,10)”[3].
Conservo molto vivo il ricordo della gioia con la quale San Josemaría accolse questo insegnamento conciliare, in quanto, con il suo ministero sacerdotale, aveva diffuso questa splendida realtà per più di sette lustri. Perciò sono d’accordo con coloro che considerano questo santo sacerdote come un precursore del Concilio in questa dottrina, tanto essenziale per la spiritualità laicale nella Chiesa, e in altri aspetti della dottrina cristiana, contenuti nei documenti di quella Assemblea ecumenica, come la chiamata universale alla santità[4].
Il decreto Presbyterorum ordinis aggiunge subito dopo che il Signore “promosse alcuni di loro [fra i battezzati] come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero la sacra potestà dell’Ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati[5], e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale”[6]. Su queste basi, vorrei mettere in evidenza alcune conseguenze per la nostra vita e la nostra missione sacerdotale.
Cominciamo a ricordare che nella Chiesa ogni sacerdozio è partecipazione dell’unico sacerdozio di Cristo, come mirabilmente indica la Lettera agli Ebrei. Dio, arrivata “la pienezza dei tempi”, volle suscitare un nuovo sacerdozio che sostituisse il sacerdozio levitico. Quest’ultimo era buono e conveniente al tempo in cui era stato istituito, ma era destinato a scomparire quando si fosse compiuto il suo mandato di preparazione al sacerdozio eterno e immutabile di Cristo, un sacerdozio nuovo “alla maniera di Melchisedek” (cfr. Eb 5,6.10; 6,20; 7,1-3.11-17).
L’autore della lettera espone i motivi per i quali, già nella Legge antica, il sacerdozio di Melchisedek si era dimostrato superiore al sacerdozio levitico; e anche le ragioni intrinseche della superiorità del sacerdozio di Cristo — perfetto, indefettibile ed eterno —, suggellato da Dio con un giuramento. Conclude sottolineando che soltanto Cristo poteva incarnare un tale sacerdozio: “Tale era infatti il Sommo Sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo sé stesso» (Eb 7,26-27).
Competeva a Cristo il Sommo Sacerdozio perché lo era — ed è — in æternum, come Figlio di Dio, santo e immacolato. Se la lettera aggiunge l’espressione “separato dai peccatori”, non è perché si fosse allontanato da noi uomini e suoi fratelli — perché era venuto a cercare quello che si era perduto (cfr. Lc 15,1ss) —, ma perché non aveva alcuna macchia di peccato (cfr. Eb 4,15). L’autore della Lettera agli Ebrei, d’altra parte, fa rilevare che Cristo “con un’unica oblazione ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” (Eb 10,14), alludendo con questa frase all’unico sacrificio veramente redentore, quello della Croce[7].
L’espressione “ha reso perfetti” definisce una formula di profondo contenuto teologico, poiché racchiude in sé l’idea di “perfezione”, “pienezza”, “consacrazione”, “santificazione”. La corrispondente espressione ebraica si utilizzava per l’unzione dei sacerdoti dell’Antica Alleanza e per la consacrazione del Tempio. Inoltre — conviene ricordarlo — è l’ultima parola che Gesù pronunciò dalla Croce: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30).
In sostanza, l’autore della Lettera agli Ebrei vuole dirci che Cristo compì un sacrificio di tale infinita efficacia, che coloro che partecipano con sincerità di cuore quando Egli si fa presente sull’altare possono raggiungere la perfezione, la santità di vita, il perdono dei peccati, la purezza della coscienza, l’accesso alla vita intima di Dio. Grazie all’offerta fatta da Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, si può affermare — con le parole pronunciate da San Josemaría in una omelia del Venerdì Santo — che “l’abisso di malizia che il peccato comporta è stato colmato da una carità infinita. Dio non abbandona gli uomini [...]. Possiamo immaginare — per avvicinarci in qualche modo a questo insondabile mistero — che la Trinità, nella sua intima e ininterrotta relazione d’amore infinito, decida eternamente che il Figlio Unigenito di Dio Padre assuma la condizione umana, caricandosi delle nostre miserie e dei nostri dolori, per finire inchiodato a un legno”[8]. Però Egli vince con la sua risurrezione, e così ci aprono a una grande speranza le parole finali dell’omelia: “Potremo chiamarci vincitori: perché Cristo risorto vincerà in noi e la morte si trasformerà in vita”[9].
2. Le coordinate del ministero sacerdotale
La condizione dei presbiteri è caratterizzata da una dimensione profondamente cristologica, ragione per la quale tutta la vita sacerdotale dev’essere un riflesso della santità, dell’autorità e della donazione senza limiti di Cristo. A questo si unisce, in modo inseparabile, la dimensione ecclesiologica, per la quale tutta l’attività sacerdotale dev’essere orientata al servizio del popolo di Dio, alla santificazione degli uomini. Per questo, per non lasciare spazio a dubbi, con una fede profonda, San Josemaría si poneva la domanda «qual è l’identità del sacerdote?», e diceva: quella di Cristo, che vuole perpetuare il suo sacerdozio — l’unico sacerdozio — attraverso i suoi ministri[10].
a) La prospettiva cristologica del ministero sacerdotale
Dato che il sacerdozio dei presbiteri deriva direttamente dal sacerdozio di Cristo, il loro ministero nella Chiesa deve avere una relazione intima e immediata con quel sacerdozio: “Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro”, scrive San Paolo ai Corinti (2 Cor 5,20). Il decreto conciliare lo sottolinea con queste parole: “I presbiteri, in virtù della sacra ordinazione e della missione che ricevono dai Vescovi, sono promossi al servizio di Cristo Maestro, Sacerdote e Re; essi partecipano al suo ministero”[11]. Il Signore si serve dei sacerdoti per conservare nella Chiesa la sua presenza vitale, secondo la promessa: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
In questo senso, è assai significativo che nel suo primo incontro con il clero di Roma, il 13 maggio 2005, Benedetto XVI indicasse un punto decisivo: «È indispensabile ritornare sempre di nuovo alla radice del nostro sacerdozio. Questa radice, come ben sappiamo, è una sola: Gesù Cristo Signore». Poi il Romano Pontefice aggiungeva: «Ma questo Gesù non ha nulla che gli appartenga in proprio, è tutto interamente del Padre e per il Padre». Da qui il Papa traeva la conseguenza per ciascuno di noi: «Questa è anche la vera natura del nostro sacerdozio. In realtà, tutto ciò che è costitutivo del nostro ministero non può essere il prodotto delle nostre capacità personali». Quindi il Santo Padre discendeva alle conseguenze concrete: «Siamo mandati non ad annunciare noi stessi o le nostre opinioni personali, ma il mistero di Cristo [...]. Siamo incaricati non di dire molte parole, ma di farci eco e portatori di una sola “Parola”, che è il Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza»[12].
Così, dunque, realizzarsi come sacerdote significa essere pienamente unito a Cristo, identificarsi con Lui nel ministero sacerdotale e in tutto il comportamento. Si tratta di essere trasparenti, in modo tale che i fedeli vedano il Maestro, il Redentore, senza sentirsi attratti a fissare lo sguardo sulla persona del sacerdote. A tal proposito, mi sembra altamente significativo un fatto accaduto in questa terra valenzana. Lo narra una delle prime donne dell’Opus Dei, Encarnita Ortega, della quale è in corso il processo di beatificazione, che partecipò a un corso di ritiro per universitarie predicato da San Josemaría ad Alacuás, dove le Operarias Doctrineras avevano una casa di esercizi.
Encarnita era allora una giovinetta di ventun anni ed era andata al ritiro mossa dal desiderio — o magari dalla curiosità — di conoscere l’autore di Cammino, un libro che aveva originato in lei un’eco profonda. Dopo la morte di San Josemaría scrisse una testimonianza nella quale dichiara fino a che punto restò impressionata dalla figura di quel sacerdote ancor prima di sentirlo predicare. Scrive: “Il suo raccoglimento pieno di naturalezza, la sua genuflessione davanti al tabernacolo e il modo di farci assaporare l’orazione preparatoria della meditazione, incoraggiandoci a essere consapevoli che il Signore stava lì, e ci guardava e ci ascoltava, mi fecero dimenticare subito il mio desiderio di ascoltare un grande oratore, e invece capii l’importanza di ascoltare Dio e di essere generosa con Lui”[13].
Pienamente coerente con questo comportamento è il seguente consiglio di San Josemaría: “Mi pare che a noi sacerdoti venga chiesta l’umiltà di imparare a non essere di moda; dobbiamo essere veramente servi dei servi di Dio — ricordando il grido di Giovanni Battista: Illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3,30), bisogna che Cristo cresca e che io diminuisca —, per far sì che i comuni cristiani, i laici, rendano presente Cristo in tutti gli ambienti della società”[14].
b) La prospettiva ecclesiologica
Ritorniamo alla Lettera agli Ebrei, al capitolo 5. Prima di tutto si sofferma sul sacerdozio levitico, alcuni elementi del quale sono perenni: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per sé stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuire a sé stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì Colui che gli disse: ‘Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato’. Come in un altro passo dice: ‘Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek’” (Eb 5,1-6).
Queste parole tracciano e descrivono la missione che compete al sacerdote nella Chiesa, in armonia con il suo essere e il suo vivere in Cristo. Il ministero sacerdotale si caratterizza perché è profondamente ecclesiale. Il presbitero, “preso fra gli uomini” da una vocazione divina, che si attua ricevendo il sacramento dell’Ordine, “viene costituito per il bene degli uomini”: ordinato al bene di tutta l’umanità. Non a un bene terreno, pur non disinteressandosi egli della felicità temporale; però non è questo che definisce la sua missione, ma “le cose che riguardano Dio”. Secondo la definizione che San Paolo darà di Timoteo, il sacerdote è un “uomo di Dio” (1 Tm 6,11). E come ripeteva San Josemaría durante la sua vita, parafrasando l’Apostolo: dobbiamo predicare Cristo, che per ogni creatura è l’Amore del Cielo.
Nel citato incontro con il clero romano, Benedetto XVI ha messo in rilievo che, «poiché ha in Cristo la sua radice, il sacerdozio è, per sua natura, nella Chiesa e per la Chiesa [...]. Ha un rapporto costitutivo con il corpo di Cristo, nella sua duplice e inseparabile dimensione di Eucaristia e di Chiesa, di corpo eucaristico e di corpo ecclesiale. Perciò il nostro ministero è amoris officium (Sant’Agostino, In Ioannis Evangelium tractatus 123, 5), è l’ufficio del buon pastore, che offre la vita per le pecore (cfr. Gv 10,14-15)»[15] e che compie con gioia, cosciente di questa meravigliosa realtà, perché ognuno è sacerdos in æternum, oggi, ora e per sempre.
Sul dovere di essere “buon pastore” a somiglianza del Buon Pastore, Cristo, il Papa insiste nell’omelia della Messa in occasione di una ordinazione presbiterale, dove si è soffermato sulle “tre affermazioni fondamentali di Gesù sul buon pastore”. La prima è che il buon pastore dà la sua vita per le pecore. «Dobbiamo donarla giorno per giorno — spiegava il Santo Padre —. Occorre imparare giorno per giorno che io non possiedo la mia vita per me stesso. Giorno per giorno devo imparare ad abbandonare me stesso; a tenermi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti».
La seconda affermazione è che il Buon Pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono Lui (cfr. Gv 10,14-15). «Innanzitutto nel nostro intimo dobbiamo vivere il rapporto con Cristo e per il suo tramite con il Padre; solo allora possiamo veramente comprendere gli uomini [...], essere aperti per le loro necessità e le loro domande [...]. Deve essere un conoscere con il cuore di Gesù e orientato verso di Lui, un conoscere che non lega l’uomo a me, ma lo guida verso Gesù, rendendolo così libero e aperto».
La terza caratteristica è: “Ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10,16). E il Papa conclude: «Ovviamente un sacerdote, un pastore d’anime, deve innanzitutto preoccuparsi di coloro che credono e vivono con la Chiesa [...]. Tuttavia, dobbiamo anche sempre di nuovo — come dice il Signore — uscire “per le strade e lungo le siepi” (Lc 14,23) per portare l’invito di Dio al suo banchetto anche a quegli uomini che finora non ne hanno ancora sentito niente, o non ne sono stati toccati interiormente»[16].
In questo contesto mi sembrano assai significative altre parole di San Josemaría, con le quali superava l’equivoco di chi ritiene “che i cristiani desiderino vedere nel sacerdote un uomo come gli altri. Ma si inganna. I fedeli — diceva — vogliono certamente ammirare nel sacerdote le virtù proprie di ogni cristiano e peraltro di ogni persona onesta: la comprensione, la giustizia, la dedizione al lavoro — lavoro sacerdotale, in questo caso —, la carità, l’educazione, la delicatezza nel tratto con gli altri. Ma, accanto a ciò, pretendono che risalti chiaramente il carattere sacerdotale”[17].
Poi esemplificava ciò che è implicito in queste affermazioni: “Si aspettano dal sacerdote che preghi, che non rifiuti l’amministrazione dei Sacramenti, che sia disposto ad accogliere tutti senza porsi alla testa o militare in fazioni umane, quali che siano (cfr. Presbyterorum ordinis, n. 6); che metta amore e devozione nella celebrazione della Santa Messa, segga in confessionale, consoli i malati e gli afflitti; che con la catechesi dia dottrina ai bambini e agli adulti, che predichi la parola di Dio e non l’una o l’altra delle scienze umane — ancorché le conosca perfettamente — perché quella non sarebbe la scienza che salva e che conduce alla vita eterna; che abbia dono di consiglio e carità verso i bisognosi”[18].
Queste considerazioni ci permettono di addentrarci nella terza parte della nostra esposizione.
3. Alcune costanti proprie della vita sacerdotale
Nel parlare del ministero dei presbiteri, il decreto Presbyterorum ordinis ricorda come funzioni primordiali, in relazione con i tria munera Christi, il ministero della parola, quello dei sacramenti e quello di governare il popolo di Dio.
a) Il ministero della parola
La comunità cristiana, spiega il decreto conciliare, “viene adunata innanzitutto per mezzo della parola del Dio vivente, che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra dei sacerdoti. Dato, infatti, che nessuno può essere salvo se prima non ha creduto, i presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei Vescovi, hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il Vangelo di Dio”[19]. Esiste, dunque, un dovere ineludibile di trasmettere la “parola di Dio”, in modo che la fede raggiunga tutti gli uomini di qualunque razza e condizione. Il suo fondamento sta nel mandato di Gesù agli Apostoli e a quanti avrebbero continuato la sua missione nel tempo: annunciare il “Vangelo”, la “buona novella” del Regno che era stato instaurato con la sua venuta. Lo aveva capito chiaramente l’Apostolo delle genti, quando affermava: “Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9,16).
Non è questo il momento di soffermarci sul modo di portare avanti il ministero della parola, un compito che — secondo le circostanze in cui si trovano le persone, i luoghi e i tempi — può presentare le forme più varie, tra le quali l’omelia occupa un posto privilegiato. Però giudico di enorme interesse riferirmi al fatto che il sacerdote, in quanto inviato da Cristo ad annunciare il messaggio evangelico, deve stimolare vivamente la “santa preoccupazione”[20] di portare a tutte le anime la fede e l’amore di Dio, includendo tutto ciò che dà un senso e un orientamento alla vita umana, in vista della felicità eterna, sempre con abbondanza di verità e con un linguaggio efficace e attraente.
Prima ho fatto riferimento alla fama di buon predicatore che circondava San Josemaría già negli anni ’40, come dimostra il fatto che molti Vescovi lo chiamavano perché predicasse i corsi di ritiro ai sacerdoti delle rispettive diocesi[21]. A tal proposito, Mons. Álvaro del Portillo ricordava un commento di mons. Luciano Pérez Platero, che poi diverrà Arcivescovo di Burgos. Quando era Vescovo di Segovia, partecipò a un corso di ritiro per il clero e, alla fine, sentì l’obbligo di rivolgere al predicatore alcune parole di ringraziamento. Fra le altre cose, disse: «Don Josemaría ferisce sempre; alcune volte con la spada toledana, altre volte con una bomba a mano».
Mi sembra che questo commento illustri molto bene la “santa preoccupazione” che ogni sacerdote dovrebbe suscitare nelle anime dei fedeli con la sua predicazione. Non è frutto dell’eloquenza, né della sapienza umana — anche se bisogna cercare di coltivarle —, ma è opera dello Spirito Santo. Il Paraclito si serve della vita interiore e della preparazione dei presbiteri per produrre nelle anime queste reazioni salutari.
Permettetemi di ritornare a quel corso di ritiro ad Alacuás, al quale mi sono riferito in precedenza. La protagonista del racconto scrive che, nell’ascoltare le parole del Fondatore dell’Opus Dei, sentì una profonda inquietudine soprannaturale. Si rese conto che il Signore la invitava a dargli la vita intera in mezzo al mondo; però la sua prima reazione fu di autodifesa, di voler soffocare la voce che risuonava nel suo intimo per mezzo delle parole del sacerdote. Finché un giorno del ritiro, San Josemaría predicò sulla Passione del Signore, e invitò le presenti a considerare quelle scene come attuali, in modo personale: «Ha patito tutto questo per te. E tu, visto che non vuoi fare ciò che Egli ti sta chiedendo, abbi almeno il coraggio di guardare il Tabernacolo e di dirgli: questo che mi stai chiedendo, non lo voglio fare!»[22].
L’epilogo di questa lotta interiore fu chiaro. Anche quella donna volle fare l’Opera e, insieme ad altre giovani, costituì il primo nucleo stabile di donne dell’Opus Dei, che allora si stava consolidando. Proprio il prossimo 14 febbraio si compiranno 80 anni dal giorno in cui il Signore mise nell’anima di San Josemaría questo desiderio, e perciò mi permetto di chiedere preghiere affinché questo fermento di santità continui a essere molto efficace nella vita dei cristiani.
Da questi episodi possiamo dedurre un insegnamento. Perché la voce di Cristo, che parla nella sua Chiesa, risuoni fedelmente in sé stesso e negli altri, il sacerdote deve sforzarsi di crescere continuamente nell’intimità con Dio. Per questa ragione deve dedicare il tempo necessario alla meditazione della parola di Dio e preparare con diligenza la predicazione nelle sue diverse forme. La trasmissione della parola di Dio, come indicava San Josemaría, esige «vita interiore: dobbiamo parlare agli altri di cose sante, ex abundantia enim cordis, os loquitur (Mt 12,34); dall’abbondanza del cuore parla la bocca. E insieme con la vita interiore, studio [...]. Studio, dottrina che incorporiamo nella nostra vita, e che solo così sapremo dare agli altri nel modo più conveniente, adattandoci alle loro necessità e alle loro circostanze con dono di lingue»[23].
b) Il ministero dei sacramenti
Ricordavamo che il Concilio Vaticano II presenta l’istituzione del sacerdozio ministeriale dicendo che il Signore “promosse alcuni di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero la sacra potestà dell’Ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati”[24].
Infatti la missione santificatrice dei presbiteri si manifesta soprattutto nella celebrazione di due sacramenti: l’Eucaristia e la Penitenza. Sull’altare si fa presente il Santo Sacrificio del Calvario, sorgente della vita della Chiesa, e nella confessione sacramentale, auricolare e segreta, avviene l’incontro sublime di Cristo con ogni anima per perdonarle i peccati. La celebrazione di questi due sacramenti — spiegava San Josemaría — “è così capitale nella missione del sacerdote, che tutto il resto deve far perno su di essa. Gli altri compiti sacerdotali — la predicazione e l’istruzione religiosa — non avrebbero fondamento se non fossero orientati a insegnare come trattare Cristo, come incontrarlo nel tribunale amoroso della Penitenza e della rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, la Santa Messa”[25].
Per questo, i molti sacerdoti santi della Chiesa — ce ne sono anche ora — hanno fatto presente ogni giorno il Santo Sacrificio e hanno cercato di dedicare tutte le ore possibili della loro giornata alla celebrazione del sacramento della Penitenza, come è evidente nel caso del Curato d’Ars. Non si può dimenticare che questo santo patrono dei confessori, malgrado la burrasca rivoluzionaria del suo tempo avesse tentato di eliminare qualunque vestigia di pratica religiosa, «cercò con tutti i mezzi, nella predicazione e con consigli persuasivi, che i suoi parrocchiani riscoprissero il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come una intima esigenza della presenza eucaristica»[26].
Per ciò che si riferisce al Sacrificio eucaristico, mi sembra quanto mai opportuno, in questo contesto, rileggere queste parole di Benedetto XVI: «Nel mistero eucaristico Cristo si dona sempre di nuovo, e proprio nell’Eucaristia noi impariamo l’amore di Cristo e quindi l’amore per la Chiesa. Ripeto pertanto con voi, cari fratelli nel sacerdozio, le indimenticabili parole di Giovanni Paolo II: “La Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata”. E questa dovrebbe essere una parola che ognuno di noi può personalmente dire come parola sua: la Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata»[27].
Sì, la Santa Messa dev’essere per tutti noi “centro e radice della vita interiore”, come San Josemaría ripeteva a tutti i fedeli[28]. Però è necessario compiere una intensa attività di catechesi, di formazione e di orientamento per ciò che si riferisce alla vita sacramentale, con l’esempio e con la parola. Insieme a questo — aggiungerei —, dobbiamo curare con diligenza la casa di Dio e l’arte liturgica che l’arricchisce, affinché tutto si svolga con la massima dignità e si realizzi un culto degno del Signore: “La mia casa”, ci avverte la Scrittura, dev’essere “casa di preghiera per tutte le genti” (Mc 11,17).
Noi sacerdoti dobbiamo impegnarci anche nel culto eucaristico al di fuori della Messa, nella frequentazione di Cristo nel Tabernacolo. Affiora alla mia memoria un altro episodio della vita del Fondatore dell’Opus Dei, che getta una gran luce su questo punto. Accadde nel 1974, alla fine della sua esistenza su questa terra, durante un lungo viaggio pastorale per vari Paesi dell’America del Sud. Un giorno mostrarono a San Josemaría alcune diapositive del Perù; fra le altre, ce n’era una nella quale si vedevano gli effetti di uno smottamento del terreno, tipico dei paesi andini, che aveva seppellito un villaggio. Si vedeva solo la parte superiore del campanile della chiesa. Quando gli dissero che in quella chiesa era riposta l’Eucaristia, perché non era stato possibile toglierla prima che si producesse la frana, San Josemaría rimase fortemente impressionato. Il pensiero di quel tabernacolo sepolto sotto diversi metri di fango, nel quale il Signore era rimasto solo, non lo fece dormire per tutta la notte: la passò in veglia, tenendo compagnia al Santissimo Sacramento con il desiderio, facendo molti atti di amore e comunioni spirituali.
c) Guidare il popolo di Dio
Ai presbiteri è stato affidato anche il ministero di guidare il popolo di Dio, partecipando dell’autorità di Cristo Capo e Pastore. Si tratta di una potestà spirituale, conferita per l’edificazione delle anime (cfr. 2 Cor 10,8; 13,10). In questo compito — ricorda il Concilio Vaticano II — “devono avere con tutti dei rapporti improntati alla più delicata bontà, seguendo l’esempio del Signore. E nel trattare con gli uomini non devono regolarsi in base ai gusti di questi (cfr. Gal 1,10), bensì in base alle esigenze della dottrina e della vita cristiana, istruendoli e anche ammonendoli come figli carissimi (cfr. 1 Cor 4,14), secondo le parole dell’Apostolo: ‘Insisti a tempo e fuor di tempo: rimprovera, supplica, esorta con ogni pazienza e dottrina’ (2 Tm 4,2)”[29].
Sono molteplici gli aspetti nei quali si manifesta questo comportamento pieno di carità, che deve accompagnare la vita dei sacerdoti. Ne ricordo solo alcuni: non cercare i propri interessi, ma quelli di Cristo (cfr. Fil 2,21); imitare Cristo, che “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28); riconoscere e promuovere sinceramente il ruolo che compete a ogni cristiano nella missione della Chiesa; rispettare al massimo la giusta libertà che tutti hanno nella società umana; assecondare le nobili aspirazioni che nascono nella comunità cristiana; esaminare con l’aiuto della grazia i diversi carismi, riconoscendoli con gioia quando sono di Dio e stimolandoli diligentemente, specialmente quelli che invitano a una vita spirituale più elevata. In definitiva, lo dico citando la Presbyterorum ordinis, “i presbiteri si trovano in mezzo ai laici per condurre tutti all’unità della carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10) [...]. In modo speciale devono aver cura di quanti hanno abbandonato la frequenza dei sacramenti o forse addirittura la fede, e come buoni pastori non devono tralasciare di andare alla loro ricerca”[30].
4. Il primato della grazia nella vita sacerdotale
Entrando nell’ultima parte di questa esposizione, vorrei leggere alcune parole del Papa in un altro incontro con sacerdoti, questa volta nella Diocesi di Albano.
«Il tempo che ci riserviamo per la preghiera non è un tempo sottratto alla nostra responsabilità pastorale, ma è proprio “lavoro” pastorale, è pregare anche per gli altri. Nel “Comune dei pastori” si legge come caratterizzante per il Pastore buono che “multum oravit pro fratribus”. Questo è proprio del pastore, che sia uomo di preghiera, che stia dinanzi al Signore pregando per gli altri, sostituendo anche gli altri, che forse non sanno pregare, non vogliono pregare, non trovano il tempo per pregare. Come si evidenzia così che questo dialogo con Dio è opera pastorale!»[31].
Poi, riferendosi alla celebrazione del Sacrificio dell’Altare e alla recita della Liturgia delle Ore, aggiungeva: «La Chiesa ci dà, quasi ci impone — ma sempre come una Madre buona — di avere tempo libero per Dio, con le due pratiche che fanno parte dei nostri doveri: celebrare la Santa Messa e recitare il Breviario. Ma più che recitare, realizzarlo come ascolto della Parola che il Signore ci offre nella Liturgia delle Ore. Occorre interiorizzare questa Parola, essere attenti a che cosa il Signore mi dice con questa Parola, ascoltare poi il commento dei Padri della Chiesa o anche del Concilio, nella seconda Lettura dell’Ufficio delle Letture, e pregare con questa grande invocazione che sono i Salmi, con i quali siamo inseriti nella preghiera di tutti i tempi [...]. Questo tempo dedicato alla Liturgia delle Ore è tempo prezioso»[32].
La pietà sacerdotale consiste in un solido e profondo rapporto con Dio Padre per mezzo di Cristo in unione con lo Spirito Santo, alimentato alle sorgenti della Parola di Dio e della Santissima Eucaristia, e animato da una tenera devozione verso la Madonna, Madre del Sommo Sacerdote e Regina degli Apostoli. Lo capiva bene San Paolo quando, nella lettera a Timoteo, scriveva: “Esercitati nella pietà, perché l’esercizio fisico è utile a poco, mentre la pietà è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente come di quella futura. Certo questa parola è degna di fede. Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il Salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono” (1 Tm 4,8-10).
Perché questa pietà fiorisca è certamente indispensabile la pace interiore, “perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace” (1 Cor 14,33), questa pace mirabilmente data dalla grazia del sacramento della Penitenza e che procede, da una parte, dalla santa lotta per evitare quelle che l’Apostolo chiama “le opere della carne” (Gal 5,19); e, dall’altra, dall’accuratezza nel coltivare i frutti che, secondo lo stesso San Paolo, lo Spirito Santo produce in noi: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).
Per vivere la pietà sacerdotale, in definitiva, bisogna fortificare la fede, la speranza e l’amore, riponendo tutta la fiducia in Dio, con un’autentica devozione filiale, perché siamo realmente figli suoi in Cristo, una verità gioiosa che deve guidarci continuamente. Qualunque cosa accada — dobbiamo pensare — accade per bontà di Dio; e anche quello che è umanamente penoso — anche se non lo comprendiamo —, sappiamo che Dio lo permette per bontà, per ricavare beni più grandi.
Il Concilio Vaticano II ci ha chiesto di vivere il nostro ministero “a immagine del Sommo ed Eterno Sacerdote, Pastore e Vescovo delle anime nostre, […] con santità e slancio, con umiltà e forza”[33]. Per questo abbiamo bisogno di una forte unità di vita, espressione tipica di San Josemaría. Gli piaceva ripetere, in un modo o nell’altro, che “vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che deve essere — nell’anima e nel corpo — santa e piena di Dio”[34]. Applicando queste parole alla nostra esistenza sacerdotale, direi che si tratta di cercare la crescita nell’amore a Dio e al prossimo mediante l’esercizio quotidiano del nostro ministero, a volte in compiti umili e nascosti, che saranno sempre trasformati dalla grazia in sentieri gioiosi di santità e di servizio agli altri.
Concludo con altre parole del Fondatore dell’Opus Dei, che con tanta lealtà ha incarnato la figura del Sommo ed Eterno Sacerdote. Diceva: «Il sacerdote, se ha un autentico spirito sacerdotale, se è uomo di vita interiore, non si potrà mai sentire solo. Nessuno come lui potrà avere un cuore tanto innamorato! È l’uomo dell’Amore, il rappresentante fra gli uomini dell’Amore fatto uomo. Vive attraverso Cristo, per Cristo, con Cristo e in Cristo. È una realtà divina che mi commuove fino alle lacrime, quando tutti i giorni, alzando e tenendo tra le mani il Calice e la Santa Ostia, ripeto adagio, assaporandole, le parole del canone: Per Ipsum, et cum Ipso et in Ipso... Attraverso Lui, con Lui, in Lui, per Lui e per le anime io vivo. Del suo Amore e per il suo Amore io vivo, malgrado le mie miserie personali. E malgrado queste miserie, o magari attraverso di esse, il mio Amore è un amore che si rinnova ogni giorno»[35].
Chiediamo a Santa Maria, Madre del Bell’Amore, Madre dei sacerdoti, che ci ottenga dalla Trinità questi sentimenti.
[1] SAN JOSEMARÍA, Forgia, n. 46.
[2] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 2.
[3] Ibid. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 35.
[4] Fra le altre testimonianze, mi è particolarmente gradito riprendere alcune parole pronunciate dal Servo di Dio Giovanni Paolo II durante una omelia, poco dopo la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Diceva il Santo Padre a un gruppo di fedeli dell’Opus Dei: «La vostra istituzione ha come fine la santificazione della vita rimanendo nel mondo, nel proprio posto di lavoro e di professione: vivere il Vangelo nel mondo, pur vivendo immersi nel mondo, ma per trasformarlo e redimerlo con il proprio amore a Cristo! Grande ideale, veramente, il vostro, che fin dagli inizi ha anticipato quella teologia del laicato, che caratterizzò poi la Chiesa del Concilio e del post-Concilio» (GIOVANNI PAOLO II, Omelia, 19-VIII-1979, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, II/2, p. 142). Sulla stessa linea si sono espressi molti altri uomini di Chiesa, come il Card. S. Baggio (“Avvenire”, Milano, 26-VII-1975); il Card. J. Frings (Für die Menschen bestellt, Erinnerungen des Alterzbischofs von Köln, Colonia, 1973, pp. 149-150); il Card. F. König (“Corriere della Sera”, Milano, 9-XI-1975); il Card. M. González Martín (“Los Domingos de ABC”, Madrid, 14-VIII-1975); il Card. N. Jubany (“ABC”, Madrid, 8-IV-1979); il Card. J. Höffner (“Mundo Cristiano”, n. 201, ottobre 1979), ecc. Vedi A. DE FUENMAYOR, V. GÓMEZ-IGLESIAS, J.L. ILLANES, El itinerario jurídico del Opus Dei, Eunsa, Pamplona, 1989, pp. 367-368.
[5] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, Sess. XXIII, cap. 1 e can. 1: DS 1764 e 1771.
[6] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 2b.
[7] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1545.
[8] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 95.
[9] Ibid., n. 101.
[10] Cfr. SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[11] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 1.
[12] BENEDETTO XVI, Discorso al clero di Roma, 13-V-2005.
[13] Cit. in A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, Leonardo International, Milano 2003, vol. II, p. 561. Questo episodio è stato citato dal Cardinale Joseph Ratzinger in un discorso in occasione del 30° anniversario del Decreto Presbyterorum ordinis, per sottolineare fino a che punto la pietà personale del sacerdote è importante per avvicinare le anime a Dio (cfr. J. RATZINGER, «Il ministero e la vita dei presbiteri», 27-X-1995, in Studi Cattolici 423, maggio 1996, pp. 324-332).
[14] SAN JOSEMARÍA, Colloqui, n. 59.
[15] BENEDETTO XVI, Discorso al clero di Roma, 13-V-2005.
[16] BENEDETTO XVI, Omelia in una ordinazione sacerdotale, 7-V-2006.
[17] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[18] Ibid.
[19] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 4.
[20] CARD. J. RATZINGER, Omelia durante la Messa pro eligendo Pontifice, 18-IV-2005.
[21] I suoi biografi sottolineano che vi furono anni in cui passarono dalle sue mani più di mille sacerdoti in diversi corsi di ritiro spirituale. Vedi la relazione parziale dell’attività di predicazione di San Josemaría tra il 1938 e il 1946, anno in cui si trasferì a Roma, in A. VÁZQUEZ DE PRADA, cit., vol. II, pp. 760-766.
[22] Cfr. A. VÁZQUEZ DE PRADA, cit., p. 562.
[23] SAN JOSEMARÍA, Lettera 8-VIII-1956, n. 25.
[24] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 2.
[25] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[26] BENEDETTO XVI, Lettera per la convocazione di un Anno Sacerdotale in occasione del 150° anniversario del dies natalis del Santo Curato d’Ars, 16-VI-2009.
[27] BENEDETTO XVI, Discorso al clero di Roma, 13-V-2005. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso in occasione del trentesimo anniversario del Decreto Presbyterorum ordinis, 27-X-1995.
[28] Cfr., fra gli altri, È Gesù che passa, nn. 87 e 102; Forgia, n. 69; Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.
[29] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 6.
[30] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 9.
[31] BENEDETTO XVI, Incontro con i sacerdoti della Diocesi di Albano, 31-VIII-2006.
[32] Ibid.
[33] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 41.
[34] SAN JOSEMARÍA, Colloqui, n. 114.
[35] SAN JOSEMARÍA, Note di una riunione di famiglia, 10-IV-1969 (AGP, P01, 1969, p. 502). Cit. in J. ECHEVARRÍA, “Para servir a la Iglesia. Homilias sobre el sacerdocio”, Rialp 2001, p. 243.
Romana, n. 50, Gennaio-Giugno 2010, p. 100-112.