Discorso nel Simposio 'Testimoni del secolo XX, Maestri del secolo XXI', organizzato dall’Accademia di Storia Ecclesiastica in Spagna e America tenuto a Siviglia (8-IV-2002)
«E’ doveroso per noi proiettarci verso il futuro che ci attende. Tante volte, in questi mesi, abbiamo guardato al nuovo millennio che si apre, vivendo il Giubileo non solo come memoria del passato, ma come profezia dell’avvenire. Bisogna ora far tesoro della grazia ricevuta, traducendola in fervore di propositi e concrete linee operative»[1]. Così si esprimeva Giovanni Paolo II a conclusione del Giubileo dell’anno 2000, invitandoci a iniziare il nuovo millennio con queste disposizioni. E in questa prospettiva dobbiamo vivere tutte le vicende della storia della Chiesa: scoprendo in ogni circostanza, con la luce della fede, motivi per rendere grazie e profezie per l’avvenire.
A questo spirito risponde il presente Simposio, che ripropone alla nostra memoria alcuni santi con i quali Dio ha benedetto la sua Chiesa nel secolo XX, proprio con l’intenzione, come dice il titolo, che siano “maestri del XXI secolo”. In diverse occasioni, a motivo della recente commemorazione del centenario della nascita del Beato Josemaría Escrivá, ho considerato l’opportunità di chiarire che questo anniversario non poteva limitarsi a ricordarne la vita, e nemmeno a spiegare la sua ricca personalità, ma doveva prima di tutto far sì che ci sentissimo interpellati dal messaggio che Dio ci rivolge attraverso il suo esempio e i suoi insegnamenti.
Parole simili si potrebbero pronunciare in riferimento a tutti i santi dei quali oggi ci occuperemo, tra i quali — e lo dico con grande gioia — si contano alcuni le cui vite si sono intrecciate con quella del Beato Josemaría: Giovanni XXIII, che egli ebbe occasione di incontrare varie volte durante il suo pontificato; don Manuel González, col quale si sentì profondamente unito, in una sincera amicizia umana, nell’amore per l’Eucaristia... Il secolo XX è stato — come tutti i periodi della storia della Chiesa — ricco di santi, di testimoni di Dio. Volgere lo sguardo verso le loro figure deve contribuire a riempire di speranza il nostro modo di considerare l’avvenire, a risvegliare in noi il desiderio sincero che germini in molti cuori il seme che Dio ha sparso con le loro vite e le loro lotte.
Quale fu il seme che Dio seminò nella storia servendosi dell’esempio e della predicazione del Beato Josemaría? Tra gli altri aspetti che potrei considerare, fisserò la mia attenzione sul contenuto di una delle sue omelie, «Amare il mondo appassionatamente», che dà anche il titolo al mio intervento. Amare il mondo. Amarlo appassionatamente. Amarlo in Dio e per Dio. In questa risoluzione affonda le radici uno dei cardini del suo messaggio, che egli stesso definì ripetutamente «vecchio come il Vangelo e, come il Vangelo, nuovo». Infatti la buona disposizione cristiana nei confronti del mondo, insieme alla chiamata universale alla santità con la quale è in intima relazione — punti centrali, purtroppo dimenticati in più di una occasione —, scaturiscono dal Vangelo stesso come «buona novella» del Cielo per gli uomini del nostro tempo e di tutti i tempi.
1. Chiamata alla santità e amore appassionato per il mondo
«Bada bene — scrive il Beato Josemaría in Forgia —: nel mondo ci sono molti uomini e molte donne, e il Maestro non tralascia di chiamarne neppure uno». «Li chiama — aggiunge subito dopo — a una vita cristiana, a una vita di santità, a una vita di elezione, a una vita eterna»[2]. Il Fondatore dell’Opus Dei dedicò la sua intera esistenza, dal 2 ottobre 1928, giorno in cui Dio gli fece vedere la sua Volontà, a diffondere questa “buona, suggestiva e reale notizia”[3]. La diffuse con la sua parola e con i suoi scritti; ma soprattutto favorendo decisioni cristiane, perché aspirò costantemente a far sì che il messaggio si trasmettesse quasi “per contagio”, mediante la testimonianza di coloro che, impegnandosi a santificare la propria condotta, mettono in evidenza che ogni vita può essere santificata.
E’ compito della Chiesa — afferma il Santo Padre nella Novo Millennio ineunte —, «riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio»[4]. Bisogna farlo — aggiunge — attraverso tutti e ogni cristiano, giacché «gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di “parlare” di Cristo, ma in certo senso di farlo loro “vedere”»[5].
Questa nostra epoca è affamata della presenza di Cristo, anche se qualche volta non sa dirlo o forse non se ne rende conto. Il desiderio di un mondo nel quale regni la pace, la condanna suscitata da violenze e crimini, il malessere e l’amarezza testimoniati da una parte importante della produzione letteraria, l’oscillazione tra la generosità e l’evasione che si avverte in molti settori della gioventù, manifestano alcuni segni di questo profondo travaglio. L’uomo del nostro tempo, coinvolto nelle ansie quotidiane di un ambiente che subisce continui cambiamenti, ha urgente bisogno di contemplare il volto di Cristo. Contemplarlo davvero, attraverso il comportamento di quanti gli passano accanto. Proprio per questo la chiamata universale alla santità costituisce un messaggio sempre attuale di speranza per il mondo.
Dio non ha voluto accontentarsi che gli uomini arrivassero alla fine del loro passaggio sulla terra per incontrarsi con Lui, ma si è abbassato verso di noi per cercarci là dove ci troviamo. Per questo prese corpo, natura umana, nel seno della Vergine Maria e affrontò una esistenza come la nostra con tutte le sue conseguenze, culminata nella suprema donazione della Croce. E desidera continuare in questo modo nel corso di tutta la storia anche attraverso i cristiani: le loro stesse vite debbono essere uno specchio in cui gli altri, i loro fratelli, possano scoprire il volto del Signore.
Come i discepoli di Emmaus, sono molte oggi le persone che camminano senza una direzione e senza una meta, cristiani che si lasciano dominare dalla delusione per l’apparente sconfitta di Cristo. Eppure Cristo non si è allontanato dall’umanità, ma continua a essere presente e le va incontro. Viene a noi con l’azione dello Spirito Santo che muove i cuori. Si avvicina a noi intimamente mediante i sacramenti e la predicazione della Chiesa. Desidera arrivare a tutti servendosi dello zelo dei cristiani, del loro esempio, della loro gioia e della loro speranza. Quando vivono la propria fede, i cristiani dimostrano al mondo che l’assenza di Dio o la sconfitta di Cristo non sono che apparenti. Cristo ha vinto. Ormai il peccato e la morte non hanno pieni poteri sull’uomo; non sono scomparsi del tutto e certe volte alcuni credono che la loro azione sia universale e incontrollabile. Ma l’amore di Dio Padre, la forza di Cristo, la grazia dello Spirito Santo costituiscono e costituiranno sempre il motore ultimo e definitivo della storia, la bussola che ispira l’autentica esistenza di ogni creatura umana.
Questa convinzione profonda, questa fede, è ciò che distingue il cristiano, che sa basare la sua gioia anche nel dolore, il suo ottimismo anche nell’afflizione, il suo impegno attraverso le difficoltà. Il messaggio sulla chiamata universale alla santità spinge a una rievangelizzazione che deve raggiungere tutti, perché il Dio Buono sollecita tutti noi a essere protagonisti. È significativo che il Santo Padre abbia messo la santità «a fondamento della programmazione pastorale che ci vede impegnati all’inizio del nuovo millennio»[6], e che abbia sottolineato con chiarezza che, così operando, ha agito in virtù di una decisione profondamente maturata, cosciente della sua efficacia pratica: «Porre la programmazione pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze. Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno, “Vuoi ricevere il Battesimo?” significa al tempo stesso chiedergli, “Vuoi diventare santo?”. Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48)»[7].
Il Beato Josemaría non solo ha ricordato la chiamata divina a essere santi e l’importanza di comportarci così, ma ha tracciato un cammino per riuscirvi. Infatti, l’affermazione della chiamata universale alla santità come è stata predicata dal Fondatore dell’Opus Dei, va intimamente unita all’affermazione del valore delle realtà secolari e, di conseguenza, del mondo come ambito nel quale l’uomo si sviluppa e come realtà con la quale egli edifica la sua santità[8]. La sua predicazione e la sua azione apostolica e sacerdotale non erano volte unicamente ad affermare che i cristiani normali possono essere santi, ma a mostrare che la vita normale e ordinaria, quella di qualunque uomo e qualunque donna, offre abbondante materia per la santificazione. Il mondo «non solo è l’ambito nel quale l’uomo vive, ma mezzo e cammino di santità, realtà santificabile e santificatrice»[9].
Questa dottrina si oppone sia al naturalismo che a uno spiritualismo disincarnato. In realtà, il naturalismo, nel reclamare l’autonomia del mondo rispetto a Dio e, in ultima analisi, nel presentare l’universo, la natura, come unica realtà esistente, propone un materialismo chiuso allo spirito. Lo spiritualismo, da parte sua, nel concepire lo spirito come una realtà assolutamente estranea alla materia, o addirittura opposta, sfocia in una spiritualità chiusa non solo a ciò che è materiale, ma alla storia. Secondo il Beato Josemaría, lo spiritualismo considera «la vita cristiana come qualcosa di esclusivamente “spirituale” — spiritualista, voglio dire —, riservato a gente “pura”, eccezionale, che non si mescola alle cose spregevoli di questo mondo, o tutt’al più le tollera come una cosa a cui lo spirito è necessariamente giustapposto, finché viviamo sulla terra»[10]. Se il naturalismo chiude l’uomo nel mondo e respinge ogni apertura a Dio, lo spiritualismo spinge a isolarsi dal mondo per rendere possibile questo incontro. Per l’una o per l’altra via si esclude ogni relazione tra il mondo, l’uomo e Dio.
Lo spiritualismo pretende di concepire l’uomo attraverso un Dio che si mette in rapporto con il mondo solo tangenzialmente, poiché tutta la vita di relazione col Creatore consiste in una interiorità estranea a ciò che è mondano, e non proprio nel senso peggiorativo di questo concetto. Perciò lo spiritualismo finisce per condurre all’allontanamento da ciò che è concreto, alla svalutazione delle realtà temporali, a un discostamento dalla storia, al rinchiudersi in un mondo che si crede puro e non contaminato; ovvero, da un’altra prospettiva, a un cattivo clericalismo. Come scriveva il Beato Josemaría, «il tempio diventa il luogo per antonomasia della vita cristiana; essere cristiano vuol dire allora andare nel tempio, partecipare alle cerimonie sacre, abbarbicarsi a una sociologia ecclesiastica, in una specie di “mondo” a parte, che si spaccia per l’anticamera del Cielo, mentre il mondo comune va per la sua strada»[11].
Il naturalismo aspira a comprendere l’uomo attraverso un mondo autonomo nel quale Dio non deve intromettersi; non solo, ma nel quale non c’è posto per lui. La risposta a questa imposta-zione sbagliata non può dunque partire da una visione delle cose che faccia pensare erroneamente che il cristiano deve allontanarsi dal mondo per trovare Dio. Certamente, Dio chiama alcuni ad allontanarsi dalle attività secolari e anche a localizzare la propria risposta tra le mura di un monastero; ma neppure in questo caso il mondo è negato o annullato. Coloro che sono stati chiamati a questa vocazione non interrompono la propria influenza sul mondo, perché sanno di essere inviati da Cristo a contribuire alla salvezza del creato con la loro donazione e con la loro orazione. Da parte sua il cristiano comune, chiamato da Dio a santificarsi in mezzo alla strada e alle varie attività secolari, si rende conto che il luogo nel quale si trova e le attività alle quali si dedica fanno parte — «parte importante», come piaceva ripetere al Fondatore dell’Opus Dei — della sua vocazione.
Ogni cristiano deve amare questo nostro mondo, in quanto realtà creata da Dio e, di conseguenza, dotata di bontà. Il cristiano comune deve amare in modo speciale il mondo e tutto ciò che esso contiene di nobile — lavoro professionale, occupazioni familiari, relazioni sociali... — in quanto elementi essenziali del suo essere uomo e cristiano; e anche come luogo della sua relazione con Dio nel compiere la propria missione. Con forza e in questi termini si esprimeva il Beato Josemaría: «Figli miei, lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. E’ in mezzo alle cose più materiali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini»[12].
Il mondo — «ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive»[13] — deve essere per i cristiani ambito e materia con cui edificare la propria santità — e quella degli altri — e il proprio apostolato. I figli di Dio, coscienti di una chiamata così affettuosa, amano il mondo con la coscienza di doverlo profondamente includere nella loro relazione con Dio. Per il fedele laico questo invito presuppone che egli ami la propria vocazione, apprezzi pienamente il luogo in cui Dio lo ha collocato perché lo cerchi e lo serva. «Siate uomini e donne di mondo, ma non siate uomini e donne mondani»[14]. Siate uomini e donne — potremmo parafrasare — che amate il mondo perché fate parte di questa realtà, perché sperimentate la sua ricchezza e il suo valore e, soprattutto, perché la riconoscete come materia venuta da Dio e voluta da Lui e, di conseguenza, l’apprezzate fino in fondo, coscienti che il riferimento a Dio non la snatura e non la distrugge, ma al contrario la edifica e la perfeziona.
2. Il mondo, luogo di incontro con Dio
«Dobbiamo amare il mondo, il lavoro, le realtà umane. Perché il mondo è buono»[15]. Così si esprimeva il Beato Josemaría; ma in che cosa affonda le radici questa bontà che richiede il nostro amore?
L’affermazione di questa bontà nasce da una profonda comprensione di alcune verità che stanno al centro del dogma cristiano. «Ho insegnato incessantemente, con parole della Sacra Scrittura — diceva il Beato in una delle omelie già citate —, che il mondo non è cattivo: perché è uscito dalle mani di Dio, perché è creatura sua, perché Jahvé lo guardò e vide che era buono (cfr. Gn 1, 7 e ss.)»[16]. Pertanto, Dio stesso, e non l’uomo, dichiara la bontà del mondo, perché Egli fa del creato una realtà buona. In senso stretto, si deve dire che non è che Dio lo ama perché è buono, ma che la sua bontà è dovuta al fatto che Dio lo ama, è vincolata al suo riferimento a Dio. D’altra parte il peccato dell’uomo, per quanto possa deturparlo, si dimostra sempre incapace di sradicare interamente dal mondo la bontà di creatura di Dio. Perciò anche il nostro mondo, coinvolto malignamente dal peccato, può essere rigenerato, restituito alla sua bontà originaria. Ascoltiamo di nuovo il Beato Josemaría, completando la citazione precedente: «Dobbiamo amare il mondo, il lavoro, le realtà umane. Perché il mondo è buono: il peccato di Adamo ruppe la divina armonia del creato, ma Dio ha inviato suo Figlio unigenito a ristabilire la pace. E così noi, divenuti figli di adozione, possiamo liberare la creazione dal disordine e riconciliare tutte le cose con Dio»[17].
Dio trascende la creazione; però — e lo dice il Catechismo della Chiesa Cattolica —, proprio «perché è il Creatore sovrano e libero, causa prima di tutto ciò che esiste, egli è presente nell’intimo più profondo delle sue creature»[18]. Nel creare il mondo, Dio non lo scaglia nel vuoto né se ne disinteressa: non è un Dio lontano che lo lascia andare per suo conto, come fa un orologiaio dopo aver montato i vari pezzi dell’orologio. Dio resta molto vicino; continua a concedere l’essere e la vita a tutto ciò che esiste, in modo che, dice san Paolo, «in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo»[19]. Solo questa intima e misteriosa presenza, vincolata all’atto creativo e più forte del peccato degli uomini, costituisce il fondamento della bontà del creato. «Tutto è vostro», afferma ancora l’Apostolo delle Genti[20]. Il mondo, dono di Dio a ciascuno di noi, ci viene dato da Dio, assieme alla capacità di possederlo con l’intelligenza e l’amore; e in Cristo e nello Spirito Santo, ci concede anche la forza per vincere il male e il peccato.
«Sappiatelo bene — insisteva il Beato Josemaría —: c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire»[21]. Nella nostra vita di ogni giorno nel mondo, noi uomini siamo chiamati a scoprire l’amore di Dio per noi, ad avvertire le sue richieste, rendendoci conto che ci invita a corrispondere alla sua carità perfetta non solo con pensieri e desideri, ma con le opere. È questa carità divina che muove Dio ad affidarci il mondo come eredità, e solo riconoscendo questo dono avvertiremo tutte le implicazioni di come dobbiamo vivere e lavorare, di come santificare quel che siamo e tutto quello che ci circonda.
Con la forza e la persuasione di san Paolo, dobbiamo ricordare agli uomini del nostro tempo che «ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità»[22]. «Il firmamento — afferma sant’Attanasio —, mediante la sua magnificenza, la sua bellezza, il suo ordine, è un divulgatore prestigioso del suo artefice, la cui eloquenza riempie l’universo»[23]. «Il silenzio dei cieli — dice san Giovanni Crisostomo — è una voce più potente di quella di una tromba: questa voce grida ai nostri occhi, e non ai nostri orecchi, la grandezza di colui che li ha fatti»[24]. Dio «ci parla nel silenzio della preghiera e nel frastuono del mondo»[25], afferma a sua volta il Beato Josemaría, con una frase che allude non solo alla bellezza dell’universo materiale, ma anche alle vicende della storia che l’uomo forgia con la sua libertà. Nell’uomo e nel suo libero operare c’è, infatti, una bontà naturale superiore a quella di ogni altra creatura di questo mondo e una disponibilità al dono della vita soprannaturale[26].
Dio ci mostra il suo volto attraverso il mondo che contempliamo. È questa la ragione ultima per cui il creato ci si presenta come vero, buono e bello. Lo scopriamo attraverso lo spettacolo della natura, dell’immensità degli spazi illimitati che ci circondano; ma anche per mezzo della storia dell’uomo, nella quale irrompe indubbiamente il peccato, ma anche la grandezza dello spirito umano e, ancor più, l’amore di un Dio che, essendo Padre onnipotente, trae il bene anche dai mali[27].
La creazione rimanda a una presenza che va oltre ciò che vediamo: ci parla di Dio; costituisce, perciò, attraverso un chiaroscuro e altre volte quasi fra le tenebre, una certa rivelazione di Dio, che l’ha originato e che sostiene tutte le cose nell’essere: il Verbo eterno è «la Parola di Dio, nella quale è racchiuso il significato del mondo, la sua verità»[28]. In questo senso, alludere a una “sacramentalità del mondo” — come fa Giovanni Paolo II[29] — vuol dire riconoscervi la presenza del mistero di Dio che esce alla ricerca dell’uomo. Ovviamente, il termine “sacramento” si può applicare alla creazione solo in un modo analogo a quello impiegato per riferirsi ai sette sacramenti, nei quali, in modi diversi, si fa presente la forza salvifica di Cristo per mezzo dello Spirito Santo.
L’espressione “sacramentalità del mondo” non si riduce, tuttavia, a una espressione semplicemente metaforica, giacché il mondo ci rimanda a Dio ed è presente nella nostra ascesa verso il Creatore. Sarà bene affermare che l’avanzare di Dio verso la creatura nei sacramenti prolunga in un modo nuovo, con una gratuità e una libertà piene e insospettate, la ricerca di ciascuno che Egli fa per mezzo del cosmo. Separare le due strade equivarrebbe dimenticare l’ammirevole continuità, all’interno della discontinuità, che esiste tra la creazione e la redenzione, tra la creazione dell’uomo, la sua elevazione alla comunione soprannaturale con la Trinità e la successiva liberazione dal peccato. L’incontro con Dio nel mondo ci prepara a quello che si verifica ancora una volta con Lui nei sacramenti, che ci danno la possibilità di scoprire Dio e amarlo di più nelle attività di ogni giornata.
Il Beato Josemaría, nell’incoraggiarci a materializzare la vita spirituale, a scoprire Dio nelle cose più materiali e ordinarie, annunciava: «Non vedete che ogni sacramento è l’amore di Dio, con tutta la sua forza creatrice e redentrice, che si dona a noi servendosi di mezzi materiali? Che cos’è questa Eucaristia — ormai imminente — se non il Corpo e il Sangue adorabili del nostro Redentore, che si offre a noi attraverso l’umile materia di questo mondo — vino e pane —, attraverso gli elementi della natura, coltivati dall’uomo [...]?»[30].
3. Il mondo come missione
Passiamo ora al secondo punto che desidero affrontare: il mondo come missione. Nessun essere umano può vivere solo per se stesso: ha bisogno degli altri e del mondo, per riconoscere se stesso nella sua relazione con gli uni e con gli altri, servendosi di queste esperienze per l’incontro con Dio. L’uomo sa che la sua origine e il suo destino sono profondamente legati alla creazione. Perciò, nel cercare la propria identità, contempla l’universo e indaga sulle proprie origini e, nel tentativo di raggiungere la propria pienezza, lavora per perfezionare l’ambiente nel quale vive. Le aspirazioni della scienza e della tecnica nascondono l’anelito di conoscere la propria origine e il destino dell’uomo. Perciò, anche se forse non lo si avverte in modo cosciente, questa ricerca dell’uomo implica un desiderio di Dio.
D’altra parte, conviene insistere sul fatto che il mondo, in quanto rivelazione naturale, è parola che Dio rivolge alla creatura umana. Non una parola pronunciata in modo impersonale o lanciata nel vuoto, ma rivolta agli esseri che popolano la terra, affinché noi possiamo — attraverso questa iniziativa del Creatore — riconoscere e amare Colui che è nostro principio e nostro fine. Di grande profondità e consolazione ci appare l’affermazione di Giovanni Paolo II quando ci esorta a «leggere nelle cose visibili il messaggio di Dio invisibile che le ha create»[31].
Però l’uomo non è stato creato solo per contemplare l’universo, per meravigliarsi davanti alla grandezza dell’universo, ma anche per plasmarvi, con il linguaggio del suo lavoro, la sua risposta all’amore di Dio[32]. Nel donare il mondo all’uomo, Dio gli offre la materia sulla quale egli deve scrivere la risposta filiale all’amore divino che lo fa esistere.
Per questo il mondo è, inseparabilmente, luogo di incontro con Dio e missione da compiere. La storia nel suo insieme, le relazioni familiari e di amicizia, l’evoluzione delle società e delle civiltà, lo sviluppo delle scienze e della cultura, tutto ciò che compone l’ambiente in cui l’uomo vive, fa parte della missione che Dio propone alla creatura, affidandogliela affinché la faccia fruttare in virtù dei doni che Egli stesso le concede. Si potrebbe commentare questa verità da molte prospettive. Qui lo farò descrivendo su una realtà che più direttamente si riferisce alla realizzazione di un’attività — il lavoro — e adottando come guida un’espressione che il Beato Josemaría usò spesso: «Santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro, santificare gli altri con il lavoro»[33].
a) Santificare il lavoro
«Il Signore ha voluto — scrive il Fondatore dell’Opus Dei — che noi suoi figli, che abbiamo ricevuto il dono della fede, manifestiamo l’originaria visione ottimistica della creazione, l’amore per il mondo che palpita nel cristianesimo. — Pertanto, non deve mai mancare lo slancio nel tuo lavoro professionale e nel tuo impegno per costruire la città terrena»[34]. Questo amore non consiste solo in una ammirazione passiva, ma implica un moto positivo, che ci spinge ad arricchire il mondo, a dedicargli il nostro tempo e il nostro impegno, impiegando in questa nobile aspirazione le nostre facoltà, il nostro slancio nel migliorare, i nostri ideali di servizio verso gli altri.
L’uomo sa di essere destinato al lavoro; non solo, ma normalmente si sente attratto dal lavoro, che lo appassiona nel modo giusto. Conosce la fatica e, in certi casi, la sconfitta; ma anche la gioia del lavoro ben fatto e il desiderio di migliorare, di conoscere sempre più a fondo la natura e le leggi del settore della natura nella quale si esercita la sua attività, per sviluppare così con maggiore perfezione le tecniche che permettono di orientarlo e dominarlo. Tutto ciò si può riassumere in una espressione: fervore professionale. Una dedizione sana e retta al proprio lavoro che fa parte del suo amore per il mondo.
Il fervore professionale non solo si riferisce al sapere e alle tecniche, ma anche e soprattutto alle persone. Alimentare il fervore professionale implica non solo una nobile ambizione di crescere come persona, ma anche una aspirazione responsabile di servire, di contribuire sempre più efficacemente al bene di quelli che stanno attorno a noi, apportando alla società i frutti del nostro lavoro. «Il grande privilegio dell’uomo è di poter amare, trascendendo così l’effimero e il transitorio. L’uomo può amare le altre creature, può dire un tu e un io pieni di significato [...]. L’uomo, pertanto, non deve limitarsi a fare delle cose, a costruire oggetti. Il lavoro nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore»[35]. Il fervore professionale non si può ridurre a uno zelo egoista. Amiamo la professione sia perché fa parte della nostra condizione e della nostra personalità, sia perché contribuisce alla crescita della società nella quale ci troviamo a vivere.
Però il suo contenuto ci appare più ricco. L’uomo, capace di pronunciare “un tu e un io pieni di significato”, si trova nelle condizioni di arrivare anche a Dio, di amare questo Dio «che ci apre le porte del cielo, ci costituisce membri della sua famiglia, ci autorizza a dare del tu anche a Lui, a parlargli faccia a faccia»[36]. Insieme alle realtà e alle esperienze umane, e proprio perché siano nobilmente umane, nel fervore professionale del cristiano dev’essere presente l’amore verso Dio. In tal modo, mentre ci esercitiamo a custodire la terra e a portarla alla perfezione, riconosciamo di essere vincolati al mondo, che desideriamo offrire a Dio come manifestazione di gratitudine. All’uomo, che fu creato per lavorare — «ut operetur, precisa la Genesi[37] —, compete dedicarsi a queste occupazioni per la gloria di Dio. Col suo lavoro la creatura arricchisce il mondo ricevuto da Dio, per presentarglielo poi come un sacrificio di lode.
Dobbiamo lavorare sempre con lo sguardo rivolto al Cielo, con la persuasione che, comportandoci così, non ci allontaniamo dal lavoro e da quanto esso esige e richiede, ma che, al contrario, ci vediamo spinti a compiere meglio i nostri obblighi, con un senso più professionale e con più impegno. Questo insegnava il Beato Josemaría agli universitari che gli chiedevano consiglio, a Burgos, durante la guerra civile. Passeggiando con loro, giungeva alla cattedrale e saliva su una delle torri «per far contemplare da vicino a quei ragazzi la selva di guglie, un autentico ricamo di pietra, frutto di un lavoro paziente, faticoso». E diceva loro: «Questo è il lavoro di Dio, l’opera di Dio!: portare a termine il lavoro professionale con perfezione, in bellezza, con la grazia di questi delicati merletti di pietra. Capivano, davanti a una realtà così palese, che tutto quello era preghiera, un bellissimo dialogo con il Signore. Coloro che spesero le loro forze in quel lavoro, sapevano perfettamente che dalle strade della città nessuno si sarebbe reso conto del loro sforzo: era soltanto per il Signore. Capisci adesso come la vocazione professionale può avvicinare a Dio? Fa’ anche tu come quegli scalpellini, e anche il tuo lavoro sarà operatio Dei, un lavoro umano con viscere e fisionomia divine»[38].
Santificare la propria professione, quella di ognuno, comprende lo sforzo del lavoro quotidiano necessario per trasformarlo in un’opera santa, da dedicare soprattutto a Dio. Si tratta di un’opera che si è cercato di fare professionalmente bene, perfettamente rifinita e impregnata dall’inizio alla fine dall’amore per gli altri e dallo spirito di servizio.
b) Santificarsi nel lavoro
Giovanni Paolo II afferma che «il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”»[39]. Il Papa mette l’accento su un insegnamento fondamentale nella dottrina cristiana sul lavoro, che prolunga e sviluppa ciò che prima facevo notare circa l’intima relazione tra retto fervore professionale e spirito di servizio. Una persona responsabile deve domandarsi sempre se sta contribuendo davvero ed effettivamente al bene degli altri e deve fare un sano esame di coscienza, appoggiandosi ai criteri, agli orientamenti e ai suggerimenti della dottrina sociale della Chiesa.
Considerare l’uomo come soggetto del lavoro ha implicazioni non solo sociali, ma anche individuali. Con il lavoro, non solo siamo stati chiamati a perfezionare il mondo e ad apportare beni a quelli che ci stanno attorno, ma dobbiamo anche arricchirci come persone. L’impegno a perfezionare il mondo, a trasformarlo in un luogo sempre accogliente per l’umanità, ricade poi su noi stessi. «Il lavoro è un bene dell’uomo — è un bene della sua umanità —, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”»[40].
Seminando il bene, l’uomo diventa buono; santificando il lavoro, cercando di compiere alla perfezione ogni sua attività con spirito cristiano, si realizza come cristiano, si santifica. Quando l’amore al mondo è contemporaneamente espressione della nostra condizione umana e della nostra fede cristiana, la dedizione al lavoro trasforma ciascuno in un sacrificio gradito a Dio. L’offerta a Dio dei frutti delle rispettive professioni, di cui si parlava prima, dà a questa offerta un significato ancora più profondo: nell’offrire a Dio le nostre occupazioni, nelle sue diverse fasi, gli offriamo con gioia la vita con i nostri ideali, con i nobili aneliti di amore e di servizio che ci muovono. Ci presentiamo dinanzi a Dio — come dice l’Apostolo[41] — come una oblazione dal profumo soave.
Nel cercare di compiere ogni giorno con eroismo la propria missione, si mettono in gioco le più diverse virtù umane: la laboriosità, la giustizia, la fortezza, la perseveranza, l’onestà, la prudenza... E assieme a queste, quelle teologali; la fede, che ci spinge a percepire la vicinanza di Dio e il senso più profondo dei nostri desideri; la speranza, che incoraggia a confidare completamente in Dio e a perseverare nell’impegno, malgrado le difficoltà; la carità, che porta gioiosamente ad amare nelle più diverse occasioni e nei più diversi momenti donandoci con sincerità e con opere. In tal modo, i desideri e i progetti che ogni cristiano racchiude nel cuore si trasformano in un’orazione sincera di lode, di petizione per i propri fratelli, di azione di grazie a Dio che ci ha affidato il mondo e il suo retto ordine come dimostrazione della sua predilezione. Un’orazione che si traduce in parole, ma che non sempre ne ha bisogno, perché il suo linguaggio lascia un’impronta nello stesso lavoro: la puntualità, l’ordine, la cura delle piccole cose...
In questo ricco insieme di parole e opere, si affina l’amore col quale cerchiamo di servire Dio e gli altri, una carità gioiosa che ci spinge ad essere «contemplativi in mezzo la strada», come piaceva ripetere il Fondatore dell’Opus Dei. Se agiremo in questo modo, affermava, «dovunque ci troveremo, in mezzo al rumore della strada e alle occupazioni umane — in fabbrica, all’università, nei campi, in ufficio e a casa —, ci troveremo in una semplice contemplazione filiale, in un costante dialogo con Dio»[42].
c) Santificare gli altri con il lavoro
Mi soffermo ora sul terzo e ultimo elemento della frase del Beato Josemaría che stiamo commentando: santificare gli altri con il lavoro.
La nostra attività contribuisce ad avvicinare a Dio quanti stanno intorno a noi, nella misura in cui, se esercitata con competenza professionale e spirito di servizio, essa trabocca nel bene della società e di quanti la compongono, migliorando le condizioni familiari, ambientali, di relazione, ecc., con l’intento che il mondo progressivamente si conformi alla dignità dell’uomo, alla sua condizione di figlio di Dio. L’atteggiamento di servizio alla società, sempre necessario, non esaurisce il significato di missione e di dimensione apostolica connaturali allo spirito cristiano, perché impoveriremmo questa intenzione se non ci spingesse a stimolare il fervore e lo zelo di contribuire, personalmente e concretamente, all’amicizia delle anime, una a una, con Dio.
Nel compiere il nostro lavoro quotidiano, entriamo in relazione con molte persone: i membri della nostra famiglia, i compagni e i colleghi, i dirigenti e gli impiegati, i clienti e i fornitori, quelli che s’incontrano con noi — occasionalmente o abitualmente — quando percorriamo le strade della città o del paese, quando stiamo sui pullman o sui treni che ci conducono al posto di lavoro... Persone definite, con i loro nomi e cognomi, che per un cristiano non possono essere mai degli esseri anonimi, semplici componenti di un contesto da guardare con indifferenza o, in ogni caso, con una oggettività distaccata.
La fede ci stimola a riconoscere quelli che sono accanto a noi come figli e figlie di Dio; la carità, poi, ci incoraggia fortemente a trattarli come tali, condividendo le loro gioie, mostrando interesse ai loro problemi, fino a trasmettere loro, insieme con l’aiuto umano che possiamo loro prestare, il più grande bene che possediamo: la nostra stessa fede. Il fatto di stare insieme a causa del lavoro professionale dà origine così, spontaneamente e naturalmente, all’amicizia e, con questa fraternità, all’apostolato, al santo zelo e all’impegno di incoraggiare a conoscere Cristo, di avvicinare a Cristo, perché — ricorro ancora una volta alle parole del Beato Josemaría — «l’apostolato, ansia che consuma interiormente il cristiano della strada, non è qualcosa di diverso dal compito di ogni giorno: si confonde col lavoro quotidiano, quando esso è trasformato in occasione di incontro personale con Cristo. In questo lavoro, impegnandoci gomito a gomito negli stessi problemi dei nostri compagni, dei nostri amici, dei nostri parenti, potremo aiutarli a raggiungere Cristo»[43]. La santificazione del lavoro e la nostra stessa santificazione nel lavoro si prolungano santificando gli altriattraverso la professione, servendoli. E quest’ultima dimensione sgorga dalle due precedenti[44].
4. La grande liturgia dell’universo
Dio, che non ha bisogno di nulla, crea il mondo, con un atto di suprema liberalità, per puro amore; come scrisse San Bonaventura, «non per aumentare la sua gloria, ma per manifestarla e comunicarla»[45]. La realtà del mondo ci rimanda ben oltre la sua esistenza: al mistero insondabile della vita e dell’amore divini, all’infinità incommensurabile di Dio Padre che comunica eternamente tutto il proprio essere al Figlio, all’infinito amore unitivo del Padre e del Figlio, che è lo Spirito Santo. Fluisce ed abbonda in seno alla Trinità un «flusso d’amore»[46] che trabocca nella creazione del mondo, degli uomini e degli angeli, chiamati a partecipare alla sua intimità. La tradizione teologica si è fatta eco di questa realtà con quanto scrive Sant’Ireneo, e cioé che Dio Padre, origine e sorgente di tutto quel che esiste, crea il mondo con le sue due mani che sono il Figlio e lo Spirito Santo[47].
«Tutte le cose sono state create per mezzo di lui [di Cristo] e in vista di lui», afferma San Paolo, che poi aggiunge: «Piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose»[48]. Il Figlio eterno, grazie al quale tutto l’universo sussiste, prende la natura umana, assume la nostra condizione arrivando fino all’estremo della morte e, risuscitando in «spirito datore di vita»[49], comunica alla creazione lo Spirito Santo del quale Egli stesso è pieno. Con la loro azione potente, il Figlio e lo Spirito conducono tutte le cose al Padre, sicché il mondo ci si mostra come un riflesso dell’eterno amore intratrinitario, come dono e offerta che il Figlio e lo Spirito Santo continuamente ricevono dal Padre e continuamente gli restituiscono.
La Santissima Trinità e la nostra relazione soprannaturale con il Padre, nel Figlio, attraverso lo Spirito Santo, è una realtà che non possiamo abbracciare con la mente; però è una realtà centrale alla quale deve ritornare senza tregua la nostra orazione, perché lì radica il fondamento di tutta la vita cristiana, di quell’amore al mondo che comporta l’impegno di non allontanarci dal posto che occupiamo, proprio per restituirlo al suo Creatore. Nel considerare tutto l’universo nella sua entità di dono del Cielo, constatiamo — per il ruolo di protagonisti che ci è stato fissato in questa fase della storia — l’amore paterno nel quale si fonda la nostra filiazione divina[50]. «I cieli narrano la gloria di Dio», canta il salmo[51]. Come non ricordare le parole di Gesù, che ci fanno scoprire in questa gloria il segno della bontà infinita di Dio rivolta a noi?: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate forse voi più di loro?»[52].
Ancorati alla consapevolezza della nostra filiazione divina, possiamo aspirare, con assoluta certezza, a che non solo i cieli, ma anche la storia, lo sviluppo dei popoli e delle società, narrino egualmente la grandezza di Dio, come manifestazione e riflesso della sua bontà e del suo amore. Nel camminare verso il suo fine ultimo, l’uomo è chiamato a percepire e ad accrescere le potenzialità impresse dal Signore nelle realtà uscite dalle mani divine e, in questo senso, dobbiamo sentirci invitati a continuare la creazione. Come afferma Giovanni Paolo II, «nella parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore»[53]. E per lavoro s’intende qui non solo l’azione con la quale si trasforma la materia, ma qualunque attività con la quale l’uomo configura e sviluppa sia la propria vita individuale che quella collettiva.
Dominare la natura, accrescere l’opera della creazione, stimola a riflettere con responsabilità, con impegno e tenacia, sulla parte che riguarda ciascuno di noi. È vero che queste disposizioni non debbono mancare; però dobbiamo fare in modo di collocarle nel contesto dell’amore trinitario che ho appena menzionato. Creati a somiglianza del secondo Adamo, di Cristo, che come Verbo eterno fa esistere tutte le cose orientandole verso il Padre, e mossi da Dio Spirito Santo, che tutto vivifica col suo amore, noi uomini siamo chiamati a scoprire nel nostro lavoro il volto paterno di Dio, nello stesso tempo in cui come figli nel Figlio facciamo in modo — nella misura della nostra pochezza — di collaborare con la maggiore generosità possibile alla grande opera della creazione. Se faremo così, non solo raggiungeremo una coscienza più piena della nostra personale responsabilità, ma saremo coscienti che il nostro lavoro si proietta verso un orizzonte molto più ampio — infinito, a dire il vero, come è infinito l’amore di Dio — e sentiremo la necessità di vivere con una disposizione d’animo segnata in ogni istante dalla meraviglia e dalla gioia che suscita nell’anima la coscienza dell’immenso dono della filiazione divina. Se lavoreremo in questo modo, la nostra attività si trasformerà in una espressione di gratitudine filiale e contribuirà al canto di gloria a Dio che l’universo deve intonare.
Giovanni Paolo II ha colto tale realtà, sottolineando con vigore che questo orizzonte grandioso deve illuminare l’insieme della storia, tutte e ognuna delle nostre giornate. «La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all’opera di Dio deve permeare — cito le sue parole — [...] anche le ordinarie attività quotidiane»[54]; tutti gli uomini e le donne devono prendere coscienza — continuava — che mediante il loro lavoro quotidiano, mentre provvedono al sostentamento per sé e per la propria famiglia, cercando di servire anche la società, «danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia»[55].
Il Beato Josemaría predicò instancabilmente questa stessa verità. Fra i molti altri testi possibili, ne cito uno preso da Solco, straordinariamente incisivo ed eloquente nella sua semplicità. «Mi scrivi dalla cucina, accanto al focolare. Sta scendendo la sera. Fa freddo. Accanto a te, la tua sorellina — l’ultima che ha scoperto la pazzia divina di vivere fino in fondo la propria vocazione cristiana — sbuccia patate. Apparentemente — pensi — il suo lavoro è uguale a prima. E invece c’è tanta differenza! — E’ vero: prima sbucciava patate “soltanto”; adesso si sta santificando sbucciando patate»[56]. Con la sua attività quotidiana, plasmata dalla grazia, la creatura, ogni uomo e ogni donna, offre a Dio il mondo intero. Nel compiere il proprio lavoro, imitando Gesù e in unione con Lui, partecipiamo attivamente alla lode che il Figlio eterno rivolge al Padre e proviamo la gioia di essere in comunione con la Trinità.
5. Il cristiano e la redenzione del mondo a opera di Cristo
Queste grandi prospettive cristiane sarebbero incomplete e potrebbero anche apparire irreali, se non accennassimo a una questione che nella nostra esperienza quotidiana salta agli occhi: la presenza nel mondo del male e del peccato.
Agli albori della storia, prima della grave offesa dei nostri progenitori, la comunione con Dio — vissuta in mezzo al mondo — era una cosa semplice e naturale. Così fa capire il racconto della Genesi quando, con linguaggio poetico, parla di Dio dicendo che «passeggiava nel giardino di Eden»[57]. La creazione materiale, la natura che circondava l’uomo, non costituiva un ostacolo all’unione della creatura col suo Creatore; al contrario, suscitava in maniera spontanea e naturale il dialogo con Dio.
Il peccato originale, al quale si sono poi aggiunti i nostri peccati personali, ci ha oscurato la vista e debilitato la volontà. Il nostro dominio sulla terra è diventato arduo e assai spesso faticoso. Nella stanchezza, nella malattia, nella dura esperienza della morte, nell’incomprensione da parte degli altri, ecc., il mondo sembra rivoltarsi contro l’uomo.
Questa ferita, questa difficoltà nel retto dominio dell’io e di quanto ci circonda, la constatiamo anche come una ribellione del corpo contro l’anima. Ci esaltano certe inclinazioni che provengono dal nostro stesso essere, ma che, allo stesso tempo, ci appaiono estranee quando scopriamo che si oppongono radicalmente al bene che desideriamo compiere[58]. Alcune volte il mondo, che dovrebbe essere il mezzo per avvicinarci a Dio, si trasforma addirittura nel motivo che ci allontana da Lui; e così, non solo sfugge al dominio dell’uomo, ma sembra anche sottrarsi al dominio di Dio, ergendosi contro il proprio Creatore.
In tale contesto, sorge una domanda: il mondo costituisce ancora una realtà buona, amata da Dio? Fa parte dell’amore di Dio un mondo come questo? La fede cristiana risponde con un’affermazione decisa, netta: il mondo continua a essere buono. Il peccato lo ha ferito, ma non ha distrutto del tutto la sua bontà; continua a esserci nella creazione una radice e una capacità di bene che può, e deve, essere accresciuta. La Scrittura aggiunge: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna»[59]. Dio ha tanto amato il mondo... Anche dopo il peccato — tutti i peccati attestati dalla storia e i mali che ne derivano — Dio non abbandona l’umanità alla sua sorte, ma le viene incontro inviando suo Figlio.
Nell’assumere la nostra natura, il Figlio eterno di Dio riceve il mondo segnato dal peccato, con un mandato di salvezza affidatogli dal Padre. Accogliendo e amando il mondo, Gesù Cristo lo riconcilia con Dio[60]. Per trent’anni Egli provò la stanchezza dovuta al lavoro. Poi conobbe l’abbandono, la persecuzione, il tradimento e lo scherno; alla fine la morte terribile sulla croce. Così il Dio fatto uomo concluse l’opera della creazione redimendo il mondo dal peccato. La donazione di Cristo sulla Croce s’innalza come sorgente e modello dell’amore per il mondo nel quale viviamo e nel quale dobbiamo lavorare, partecipando della carità che redime. Se Dio amò con tanta tenerezza le sue creature, anche quando esse lo respingevano, come potremmo non donarci noi, amando appassionatamente questa terra per condurla con Lui al Padre?
«Il mondo ci aspetta — diceva il Beato Josemaría —. Sì!, amiamo appassionatamente questo mondo perché Dio ce l’ha insegnato: “Sic Deus dilexit mundum...” — così Dio ha amato il mondo; e perché è il luogo del nostro campo di battaglia — una bellissima guerra di carità —, affinché tutti raggiungiamo la pace che Cristo è venuto a instaurare»[61]. Questo amore di Dio manifestato in Cristo è redentivo, libera il mondo dal peccato. Un amore che, per così dire, crea di nuovo il mondo e ce lo affida ancora una volta.
«Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui?»[62]. Il fatto che Dio “ci affida ancora una volta il creato” lascia intendere, in virtù della grazia di Cristo attraverso lo Spirito Santo, una nuova capacità di possederlo, di accoglierlo, in un atteggiamento di amore e di donazione, così che, in tal modo, possiamo santificarlo e offrirlo a Dio Padre. Nel darci la sua grazia, la sua vita intera, Cristo ci illumina con la sua luce per farci conoscere il mondo, secondo il suo cuore, e ci colma della sua forza per amarlo con rettitudine d’intenzione e con atteggiamento di servizio. Il delirio d’amore di Dio per le sue creature, pienamente manifestata nel mistero pasquale di Gesù, è una sorgente che — sconfiggendo il peccato — alimenta l’amore dei cristiani per il mondo.
Da qui la gioia cristiana, eco di quel primo grido delle sante donne, giubilanti e attonite, al ritorno dal sepolcro vuoto: Gesù, il Signore, è risuscitato![63]. Nell’ascolto della parola di Dio e nei sacramenti, specialmente nell’Eucaristia, il cristiano rivive questa scena e alimenta la propria anima con la forza della donazione completa di Cristo. Grazie a questo amore, egli può operare nel mondo — nella famiglia, nel lavoro, nelle relazioni sociali — in un modo nuovo: più profondo, più generoso, più appassionato, traboccante di fede, di speranza, di carità.
Quando la stanchezza, il dolore, l’incomprensione o il rifiuto si fanno presenti, lasciando anche insinuare il dubbio e lo scoraggiamento, ogni creatura, guardando la Croce, potrà riacquistare le forze e un entusiasmo più profondo di quello semplicemente umano. Così insegnava il Beato Josemaría: «Quando vedi una povera Croce di legno, sola, senza importanza e senza valore... e senza Crocifisso, non dimenticare che quella Croce è la tua Croce: quella d’ogni giorno, quella nascosta, senza splendore e senza consolazione..., che sta aspettando il Crocifisso che le manca: e quel Crocifisso devi essere tu»[64]. Un chiaro invito a mettere gli occhi sulla Croce, unico modo di unire il Cielo e la terra.
Non dimentichiamolo: Cristo ci ha portato la sua vittoria e ci invita nello stesso tempo a partecipare alla sua missione e al suo cammino, a cooperare con Lui nel lavoro della redenzione mediante il nostro impegno, il nostro lavoro, la nostra donazione. Amando il mondo con il cuore di Cristo nella gioia e nel dolore, nei momenti di esaltazione e nelle avversità, nelle grandi occasioni e nel cammino ordinario di ogni giorno, collaboriamo con Lui nel preparare i nuovi cieli e la nuova terra di cui parla l’Apocalisse, e nei quali — come indica il Concilio Vaticano II — «ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati»[65], tutti i frutti di libertà, di fraternità, di giustizia, di pace che abbiamo desiderato e cercato durante il nostro passaggio sulla terra.
6. Conclusione
«In una società nella quale lo sfrenato desiderio di possedere cose materiali le converte in un idolo e in motivo di allontanamento da Dio, il nuovo beato ci ricorda che queste stesse realtà, creature di Dio e dell’ingegno umano, se si usano rettamente a gloria del Creatore e al servizio degli uomini, possono essere la strada per l’incontro degli uomini con Cristo»[66].
Ho cercato di fare in modo che queste parole, pronunciate da Giovanni Paolo II il 17 maggio 1992, nell’omelia durante il solenne rito di beatificazione del Fondatore dell’Opus Dei, fossero in qualche modo il filo conduttore di tutta questa esposizione. In questo Simposio si sono voluti evocare alcuni “testimoni del XX secolo”, presentandoli come “maestri del XXI secolo”, come esempio e stimolo per la tappa storica che abbiamo iniziato due anni fa, affinché, con la grazia di Dio, ci decidiamo a imitarli. Ho ritenuto perciò di dover fissare l’attenzione su qualche aspetto centrali del messaggio del Beato Josemaría; soprattutto su un insegnamento di fondo — “l’amore per il mondo” —, nel quale confluiscono prospettive dogmatiche e spirituali.
Ogni cristiano è chiamato a partecipare alla missione di Cristo. Alcuni lo faranno ritirandosi nella solitudine di un monastero, dando così pubblica testimonianza della trascendenza divina. Altri, dedicandosi al ministero sacerdotale, sorgente indispensabile per la Chiesa. Altri, la maggioranza, santificando dall’interno le varie realtà e occupazioni terrene. A tutti la Chiesa, anche attraverso la parola e la vita del Beato Josemaría, rivolge un invito e una guida efficace per scoprire e manifestare — ognuno nella situazione in cui si trova — la buona notizia dell’amore di Dio, Creatore e Redentore del mondo.
[1] GIOVANNI PAOLO II, Lettera apost. Novo millennio ineunte, 6-I-2001, n. 3.
[2] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Forgia, n. 13.
[3] Per gli aspetti biografici, cfr. A. VÁZQUEZ De PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, vol. I, Leonardo International, Milano 1999, specialmente pp. 273-354. Vedi anche J.L. ILLANES, Dos de octubre de 1928: alcance y significado de una fecha, in AA. VV., “Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer y el Opus Dei”, Eunsa, Pamplona, 2ª ed., 1985, specialmente le pp. 96-101.
[4] GIOVANNI PAOLO II, Lettera apost. Novo Millennio ineunte, n. 16.
[5] Ibid.
[6] Ibid., n. 31.
[7] Ibid. Sulla santità come partecipazione della persona creata alla santità increata di Dio e come perfezionamento della persona, cfr. L. SCHEFFCZYK, La santidad de Dios, fin y forma de la vida cristiana, in «Scripta Theologica» 11 (1979), pagg. 1021-1036.
[8] Cfr. A. DEL PORTILLO, Una vida para Dios. Reflexiones en torno a la figura di Josemaría Escrivá de Balaguer, Madrid, 1992, pagg. 69-73.
[9] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 47.
[10] Ibid; Amare il mondo appassionatamente, in Colloqui, n. 113.
[11] Ibid.
[12] Ibid.
[13] CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 2.
[14] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Cammino, n. 939.
[15] Ibid., È Gesù che passa, n. 112.
[16] Ibid., Amare il mondo appassionatamente, in Colloqui, n. 114.
[17] Ibid, È Gesù che passa, n. 112.
[18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 300.
[19] At 17, 28.
[20] 1 Cor 3, 21.
[21] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amare il mondo appassionatamente, in Colloqui, n. 114.
[22] Rm 1, 19-20.
[23] SANT’ATANASIO, Expositiones in Psalmos, XVIII (PG 27, 124).
[24] SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, Ad populum antiochenum hom. IX (PG 49, 105).
[25] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Colloqui, n. 62.
[26] Sull’insegnamento del Beato Josemaría intorno alla libertà, cfr. El primado existencial de la libertad, in AA. VV., “Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer y el Opus Dei”, cit., pagg. 341-356. Ved. anche A. LLANO, La libertad radical. Homenaje al Beato Josemaría Escrivá de Balaguer, in “Discursos en la Universidad”, Pamplona 2001, pagg. 95-104.
[27] Cfr. Rm 8, 28.
[28] J. RATZINGER, Teoría de los principios teológicos, Herder, Barcelona 1985, pag. 406.
[29] “Nell’uomo creato ad immagine di Dio è stata rivelata, in certo senso, la sacramentalità del mondo”, GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, 20-II-1980, n. 5, in “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, III, 1 (1980), pag. 430.
[30] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amare il mondo appassionatamente, in Colloqui, n. 115.
[31] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enc. Centesimus annus, 1-V-1991, n. 37.
[32] Cfr. Gn 2, 15.
[33] Vedere, per esempio, Colloqui, n. 70, È Gesù che passa, n. 46 e Amici di Dio, n. 9.
[34] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Forgia, n. 703.
[35] Ibid; È Gesù che passa, n. 48.
[36] Ibid.
[37] Gn 2, 15.
[38] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amici di Dio, n. 65.
[39] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enc. Laborem exercens, 14-IX-1981, n. 6.
[40] Ibid. n. 9.
[41] Cfr. 2 Cor 2, 15.
[42] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 11-III-1940, n. 15.
[43] Ibid. Amici di Dio, n. 264.
[44] Tra gli autori che hanno scritto sul profondo e originale insegnamento del Beato Josemaría intorno al lavoro, cfr. J.L. ILLANES, La santificazione del lavoro, Ed. Ares, Milano, 1981; ved. anche J.M. AUBERT, La santificación del trabajo, in AA. VV., “Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer y el Opus Dei”, cit., pagg. 215-224.
[45] In secundum librum Sententiarum, dist. 1, p. 2, a. 2, q. 1; citato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 293.
[46] Cfr. BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 85.
[47] SANT’IRENEO, Adversus hæreses, 4, 20, 1.
[48] Col 1, 16-17; 19-20.
[49] 1 Cor 15, 45.
[50] La filiazione divina è un altro dei grandi temi centrali dell’insegnamento del Beato Josemaría nel quale non è possibile soffermarsi qui. Cfr. F. OCÁRIZ, Naturaleza, Gracia y Gloria, Eunsa, 2ª ed., Pamplona 2001, pagg. 175-221.
[51] Sal 18 (19), 2.
[52] Mt 6, 26.
[53] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enc. Laborem exercens, n. 25.
[54] Ibid.
[55] Ibid.
[56] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Solco, n. 498. Il Beato Josemaría contemplava specialmente questa santificazione delle attività più ordinarie nella vita di Gesù, Maria e Giuseppe a Nazaret: cfr. A. ARANDA, El bullir de la sangre de Cristo, Rialp, Madrid 2000, pagg. 153-201.
[57] Cfr. Gn 3, 8.
[58] Cfr. Rm 7, 14-23.
[59] Gv 3, 16.
[60] Deus erat in Christo mundum reconcilians sibi (2 Cor 5, 19).
[61] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Solco, n. 290.
[62] Rm 8, 32.
[63] Cfr. Lc 24, 8 e i suoi paralleli.
[64] BEATO JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Cammino, n. 178.
[65] CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 39.
[66] GIOVANNI PAOLO II, Omelia nella cerimonia di beatificazione di Josemaría Escrivá de Balaguer, 17-V-1992.
Romana, n. 34, Gennaio-Giugno 2002, p. 73-91.