Intervista concessa a Revista IESE, Spagna (n. 145)
- Come affronta questo nuovo compito di leadership?
Gesù Cristo, che è il Maestro e il Signore, ha detto di sé stesso che non era venuto per essere servito, ma per servire. Ogni missione di governo, di leadership è e deve essere un servizio. Nel mio caso è ovvio che si tratta di un servizio alla Chiesa e al Papa, dirigendo questa porzione del popolo di Dio che è la prelatura dell’Opus Dei. Riguardo ai membri dell’Opera, il mio incarico significa essenzialmente preoccuparmi che ricevano la necessaria formazione cristiana e l’assistenza pastorale, in modo che si santifichino e possano contribuire alla evangelizzazione della società, ciascuno nel luogo e nella situazione in cui si trova. Questo comporta anche dar loro incoraggiamento e lumi, a voce e per iscritto.
Consapevole, inoltre, che è Dio che santifica, affronto il mio compito confidando nell’aiuto del Cielo. Per questo, fin dal primo momento ho chiesto ai fedeli della Prelatura e ai cooperatori di sostenermi con la loro preghiera. La stessa cosa ora mi sento spinto a chiederla alle persone legate allo IESE.
- Con quali criteri valuta le cose urgenti e le cose importanti e in che modo riesce a guidare una organizzazione nella quale le differenti culture debbono confluire in un obiettivo comune?
San Josemaría, fondatore dell’Opus Dei, che è stato anche il promotore e il primo Gran Cancelliere dell’Università di Navarra, metteva in guardia dal pericolo di trascurare le cose importanti per dedicarsi alle cose urgenti. Raccomandava, cosa che faceva per primo, di studiare bene le questioni, prendendosi tutto il tempo necessario: non di meno, ma neanche di più. La precipitazione non è diligenza, come il rimandare non è prudenza. Per prevenire il nervosismo e la fretta, che facilmente inducono a prendere decisioni prima di aver potuto raccogliere tutti i dati importanti, era solito dire: “Le cose urgenti possono aspettare, le cose più urgenti devono aspettare”. La doverosa rapidità, l’agilità, sono frutto di un lavoro intenso e costante, così come dell’impegno per seguire le decisioni prese, in modo da esaurire le varie tappe, senza permettere che le cose languiscano.
Tutte queste condizioni di un buon lavoro direttivo si adempiono più facilmente se il governo è collegiale, come è stabilito nell’Opus Dei, per una prudente disposizione del fondatore. Si va sul sicuro e si procede in modo più agile se sono diverse persone a studiare una questione. La diligenza non consiste nel saltare chi doveva contribuire con una propria opinione, ma nel non far ristagnare le cose, come diceva san Josemaría; vale a dire, non lasciare in sospeso le questioni, ma esaminarle e mandarle avanti, in modo che altri possano esaminarle a loro volta e tutti possano contribuire alla decisione comune.
Lavorando così sarà più facile valutare anche che cosa è importante e che cosa urgente. A questo riguardo, penso, un criterio di base è che le cose più importanti sono quelle che più direttamente riguardano le persone. Gli aspetti organizzativi hanno certamente rilevanza, ma sono secondari, perché prima vengono le persone. Per un cristiano coerente, che ha ricevuto e apprezza l’immenso dono della fede, il servizio prioritario alle persone è anche un servizio a Dio.
Quanto al modo di conciliare, nella prelatura dell’Opus Dei, la diversità culturale e l’obiettivo comune, la chiave sta nello stimolare la libertà. Il compito principale dell’Opus Dei è quello di formare i suoi membri affinché ciascuno operi, liberamente e responsabilmente, nel luogo e nella situazione in cui si trova, cercando di incarnare la sua fede cristiana in ciò che fa. Nessuno nell’Opus Dei gli dirà che soluzione deve adottare nelle questioni professionali, sociali, politiche, ecc.: lui o lei dovranno decidere in coscienza in base, naturalmente, alla loro preparazione professionale specifica e al loro personale modo di essere e di pensare. Il pluralismo risultante non sarà mai un caos: l’armonia nasce dalla stessa varietà polifonica, per cui ciascuno contribuisce alla sinfonia dell’insieme, al compito di evangelizzare. In fondo, si tratta della medesima unità cattolica esistente nella Chiesa, casa comune a tutti i popoli.
- Come dovrebbero vivere la quotidianità coloro che cercano di essere persone migliori e di raggiungere l’eccellenza attraverso il loro lavoro nella direzione d'impresa?
Non voglio né posso proporre una soluzione precisa. Suggerirò invece alcune idee generali che, applicate da ognuno a suo modo, potrebbero essere utili. È noto che i dirigenti sono abitualmente sotto pressione per l’abbondanza e la difficoltà del lavoro, e soprattutto per la responsabilità che grava su di loro. Da una parte, mi sembra importante condividere i pesi, soprattutto con i collaboratori diretti, saper delegare. Se si dimostra fiducia alle persone, se si danno loro delle responsabilità e margini di iniziativa, di solito reagiscono bene, considerando come proprio il lavoro da fare e identificandosi col progetto comune. D’altra parte consiglierei, alle persone credenti, di scaricare il peso su Dio, che è nostro Padre. Un buon professionista che è anche un buon cristiano lavora più che può e come meglio sa, e allo stesso tempo comprende che non tutto sta nelle sue mani e quello che non controlla lo affida anche alle mani di Dio. Gesù Cristo ci ha insegnato che Dio è un Padre amorevole, che si occupa degli uccelli del cielo e dei gigli dei campi, e ancor più dei suoi figli. Se affrontiamo le nostre giornate con una fede pratica, reale, nella Provvidenza divina, che governa ogni cosa per il nostro bene — anche se a volte non riusciamo a capirlo -, cresceremo come persone nel nostro lavoro e lo faremo meglio, liberi dalle preoccupazioni che danneggiano e riducono l’efficacia. In tal senso, appare necessario anche curare il riposo: quello proprio e quello di coloro che lavorano con noi. Equilibrare la sollecitudine per i nostri obblighi e recuperare le forze permette di continuare a occuparsene con uno slancio nuovo.
- Come è possibile rendere compatibile la misericordia, della quale tanto ci parla Papa Francesco, con le esigenze di un mercato che tanto spesso sembra non avere anima? Come dovremmo collaborare a promuovere una economia più sociale?
Come modellare la misericordia nell’attività economica ce lo dirà la misericordia stessa, se permettiamo che essa entri nella nostra vita e la plasmi. Papa Francesco insegna che la misericordia è creativa; nella sua lettera in occasione della chiusura del Giubileo dell’anno passato, ci invita a dare spazio alla fantasia della misericordia, che spinge a iniziative originali. La misericordia non si limita a determinate occasioni. È un atteggiamento permanente che permette di sentire nel proprio cuore le miserie altrui, soffrirle come proprie e cercare di alleviarle. Con questa disposizione profondamente radicata, i cristiani che svolgono la loro professione nell’ambito commerciale, finanziario, industriale, ecc., possono contribuire a «dare un’anima» al mercato (e a tutte le istituzioni sociali), cioè operare nel mercato con la consapevolezza che negli scambi intervengono persone, con la determinazione di praticare la giustizia e con il desiderio di soddisfare le necessità degli altri. Questo contribuisce già, sia pure mediante piccoli contributi, a rendere più sociale l’economia; mi risulta che lo IESE lo promuove nella sua attività di formazione di dirigenti. D’altra parte, lo IESE può contribuire con studi e proposte di rilievo a far sì che le pratiche imprenditoriali e la politica economica e del lavoro vadano in questa direzione.
Inoltre, è necessario praticare la misericordia come dono gratuito, per aiutare a superare le carenze, materiali e spirituali, che il mercato non può o non vuole rimediare. Molti imprenditori sostengono iniziative di assistenza e promozione umana, che sono prova della creatività della misericordia.
- Come evitare che il desiderio di successo offuschi il desiderio di aiutare gli altri?
Non sono incompatibili se nascono dallo stesso impulso e tendono allo stesso fine. La santificazione del lavoro, che è un aspetto essenziale dello spirito dell’Opus Dei, diventa realtà se si lavora bene, con competenza e per un motivo soprannaturale. Se nella nostra attività facciamo in modo di amare Dio e il prossimo, tutte le altre intenzioni si unificheranno e l’attività stessa diverrà santa. Allora non ci sarà contrasto tra il successo e la solidarietà. Un dirigente che vuol essere un buon cristiano cercherà il successo per portare avanti il proprio progetto professionale e, allo stesso tempo, aiutare gli altri. I due desideri si rafforzano a vicenda.
- Concretamente, in che modo possiamo introdurre nel lavoro una concezione più umana delle relazioni fra gli uomini?
Sono sicuro che è una cosa che lo IESE fa continuamente, quando sottolinea che una azienda è una comunità di persone e mostra come questa realtà deve trovare riscontro negli stili di direzione. A loro volta, le persone che si formano nello IESE diffondono tale visione e le pratiche conseguenti in mille maniere, applicando con inventiva quello che hanno imparato alle diverse situazioni professionali, e sempre con una attenzione rivolta individualmente ai più bisognosi.
- Quali criteri le sembra che debbano tenere presenti gli uomini e le donne per affrontare tale sfida? Quali sfide comportano per la famiglia questi cambiamenti? Perché sono sempre più necessari due stipendi?
Il problema non è solo la necessità di due stipendi in una famiglia, ma anche di consentire a una madre di famiglia di svolgere un’attività professionale. È un peccato trovarsi davanti all’alternativa: o famiglia o professione. In realtà, questo accade spesso anche agli uomini. È chiaro che le donne, se possono e se vogliono, lasciano il lavoro fuori dalla porta di casa e si concentrano nella cura dei figli, per esempio, finché sono piccoli. È una decisione talvolta necessaria e, in ogni caso, degna di plauso. D’altra parte, ci sono molte donne che conciliano la cura della famiglia con un altro lavoro e ci sono anche sempre più uomini che riducono la giornata lavorativa per dedicare più tempo alla famiglia. Conciliare famiglia e professione è uno dei problemi più importanti che la società attuale deve risolvere in molti Paesi. So che nello IESE gli prestate molta attenzione e mi auguro che contribuiate a trovare le soluzioni.
Ma soprattutto vorrei sottolineare una cosa fondamentale. Quando le madri e i padri di famiglia si prendono cura della casa e educano i figli con grande amore e sacrificio, tra molte difficoltà, anche se a volte le cose non vanno per il verso giusto o non riescono a farlo come vorrebbero, compiono qualcosa di grandioso. Ottengono i benefici migliori, la formazione e la felicità di alcune persone, e diventano creditori della gratitudine della società, perché danno un contributo insostituibile al bene comune. E, soprattutto, Dio li guarda con compiacimento. San Josemaría era solito ricordare agli imprenditori che il migliore e principale affare che hanno fra le mani è la famiglia.
- Quali potrebbero essere, secondo lei, i valori distintivi di un’azienda etica, nei momenti buoni e in quelli cattivi, quando si è costretti ad adottare misure spiacevoli?
Questo lo saprà meglio di me qualunque dirigente d’azienda. Penso che convenga tenere presente che, certe volte, le situazioni possono essere molto diverse e complesse.
Può esserci gente insensibile, ma non c’è dubbio che molti dirigenti soffrono veramente quando si vedono costretti a ridurre l’organico perché non c’è altro modo per assicurare la sopravvivenza dell’azienda. Soffrono perché vedono, in chi è stato colpito dal provvedimento, persone e famiglie che magari corrono il pericolo di rimanere a lungo senza lavoro. Soffrono anche per la preoccupazione o lo scoraggiamento che si può propagare tra i dipendenti che conservano il posto, a parte la preoccupazione personale per il futuro dell’azienda e, di conseguenza, delle loro stesse famiglie e di quelle degli altri che da essa dipendono.
Nei tempi cattivi questa reazione nel dirigente è sintomo di un’etica di un’attenzione primordiale alle persone, che egli saprà modellare nelle politiche e nelle pratiche aziendali. In tempi buoni, lo stesso atteggiamento indurrà i dirigenti a mettere in gioco tutto il loro talento per procurare la prosperità dell’azienda, senza limitarsi a cercare l’utile nel breve periodo. Si prenderanno cura del «capitale umano», per esempio, investendo nella formazione degli operai. Nell’attenzione privilegiata alle persone rientrano anche il rispetto delle leggi e dell’ambiente; un rispetto che fa parte della missione dell’azienda, del suo contributo al bene comune. Talvolta è molto difficile integrare tutti questi fattori: decidere diventa complicato ed è facile sbagliare. A ogni modo, l’etica non è né un limite né un complemento delle buone pratiche dirigenziali, ma una dimensione essenziale.
- Basta l’introduzione di codici di comportamento e di meccanismi di supervisione perché l’impresa abbia una base etica?
I codici, soprattutto se se ne controlla l’adempimento, possono essere di grande aiuto. Sono l’espressione degli orientamenti etici fondamentali e si applicano ai diversi aspetti dell’attività aziendale. Tuttavia, nella vita reale, si decide in situazioni concrete e i diversissimi casi reali non possono essere previsti tutti in un codice. Per procedere a colpo sicuro in ogni situazione, i dirigenti, per un verso debbono aver assimilato nel migliore dei modi i principi etici e professionali. Inoltre, hanno anche bisogno di esperienza, di tenacia, della fortezza per resistere alle pressioni a cedere al male e della flessibilità per rimediare. Imparare queste attitudini ed esercitarle fa parte della formazione del dirigente.
- Lei conosce il ruolo che ha svolto e svolge lo IESE nello sviluppo delle scuole di management in Africa e in altre economie emergenti. Come possiamo aiutarle di più, per accelerarne il ruolo formativo, rispettando la ricchezza culturale che hanno alle spalle?
Apprezzo molto il gran lavoro che lo IESE cerca di svolgere per trasmettere conoscenze ai Paesi in via di sviluppo. In tal modo si collabora alla nascita di un nucleo qualificato di imprenditori e di dirigenti dotati di ideali, tanto necessari in quelle nazioni. E lo fa nel modo più efficace: formando quelli che formeranno i loro compatrioti, avviando un’attività che si perpetuerà perché avrà un impulso proprio e uno stile adeguato alle caratteristiche e alla cultura del luogo. Indubbiamente ci sarà una accelerazione grazie alla spinta dello IESE, anche se i frutti migliori forse tarderanno ancora.
- Noi che ci lavoriamo, che responsabilità abbiamo circa la missione dello IESE?
Naturalmente, dovete mantenere vivo il patrimonio ideologico dell’istituzione, che conoscete molto bene. Un codice basato sull’umanesimo cristiano, che sottolinea innanzitutto il valore della persona, che riconosce la dimensione etica dell’attività imprenditoriale e il suo contributo al bene comune, che poi si traduce in un chiaro desiderio di servire. Dovete mantenere il carattere peculiare della missione dello IESE, senza permettere che si diluisca. A tal fine dovete saperlo attuare, con inventiva e originalità, nelle diverse circostanze e nei diversi tempi. Infine, occorre da parte vostra fedeltà alla missione: ma una fedeltà che sia dinamica, capace di scoprire nuovi modi per far conoscere agli altri le ricchezze del cuore di Cristo.
- Come Gran Cancelliere dell’Università di Navarra, che cosa chiede alle persone che lavorano nello IESE?
Più che chiedere, ringrazio Dio e voi per il vostro lavoro, che continua a trasformare in realtà il grande ideale che spinse san Josemaría a promuovere la creazione dello IESE. Sono ormai molte migliaia gli imprenditori e i dirigenti che hanno ricevuto nello IESE una formazione integrale che li ha fatti crescere come persone e come professionisti. Lo IESE è un faro di eccellenza, di umanità, di responsabilità sociale e di spirito cristiano che raggiunge molti ambienti e molti luoghi. Grazie!
Romana, n. 64, Gennaio-Giugno 2017, p. 150-157.