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Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo dell’anno 2000 (23-III-2000)

Carissimi Fratelli nel sacerdozio!

1. Gesù, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13, 1). Rileggo con viva commozione qui a Gerusalemme, nel luogo che secondo la tradizione ospitò Gesù e i Dodici per la Cena pasquale e l’istituzione dell’Eucaristia, le parole con cui l’evangelista Giovanni introduce la narrazione dell’Ultima Cena.

Rendo lode al Signore che, nell’Anno Giubilare dell’incarnazione del Figlio suo, mi ha concesso di mettermi sulle orme terrene di Cristo, seguendo le strade da lui percorse tra la nascita a Betlemme e la morte sul Golgota. Ieri ho sostato a Betlemme nella grotta della Natività. Nei giorni prossimi toccherò diversi luoghi della vita e del ministero del Salvatore, dalla casa dell’Annunciazione, al Monte delle Beatitudini, all’Orto degli Ulivi. Domenica, infine, sarò al Golgota e al Santo Sepolcro.

Oggi, questa visita al Cenacolo mi offre l’occasione per gettare uno sguardo d’insieme sul mistero della Redenzione. Fu qui che egli ci fece il dono incommensurabile dell’Eucaristia. Qui nacque anche il nostro sacerdozio.

Una lettera dal Cenacolo

2. E proprio da questo luogo mi piace indirizzarvi la lettera, con la quale da oltre vent’anni vi raggiungo nel Giovedì santo, giorno dell’Eucaristia e «nostro» giorno per eccellenza.

Sì, vi scrivo dal Cenacolo, ripensando a quanto si svolse tra queste mura in quella sera carica di mistero. Agli occhi dello spirito mi si presenta Gesù, mi si presentano gli Apostoli seduti a mensa con lui. Mi soffermo, in particolare, su Pietro: mi pare di vederlo mentre, insieme con gli altri discepoli, osserva stupito i gesti del Signore, ne ascolta commosso le parole, si apre, pur con il peso della sua fragilità, al mistero che lì si annuncia e tra poco si compirà. Sono le ore in cui si combatte la grande battaglia tra l’amore che si dona senza riserve e il mysterium iniquitatis che si chiude nella sua ostilità. Il tradimento di Giuda si propone quasi come emblema del peccato dell’umanità. Era notte, annota l’evangelista Giovanni (13, 30): l’ora delle tenebre, ora di distacco e di infinita tristezza. Ma nelle parole accorate di Cristo, già balenano le luci dell’aurora: Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia (Gv 16, 22-23).

3. Dobbiamo rimeditare sempre di nuovo il mistero di quella notte. Dobbiamo tornare spesso con lo spirito a questo Cenacolo, dove specialmente noi sacerdoti possiamo sentirci, in certo senso, «di casa». Di noi si potrebbe dire, rispetto al Cenacolo, quello che il Salmista dice dei popoli rispetto a Gerusalemme: Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato (Sal 87 [86], 6).

Da quest’Aula santa mi viene spontaneo immaginarvi nelle più diverse parti del mondo, con i vostri mille volti, più giovani o più avanti negli anni, nei vostri differenti stati d’animo: per tanti, grazie a Dio, di gioia e di entusiasmo, per altri forse di dolore, forse di stanchezza, forse di smarrimento. In tutti vengo ad onorare quell’immagine del Cristo che avete ricevuto con la consacrazione, quel «carattere» che connota in modo indelebile ciascuno di voi. Esso è segno dell’amore di predilezione, dal quale è raggiunto ogni sacerdote e sul quale egli può sempre contare, per andare avanti con gioia, o ricominciare con nuovo entusiasmo, nella prospettiva di una fedeltà sempre più grande.

Nati dall’amore

4. Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Com’è noto, a differenza degli altri Vangeli, quello di Giovanni non si sofferma a narrare l’istituzione dell’Eucaristia, già evocata da Gesù nell’ampio discorso presso Cafarnao (cfr. Gv 6, 26-65), ma indugia sul gesto della lavanda dei piedi. Questa iniziativa di Gesù che sconcerta Pietro, prima di essere un esempio di umiltà proposto alla nostra imitazione, è rivelazione della radicalità della condiscendenza di Dio verso di noi. In Cristo, infatti, è Dio che ha «spogliato se stesso», e ha assunto la «forma di servo» fino all’estrema umiliazione della Croce (cfr. Fil 2, 7), per aprire all’umanità l’accesso all’intimità della vita divina: i grandi discorsi che, nel Vangelo di Giovanni, seguono il gesto della lavanda dei piedi e quasi ne sono il commento, si configurano come una introduzione al mistero della comunione trinitaria, alla quale il Padre ci chiama inserendoci in Cristo col dono dello Spirito.

Questa comunione va vissuta secondo la logica del comandamento nuovo: Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13, 34). Non a caso la preghiera sacerdotale corona questa mistagogia mostrando Cristo nella sua unità col Padre, pronto a ritornare a lui attraverso il sacrificio di sé, e di null’altro desideroso che della partecipazione ai discepoli della sua unità col Padre: Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola (Gv 17, 21).

5. A partire da quel nucleo di discepoli che ascoltarono queste parole, è tutta la Chiesa che si è formata, estendendosi nel tempo e nello spazio come «un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (S. Cipriano, De Orat. Dom., 23). L’unità profonda di questo nuovo popolo non esclude la presenza, al suo interno, di compiti diversi e complementari. Così, a quei primi apostoli sono legati a titolo speciale coloro che sono stati posti a rinnovare in persona Christi il gesto che Gesù compì nell’Ultima Cena, istituendo il sacrificio eucaristico, «fonte e apice di tutta la vita cristiana» (Lumen gentium, 11). Il carattere sacramentale che li distingue, in virtù dell’Ordine ricevuto, fa sì che la loro presenza e il loro ministero siano unici, necessari e insostituibili.

Sono passati quasi 2000 anni da quel momento. Quanti sacerdoti hanno ripetuto quel gesto! Spesso sono stati discepoli esemplari, santi, martiri. Come dimenticare, in quest’Anno Giubilare, i tanti sacerdoti che hanno testimoniato con la loro vita Cristo fino all’effusione del sangue? Il loro martirio accompagna l’intera storia della Chiesa, e segna anche il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, caratterizzato da diversi regimi dittatoriali ed ostili alla Chiesa. Desidero, dal Cenacolo, dire grazie al Signore per il loro coraggio. Guardiamo ad essi per imparare a seguirli sulle orme del Buon Pastore che offre la vita per le pecore (Gv 10, 11).

Un tesoro in vasi di creta

6. E vero: nella storia del sacerdozio, non meno che in quella dell’intero popolo di Dio, s’avverte anche la presenza oscura del peccato. Tante volte l’umana fragilità dei ministri ha offuscato in loro il volto di Cristo. E come stupirsene, proprio qui, nel Cenacolo? Qui non solo si consumò il tradimento di Giuda, ma lo stesso Pietro dovette fare i conti con la sua debolezza, ricevendo l’amara profezia del rinnegamento. Scegliendo uomini come i Dodici, Cristo certo non si illudeva: fu in questa debolezza umana che pose il sigillo sacramentale della sua presenza. La ragione ce la indica Paolo: Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi (2 Cor 4, 7).

Per questo, nonostante tutte le fragilità dei suoi sacerdoti, il popolo di Dio ha continuato a credere alla forza di Cristo operante attraverso il loro ministero. Come non ricordare la splendida testimonianza del poverello di Assisi a questo riguardo? Egli, che per umiltà non volle essere sacerdote, lasciò nel suo Testamento l’espressione della sua fede nel mistero di Cristo presente nei sacerdoti, dichiarandosi pronto a ricorrere ad essi persino se lo avessero perseguitato, senza tener conto del loro peccato. «E faccio questo — spiegava — perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri» (Fonti Francescane, n. 113).

7. Da questo luogo in cui Cristo ha pronunciato le parole sacre dell’istituzione eucaristica vi invito, cari sacerdoti, a riscoprire il «dono» e il «mistero» che abbiamo ricevuto. Per coglierlo alla radice, dobbiamo riflettere sul sacerdozio di Cristo. Ad esso, certo, tutto il popolo di Dio partecipa in forza del Battesimo. Ma il Concilio Vaticano II ci ricorda che, oltre a questa partecipazione comune a tutti i battezzati, ce n’è un’altra specifica, ministeriale, che è diversa per essenza dalla prima, anche se ad essa intimamente ordinata (cfr. Lumen gentium, 10).

Al sacerdozio di Cristo ci avviciniamo in un’ottica particolare nel contesto del Giubileo dell’Incarnazione. Esso ci invita a contemplare in Cristo l’intima connessione che esiste tra il suo sacerdozio e il mistero della sua persona. Il sacerdozio di Cristo non è «accidentale», non è un compito che egli avrebbe potuto anche non assumere, ma è inscritto nella sua identità di Figlio incarnato, di Uomo-Dio. Tutto, ormai, nei rapporti tra l’umanità e Dio, passa per Cristo: Nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me (Gv 14, 6). Per questo Cristo è sacerdote di un sacerdozio eterno ed universale, di cui quello della prima Alleanza era figura e preparazione (cfr. Eb 9, 9). Egli lo esercita in pienezza da quando si è assiso come sommo sacerdote alla destra del trono della maestà nei cieli (Eb 8, 1). Da allora è cambiato lo statuto stesso del sacerdozio nell’umanità: non c’è più che un unico sacerdozio, quello di Cristo, che può essere diversamente partecipato ed esercitato.

Sacerdos et Hostia

8. Al tempo stesso, è stato portato a perfezione il senso del sacrificio, atto sacerdotale per eccellenza. Cristo, sul Golgota, ha fatto della sua stessa vita un’offerta di valore eterno, un’offerta «redentrice», che ha riaperto per sempre la strada della comunione con Dio interrotta dal peccato.

Getta luce su questo mistero la Lettera agli Ebrei, facendo risuonare sulle labbra di Cristo alcuni versi del Salmo 40: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato [...] Ecco, io vengo [...] per fare, o Dio, la tua volontà (Eb 10, 5.7; cfr. Sal 40 [39], 7-9). Secondo l’Autore della Lettera, queste parole profetiche sono state pronunciate da Cristo nel momento del suo ingresso nel mondo. Esprimono il suo mistero e la sua missione. Cominciano a realizzarsi, dunque, fin dal momento dell’Incarnazione, anche se raggiungono il culmine nel sacrificio del Golgota. Da allora, ogni offerta del sacerdote non è che ripresentazione al Padre dell’unica offerta di Cristo, fatta una volta per sempre.

Sacerdos et Hostia! Sacerdote e Vittima. Questo aspetto sacrificale segna profondamente l’Eucaristia, ed è insieme dimensione costitutiva del sacerdozio di Cristo e, in conseguenza, del nostro sacerdozio. Rileggiamo in questa luce le parole che ogni giorno pronunciamo, e che risuonarono per la prima volta proprio qui nel Cenacolo: Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi [...] Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati.

Sono le parole testimoniate, con redazioni sostanzialmente convergenti, dagli Evangelisti e da Paolo. Esse furono pronunciate in questo luogo nella tarda sera del Giovedì santo. Dando agli Apostoli il suo Corpo da mangiare e il suo Sangue da bere, egli espresse la profonda verità del gesto che avrebbe di lì a poco compiuto sul Golgota. Nel Pane eucaristico c’è infatti lo stesso Corpo nato da Maria ed offerto sulla Croce:

Ave verum Corpus natum de Maria Virgine, vere passum, immolatum in cruce pro homine.

9. Come non tornare sempre nuovamente a questo mistero, che racchiude tutta la vita della Chiesa? Questo Sacramento ha nutrito per duemila anni innumerevoli credenti. Da esso è scaturito un fiume di grazia. Quanti santi hanno trovato in esso non solo il pegno, ma quasi l’anticipazione del Paradiso!

Lasciamoci trasportare dallo slancio contemplativo, ricco di poesia e di teologia, con cui san Tommaso d’Aquino ha cantato il mistero nelle parole del Pange lingua. L’eco di quelle parole mi giunge qui oggi, nel Cenacolo, come voce di tante comunità cristiane sparse nel mondo, di tanti sacerdoti, persone di vita consacrata, semplici fedeli, che ogni giorno si fermano in adorazione del mistero eucaristico:

Verbum caro, panem verum verbo carnem efficit, fitque sanguis Christi merum, et, si sensus deficit, ad firmandum cor sincerum sola fides sufficit.

Fate questo in memoria di me

10. Il mistero eucaristico, nel quale è annunciata e celebrata la morte e risurrezione di Cristo in attesa della sua venuta, è il cuore della vita ecclesiale. Per noi esso ha, poi, un significato tutto speciale: sta infatti al centro del nostro ministero. Quest’ultimo non si limita certo alla celebrazione eucaristica, implicando un servizio che va dall’annuncio della Parola, alla santificazione degli uomini attraverso i Sacramenti, alla guida del popolo di Dio nella comunione e nel servizio. Ma l’Eucaristia è il punto da cui tutto si irradia ed a cui tutto conduce. Il nostro sacerdozio è nato nel Cenacolo insieme con essa.

Fate questo in memoria di me (Lc 22, 19): le parole di Cristo, pur dirette a tutta la Chiesa, sono affidate come un compito specifico a coloro che continueranno il ministero dei primi Apostoli. E ad essi che Gesù consegna l’atto appena compiuto di trasformare il pane nel suo Corpo e il vino nel suo Sangue, l’atto in cui egli si esprime come Sacerdote e Vittima. Cristo vuole che d’ora in poi questo suo atto diventi sacramentalmente anche atto della Chiesa per le mani dei sacerdoti. Dicendo fate questo indica non soltanto l’atto, ma anche il soggetto chiamato ad agire, istituisce cioè il sacerdozio ministeriale, che diviene così uno fra gli elementi costitutivi della Chiesa stessa.

11. Tale atto dovrà essere compiuto «in sua memoria»: l’indicazione è importante. L’atto eucaristico celebrato dai sacerdoti renderà presente in ogni generazione cristiana, in ogni angolo della terra, l’opera compiuta da Cristo. Dovunque sarà celebrata l’Eucaristia, lì, in modo incruento, si renderà presente il sacrificio cruento del Calvario, lì sarà presente Cristo stesso, Redentore del mondo.

Fate questo in memoria di me. Riascoltando queste parole qui, tra le mura del Cenacolo, è spontaneo provarsi ad immaginare i sentimenti di Cristo. Erano le ore drammatiche che precedevano la Passione. L’evangelista Giovanni evoca gli accenti accorati del Maestro che prepara gli Apostoli alla propria dipartita. Quanta tristezza nei loro occhi: Perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore (Gv 16, 6). Ma Gesù li rasserena: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi (Gv 14, 18). Se il mistero della Pasqua lo sottrarrà al loro sguardo, egli sarà più che mai presente nella loro vita, e lo sarà tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28, 20).

Memoriale attualizzante

12. La sua presenza avrà tante espressioni. Ma certamente la più alta sarà proprio quella eucaristica: non semplice ricordo, ma «memoriale» attualizzante; non richiamo simbolico al passato, ma presenza viva del Signore in mezzo ai suoi. Ne sarà per sempre garante lo Spirito Santo, continuamente effuso nella celebrazione eucaristica, perché il pane e il vino diventino il Corpo e il Sangue di Cristo: è lo stesso Spirito che la sera di Pasqua, in questo Cenacolo, fu «alitato» sugli Apostoli (cfr. Gv 20, 22), e che li trovò ancora qui, riuniti con Maria, nel giorno di Pentecoste. Allora li investì come vento gagliardo e fuoco (cfr. At 2, 1-4), e li spinse ad andare in tutte le direzioni del mondo, per annunciare la Parola e raccogliere il popolo di Dio nella «frazione del pane» (cfr. At 2, 42).

13. A duemila anni dalla nascita di Cristo, in quest’Anno Giubilare, dobbiamo in modo particolare ricordare e meditare la verità di quella che potremmo chiamare la sua «nascita eucaristica». Il Cenacolo è appunto il luogo di questa «nascita». Qui è cominciata per il mondo una presenza nuova di Cristo, una presenza che si produce ininterrottamente, dovunque è celebrata l’Eucaristia e un sacerdote presta a Cristo la sua voce, ripetendo le parole sante dell’istituzione.

Questa presenza eucaristica ha percorso i due millenni della storia della Chiesa e la accompagnerà fino alla fine dei tempi. E per noi una gioia e al tempo stesso fonte di responsabilità, l’essere così strettamente vincolati a questo mistero. Ne vogliamo oggi prendere coscienza con il cuore colmo di stupore e gratitudine, e con tali sentimenti entrare nel Triduo pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo.

La consegna del Cenacolo

14. Miei cari Fratelli sacerdoti, che il Giovedì santo vi riunite nelle cattedrali intorno ai vostri Pastori, come i presbiteri della Chiesa che è in Roma si riuniscono intorno al Successore di Pietro, vogliate accogliere questi pensieri, meditati nell’atmosfera suggestiva del Cenacolo! Sarebbe difficile trovare un luogo che possa ricordare meglio il mistero eucaristico e insieme il mistero del nostro sacerdozio.

Restiamo fedeli alla «consegna» del Cenacolo, al grande dono del Giovedì santo. Celebriamo sempre con fervore la Santa Eucaristia. Sostiamo di frequente e prolungatamente in adorazione davanti a Cristo eucaristico. Mettiamoci in qualche modo «alla scuola» dell’Eucaristia. Tanti sacerdoti nel corso dei secoli hanno trovato in essa il conforto promesso da Gesù la sera dell’Ultima Cena, il segreto per vincere la loro solitudine, il sostegno per sopportare le loro sofferenze, l’alimento per riprendere il cammino dopo ogni scoramento, l’energia interiore per confermare la propria scelta di fedeltà. La testimonianza che sapremo dare al popolo di Dio nella celebrazione eucaristica dipende molto da questo nostro rapporto personale con l’Eucaristia.

15. Riscopriamo il nostro sacerdozio alla luce dell’Eucaristia! Facciamo riscoprire questo tesoro alle nostre comunità nella celebrazione quotidiana della Santa Messa e, in particolare, in quella più solenne dell’assemblea domenicale. Cresca, grazie al vostro lavoro apostolico, l’amore a Cristo presente nell’Eucaristia. E un impegno che assume una rilevanza speciale in quest’Anno Giubilare. Il pensiero va al Congresso Eucaristico Internazionale, che si terrà a Roma dal 18 al 25 giugno prossimo, e avrà come tema «Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, pane per la nuova vita». Esso rappresenterà un evento centrale del Grande Giubileo, che deve essere un «anno intensamente eucaristico» (Tertio millennio adveniente, 55). Il menzionato Congresso evidenzierà appunto l’intimo rapporto tra il mistero dell’incarnazione del Verbo e l’Eucaristia, sacramento della reale presenza di Cristo.

Vi invio dal Cenacolo l’abbraccio eucaristico. L’immagine di Cristo attorniato dai suoi nell’Ultima Cena dia a ciascuno di noi una vibrazione di fraternità e di comunione. Grandi pittori si sono cimentati nel delineare il volto di Cristo tra i suoi Apostoli nella scena dell’Ultima Cena: come dimenticare il capolavoro di Leonardo? Ma solo i santi, con l’intensità del loro amore, possono penetrare nella profondità di questo mistero, quasi poggiando come Giovanni il capo sul petto del Signore (cfr. Gv 13, 25). Qui siamo infatti al vertice dell’amore: dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.

16. Mi piace chiudere questa riflessione, che con affetto consegno al vostro cuore, con le parole di un’antica preghiera:

«Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli. Come questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra [...] Tu, Signore onnipotente, hai creato l’universo, a gloria del tuo nome; hai dato agli uomini il cibo e la bevanda a loro conforto, affinché ti rendano grazie; ma a noi hai donato un cibo e una bevanda spirituale e la vita eterna per mezzo del tuo Figlio [...] Gloria a Te nei secoli!» (Didachè 9, 3-4; 10, 3-4).

Dal Cenacolo, carissimi Fratelli nel sacerdozio, tutti spiritualmente vi abbraccio e di gran cuore benedico.

Da Gerusalemme, 23 marzo 2000.

Joannes Paulus II

Romana, n. 30, Gennaio-Giugno 2000, p. 25-31.

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