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Il 20° anniversario dell’Università Pontificia della Santa Croce

Trascriviamo la conferenza pronunciata dal cardinale Saraiva Martins:

È per me motivo di particolare soddisfazione prendere la parola nella celebrazione del ventennale della nascita della Pontificia Università della Santa Croce, non solo perché conosco l’elevato livello scientifico ed il profondo senso ecclesiale di tale Università, ma anche perché ho seguito da vicino la sua ancor breve, ma già feconda storia.

I miei anni come professore e Rettore della Pontificia Università Urbaniana hanno coinciso con i primi passi di quella che è oggi la Pontificia Università della Santa Croce. Si era negli anni Ottanta e venni a sapere di un gruppo di professori residenti a Roma, che stavano per dare vita alle Sezioni di Teologia e di Diritto Canonico, forti dell’orientamento e del patrocinio delle prestigiose facoltà di queste stesse materie dell’Università di Navarra. Il 9 gennaio 1985 la Congregazione per l’Educazione Cattolica emanò il Decreto con cui entrambe le sezioni venivano erette, a formare il Centro Accademico Romano della Santa Croce.

Nel maggio 1988 venni nominato Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica. Le notizie sul Centro Accademico Romano e le informazioni sulla sua crescita e sviluppo mi giunsero, a partire da quel momento, in modo diretto ed ufficiale. Il 9 gennaio 1990 la Congregazione, dopo aver verificato lo sviluppo raggiunto dal Centro Romano della Santa Croce, procedeva a promulgare il Decreto con cui il Centro veniva trasformato in Ateneo Romano della Santa Croce, erigendo non solo la Facoltà di Teologia ma anche quella di Filosofia, a cui si unì quella di Diritto Canonico. L’istituzione faceva così un importante passo avanti nel suo processo di consolidamento. Qualche tempo dopo, mentre io ero ancora alla Congregazione per l’Educazione Cattolica, ebbero luogo altri avvenimenti estremamente significativi per la crescita dell’Ateneo: la concessione da parte del Santo Padre, il 26 giugno 1995, del titolo “Pontificio”, e la creazione, il 26 febbraio 1996, della Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale.

Nel maggio 1998, Giovanni Paolo II mi fece l’onore di nominarmi Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Il momento culminante per la storia dell’istituzione in cui ci troviamo, cioè la sua elevazione al rango di Pontificia Università, giunse, com’è naturale, a mia conoscenza un po’ come da lontano. Ad ogni modo i miei rapporti diretti con la ormai Pontificia Università della Santa Croce sono continuati, anche se in un’altra prospettiva. Come Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, il 6 ottobre 2002 ho avuto l’immensa gioia di partecipare alla solenne canonizzazione di san Josemaría Escrivá, al cui zelo apostolico e sacerdotale si deve la creazione dell’Università. E di recente mi è toccato rilasciare il nihil obstat per l’inizio del processo di beatificazione e canonizzazione del suo Fondatore e primo Gran Cancelliere, il Servo di Dio, Mons. Álvaro del Portillo.

I fatti che ho brevemente menzionato documentano pienamente le ragioni per cui, come dicevo all’inizio, il poter essere presente a questo atto è per me motivo di speciale soddisfazione. Potrei ampliare questa narrazione estendendomi in commenti e considerazioni, ma non è questo il momento di parlare della mia persona, bensì dell’istituzione di cui celebriamo il ventennale. Per questo mi sembra opportuno, dando per conclusi i riferimenti storici, dedicare il resto del mio intervento a trattare, anche se brevemente, dello spirito universitario di cui questa Università ed il suo corpo docente offrono un brillante esempio.

Dai tempi della nascita dell’istituzione universitaria fino ai nostri giorni, si è riflettuto e scritto sull’università. Sono quindi molte le testimonianze, antiche e moderne, a cui potrei far ricorso per farmi guidare in queste considerazioni. In un’occasione come quella di oggi, mi sembra particolarmente adeguato ricorrere alle parole che Mons. Álvaro del Portillo pronunciò come Gran Cancelliere del Centro Accademico Romano della Santa Croce il 20 novembre 1985, cioè nella prima inaugurazione dell’anno accademico che ebbe luogo dopo l’erezione del Centro: “Nell’ambito della società civile, l’università è — con i suoi compiti docenti e di ricerca, con la sua aspirazione ad approfondire le fonti della sapienza e della scienza — l’avanguardia delle vie percorse dagli uomini. La stessa cosa può affermarsi, a maggior ragione, per le università in cui vengono coltivate le discipline ecclesiastiche: infatti lo studio e l’insegnamento delle scienze sacre, sempre in unione con il Magistero della Chiesa e sotto la sua guida, aprono la strada che deve percorrere il cristiano ed additano la meta finale verso cui deve dirigere i suoi passi”. “Il Centro Accademico Romano della Santa Croce (...) — proseguiva Mons. Del Portillo — intende realizzare fedelmente questo progetto”[1].

Le parole appena citate, che possono risvegliare il ricordo commosso di molti che oggi lavorano nella Pontificia Università della Santa Croce, indicano tre punti fondamentali per la configurazione di un centro universitario, che ora vorrei, benché brevemente, commentare:

a) l’unione tra i diversi saperi; b) la formazione delle persone; c) il servizio alla cultura e, da un punto di vista cristiano, al grande compito dell’evangelizzazione.

a) Diversità e dialogo tra le scienze

L’esistenza di una diversità di scienze e, nel contempo, la necessità di una connessione tra loro, è stata percepita fin dall’antichità, dando luogo a profonde ed ampiamente sviluppate riflessioni epistemologiche — basti pensare alla figura di Aristotele —. La genialità dell’epoca medievale consistè nell’unire queste diverse scienze in un’unica istituzione, in cui tutte coesistessero — di qui il nome di universitas scientiarum — e, di conseuenza, fossero di reciproco stimolo. Non mancarono momenti di scontro e anche di opposizione, ma l’istituzione universitaria si rivelò non solo efficace, bensì capace di adeguarsi a situazioni culturali molto differenti, fino ad arrivare ai nostri giorni.

Un’analisi della vita dell’università mostra che un contributo determinante alla sua fecondità è dato non solo dalla coesistenza tra i saperi, ma anche da altri fattori, tra cui ne evidenziamo due. Da una parte, il costituirsi di una comunità in cui si riuniscono maestri e discepoli. Dall’altra, in intima connessione con la precedente, la decisione di unire docenza e ricerca, in modo che i maestri trasmettano ai discepoli non solo le conoscenze già acquisite, ma anche il desiderio di progredire nel sapere e le metodologie e gli strumenti che permettono di plasmare questo desiderio in realizzazioni effettive.

Non è questo il momento di tracciare una storia dell’istituzione universitaria, né — obiettivo meno ambizioso, ma estraneo anch’esso alla finalità che mi sono proposto — quello di mostrare come l’esistenza o l’inesistenza della cooperazione tra i ricercatori delle diverse materie (l’interdisciplinarietà, come si dice ora) ha sempre segnato le tappe del progresso o della decadenza dell’università. Quel grande universitario che fu san Josemaría Escrivá lo percepì chiaramente, promuovendo in molteplici occasioni il dialogo ed il lavoro in équipe, con un atteggiamento di spirito nel quale predominavano lo spirito di servizio e l’amore per la verità. Perché — citiamo le sue parole — “l’amore della verità impegna la vita ed il lavoro dell’uomo di scienza, e sostiene la sua rettitudine nelle possibili situazioni difficili”[2]. Nessun ricercatore mosso da un interesse autenticamente scientifico e, in termini più ampi, nessun cristiano può “aver paura della scienza, perché qualsiasi ricerca, se è veramente scientifica, tende alla verità”[3].

San Josemaría Escrivá seppe inoltre sottolineare la necessità di unire questa rettitudine morale e l’amore alla verità, con il rispetto per l’autonomia dei saperi e pertanto per la legittima libertà dei docenti e ricercatori, mostrando una concezione unitaria del mondo e dell’uomo, tale da mettere sempre il sapere al servizio della persona. La sua mentalità universitaria si univa così alla sua condizione di cristiano e di sacerdote, in un reciproco potenziamento. I suoi testi in questo senso sono innumerevoli. Limitiamoci qui a citare solo uno dei più significativi, una sua intervista rilasciata nell’ottobre 1967: “La religione è la più grande ribellione dell’uomo che non si rassegna a vivere come una bestia, dell’uomo che non si adatta — non si dà pace — finché non conosce e non stabilisce una comunicazione con il suo Creatore: lo studio della religione è una necessità fondamentale. (...) Per questo la religione deve essere presente nell’università; e deve essere insegnata al livello più alto, scientifico, di buona teologia. Un’università in cui la religione è assente è un’università incompleta: perché ignora una dimensione fondamentale della persona umana, che non esclude — anzi richiede — le altre dimensioni”[4].

b) Formazione di uomini

La frase appena citata fa riferimento ad alcune realtà. Da una parte, la subordinazione della società al bene della persona umana e, più concretamente, al bene della persona umana intesa in tutta la sua ricchezza, cioè aperta a Dio e chiamata all’unione con Lui. Dall’altra, l’autonomia o specificità di ogni scienza, giacché questo orientamento ultimo, potremmo dire teologale, dell’essere umano e delle sue diverse attività non ignora, bensì connota l’esistenza di altre dimensioni, certamente meno alte, ma ugualmente costitutive dell’essere umano. Il che, nel caso concreto dell’università, implica serietà nella ricerca, dedizione alla docenza, professionalità nell’insieme dei compiti propri della vita accademica.

Detto questo, e riaffermata quindi l’autonomia di ogni sfera del sapere, conviene ripetere che la società umana non è formata da macchine né da schiavi, ma da esseri vivi, dotati di intelligenza e di libertà. Per questo le istituzioni che integrano e compongono la società devono godere di vita propria, devono avere i propri ambiti di attività nei quali potersi muovere con un’autonomia rispettata dal resto del corpo sociale, e allo stesso tempo integrarsi in esso armonicamente, dando vita ad una convivenza sincera ed autentica. Non solo la sottomissione violenta ad un’autorità dispotica o la negazione di ogni autonomia distruggono la vita sociale, ma anche l’egoismo, la preoccupazione eccessiva ed egocentrica per il proprio interesse.

San Josemaría Escrivá ne ebbe chiara consapevolezza. Infatti, nella sua predicazione due realtà sono sempre unite: libertà e responsabilità. Libertà intesa come dono divino in virtù del quale ogni essere umano è chiamato a decidere della propria vita; e responsabilità, come atteggiamento spirituale, nobiltà d’animo, per cui ogni essere umano, uomo e donna, assume consapevolmente la sua vocazione, il ruolo che è chiamato a svolgere nella storia e davanti a Dio, e a coordinare la sua attività con quella degli altri.

L’università — egli afferma, applicando all’istituzione universitaria questa impostazione di fondo — deve godere di “vita propria”, “deve avere l’indipendenza di un organo in un corpo vivo: la libertà di compiere la sua funzione specifica al servizio del bene comune”[5], poiché “l’università ha come sua più alta missione quella di servire gli uomini, e di essere fermento della società in cui vive”[6].

Se continuassimo a leggere i suoi testi, ci renderemmo presto conto che questo ideale, questa unione tra libertà e responsabilità, comporta per l’università due conseguenze fondamentali: il già menzionato amore per la verità, con quanto ne deriva, e l’attenzione al discepolo come persona. Il rigore scientifico, la passione per il progresso della scienza, l’emozione che si prova nel fare nuove scoperte, non devono mai portare lo scienziato a dimenticare di essere non solo un ricercatore, ma un essere umano, così come anche coloro che lo ascoltano nelle spiegazioni o partecipano al suo lavoro di ricerca non sono solo discepoli o collaboratori, ma uomini e donne, persone umane. Il suo lavoro come universitario non ha come meta solo il progresso della scienza, quella propria ed altrui, ma anche ed inseparabilmente la formazione di quanti gli sono vicini come persone.

“Non c’è università propriamente detta — egli giunse a scrivere — nelle scuole in cui alla trasmissione del sapere non si unisce la formazione integrale delle personalità dei giovani”[7]. L’università deve essere un’istituzione formatrice di uomini, mediante l’elevazione della loro mente e del loro spirito. A questa meta contribuisce non solo il tono generale di una docenza che si svolge in sintonia con la verità scientifica e con le esigenze del proprio tempo, ma anche — e mi piace ricordarlo in un luogo, la Pontificia Università della Santa Croce, in cui tutto ciò viene molto curato — il rapporto cordiale tra professori e alunni; così pure — benché possa sembrare un aspetto di minor rilievo — la bellezza ed il decoro degli edifici.

c) Servizio all’evangelizzazione

“L’università non vive ignorando le incertezze, le inquietudini, le necessità degli uomini. Non è sua missione quella di offrirvi soluzioni immediate; però, studiando con profondità scientifica i problemi, smuove anche i cuori, scuote le passività, risveglia forze sopite, e forma cittadini disposti a costruire una società più giusta”[8]. Queste parole, pronunciate da san Josemaría in un altro discorso accademico, completano quanto detto nei paragrafi precedenti, e allo stesso tempo ci introducono nel terzo ed ultimo dei punti che desidero sviluppare.

Parlare dell’università, ed in particolare di un’università che, fedele al suo nome, promuove non solo la crescita delle scienze ma anche la formazione di quanti la frequentano, è parlare del futuro, del succedersi delle generazioni. Più concretamente, dell’impegno grazie al quale le generazioni presenti vanno preparando il cammino per quelle successive, di modo che le une unite alle altre abbracciano il tempo e contribuiscono al progressivo sviluppo dell’umanità. Questo compito richiede lavoro, dedizione, impegno. E, ad orientare tutto questo sforzo, occorre un’adeguata concezione dell’essere e del destino dell’uomo, a cui ho già fatto riferimento, ma che ora risulta opportuno evocare di nuovo, giacché le società sono sempre il riflesso dell’idea che gli esseri umani hanno di se stessi. Cristo, in cui è racchiusa la verità su Dio e sull’uomo, è pertanto la guida sicura, anzi, imprescindibile.

Giovanni Paolo II lo dichiarò con decisione nella prima delle sue encicliche, in cui invitava a guardare Cristo “centro del cosmo e della storia”, e ad orientare interamente verso di Lui tutte le nostre facoltà: intelligenza, volontà, cuore[9]. Una chiamata non meno pressante ci è stata rivolta anni dopo dal Romano Pontefice, quando ha tracciato nella Novo millennio ineunte il programma per il periodo storico nel quale ci muoviamo: “Duc in altum! Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo”[10].

Solo pochi mesi fa, proclamando l’anno dell’Eucarestia, Giovanni Paolo II riconosceva che i buoni auspici con cui era iniziato il millennio sono stati troncati, perché “è venuto delineandosi uno scenario che, accanto a prospettive confortanti, lascia intravedere cupe ombre di violenza e di sangue”[11]. Tuttavia egli non indietreggia e non abbandona l’impegno, anzi, riafferma con decisione la sua speranza: “Invitando la Chiesa a celebrare il Giubileo dei duemila anni dall’Incarnazione, ero ben convinto — e lo sono tuttora più che mai! — di lavorare per i ´tempi lunghi` dell’umanità”[12]. “Più che mai!”: al di sopra di incertezze e difficoltà il cristiano deve confermarsi nella sicurezza dell’amore di Dio manifestato in Cristo, e vivere ed agire di conseguenza.

Questo stesso atteggiamento di fede, la fiducia nella forza con cui la parola e la vita di Cristo possono incidere nella storia, li troviamo in san Josemaría Escrivá. I testi in questo senso sono molti; ne ho scelto uno perché, provenendo da uno dei suoi discorsi accademici, ha come orizzonte proprio il lavoro universitario: “Salveranno questo mondo nostro (...), non coloro che cercano di narcotizzare la vita dello spirito, riducendo tutto a questioni economiche o di benessere personale, ma quanti hanno fede in Dio e nel destino eterno dell’uomo, e sanno ricevere la verità di Cristo come luce che orienta l’azione e la condotta”[13]. Si realizzeranno come cristiani e, di conseguenza, serviranno i propri concittadini, coloro che riconoscono e ricevono la fede come verità piena: non solo come luce che li consola nei momenti di tribolazione, ma come spinta che li porta a intraprendere e a ricominciare, quando sia necessario, opere di comprensione e di servizio.

Giungo quindi al termine del mio intervento. Le considerazioni e i testi che precedono sono ben noti a quanti compongono il claustro accademico dell’istituzione in cui ci troviamo. Per l’Università della Santa Croce l’aggettivo “pontificia” non è, e non è mai stato, un titolo meramente decorativo, ma una qualifica che la impegna profondamente, invitandola ad una fedeltà attiva al Romano Pontefice e, in unione con il Romano Pontefice, alla Chiesa nel suo insieme. Questo è lo spirito che, facendo eco allo zelo sacerdotale ed apostolico di san Josemaría Escrivá, le infuse il suo fondatore, Mons. Álvaro del Portillo, e che il suo attuale Gran Cancelliere, Mons. Javier Echevarría, della cui amicizia mi onoro, continua a ricordarci.

Sono trascorsi vent’anni da quello in cui l’attuale Pontificia Università della Santa Croce iniziò il suo cammino. Un lasso di tempo breve per un’istituzione, ma pieno di realizzazioni, proprio grazie alla fedeltà allo spirito fondazionale. Non mi resta che augurare che gli anni futuri, vissuti sempre con lo stesso atteggiamento intellettuale e spirituale, siano tanto, se non più, fecondi di quelli trascorsi.

[1] Testo in “Romana. Bollettino della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei”, I (1985) 79.

[2] Discorso pronunciato all’Università di Navarra il 9-5-1974 (pubblicato in Josemaría Escrivá de Balaguer y la Universidad, Pamplona 1983, pp. 106-107).

[3] È Gesù che passa, n. 10.

[4] Colloqui, n. 73.

[5] Colloqui, n. 79.

[6] Discorso pronunciato all’Università di Navarra il 7-10-1967 (in Josemaría Escrivá de Balaguer y la Universidad, cit., p. 90).

[7] Discorso pronunciato all’Università di Navarra il 28-11-1964 (in Josemaría Escrivá de Balaguer y la Universidad, cit., p. 77).

[8] Discorso pronunciato all’Università di Navarra il 7-10-1972 (in Josemaría Escrivá de Balaguer y la Universidad, cit., p. 98).

[9] Cfr GIOVANNI PAOLO II, enc. Redemptor hominis, nn. 1 e 7.

[10] GIOVANNI PAOLO II, lett. ap. Novo millennio ineunte, n. 58

[11] GIOVANNI PAOLO II, lett. ap. Mane nobiscum Domine, n. 6.

[12] Ibidem.

[13] Discorso pronunciato all’Università di Navarra il 9-5-1974 (in Josemaría Escrivá de Balaguer y la Universidad, cit., p. 108).

Romana, n. 40, Gennaio-Giugno 2005, p. 140-146.

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