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In occasione della festa di San Josemaría, basilica di Sant’Eugenio, Roma (26-VI-2019)

Nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, san Luca ci dice che “la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio” (Lc 5, 2). Quel giorno c’erano molte persone attorno a Cristo; ed era difficile che tutti lo potessero udire distintamente. Si trovavano sulla riva di un lago e non c’era nelle vicinanze una collina in cui Gesù potesse sistemarsi meglio, come in altre occasioni. Allora decide di salire su una barca e scostarsi un po’ da terra. Il Signore conosceva perfettamente i cuori di quelle persone; anche se alcuni saranno stati lì per curiosità, altri per puro caso, altri ancora per un’autentica sete di Dio, Gesù sapeva che tutti avevano bisogno della sua parola per scoprire il senso della propria vita.

Contemplando Cristo che desidera farsi vedere dalla folla che lo cerca, possiamo chiederci: questa è solamente una scena del passato? Vedere Gesù circondato da tanta gente non è forse l’immagine di un mondo che oggigiorno non esiste più?

San Josemaría, di cui stiamo celebrando la festa, meditando questo stesso passo del Vangelo, concludeva che quanto era accaduto duemila anni fa continua a succedere sempre: tutti “desiderano ascoltare il messaggio di Dio, anche se all’esterno lo nascondono”; tutti “sentono il bisogno di saziare la loro inquietudine con l’insegnamento del Signore”[1], sebbene molto spesso non abbiano né le parole né le forze per esprimere questo desiderio. In questi ultimi anni, anche i Romani Pontefici si sono espressi così. Papa Francesco, per esempio, ci invita a far conoscere Gesù a quanti “cercano Dio segretamente, mossi dalla nostalgia del suo volto”[2]. Benedetto XVI, dopo aver paragonato il mondo contemporaneo a un deserto assetato di acqua viva, riconosce che adesso “sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita”[3].

Ci sono tante testimonianze di persone che, davanti alla scoperta della gioia entrata nella loro vita attraverso il cammino cristiano, esclamano: “Io non lo sapevo! Nessuno me lo ha mai detto! Pensavo che fosse tutt’altro!”. Pertanto, la scena che ci racconta san Luca non appartiene al mondo del passato. La gente vuole accalcarsi intorno a Gesù perché cerca incessantemente cose buone e belle che le colmino il cuore; tutti noi custodiamo, nel più profondo dell’anima, aspirazioni che solo Lui è in grado di appagare. Chiediamo a Dio che ci renda capaci di riconoscere quella nostalgia del suo volto, quei segni della sete di Cristo presenti negli altri. Chiediamo a Dio di saper trasmettere la sua vera immagine a coloro che ci stanno accanto; l’immagine di quel Cristo che vuole allontanarsi un po’ dalla riva affinché tutti, anche i più lontani, possano vederlo e ascoltarlo.

Alla fine di questo brano del Vangelo, Gesù invita Pietro, Giacomo e Giovanni a seguirlo come discepoli. È impressionante pensare che, solo pochi anni dopo, il loro zelo apostolico avrebbe portato la Buona Novella in molti luoghi importanti dell’epoca; addirittura a Roma. I primi cristiani, malgrado tutte le persecuzioni e le incomprensioni da affrontare, sapevano che il mondo apparteneva a loro. San Paolo, nella seconda lettura, enuncia con assoluta chiarezza la convinzione che li riempiva di fiducia: “Se siamo figli, siamo anche eredi” (Rm 8, 17).

Proprio così: questo mondo fa parte della nostra eredità. Nella prima lettura si dice che Dio collocò l’uomo nel mondo “perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2, 15). E nel salmo che abbiamo cantato — e che san Josemaría recitava ogni settimana — ci si dice che, attraverso Cristo, riceviamo in eredità tutte le genti e in proprietà tutta la terra (cfr. Sal 2, 8). La Sacra Scrittura lo dice chiaramente: questo mondo è nostro, è la nostra casa, è il nostro compito, è la nostra patria.

Perciò, sapendo che siamo figli di Dio, non possiamo sentirci estranei a casa nostra; non possiamo passare per la vita come turisti in un luogo altrui, né possiamo camminare per le nostre strade con la paura di chi sta percorrendo un territorio ignoto. Il mondo è nostro perché è di nostro Padre Dio. Come insegna san Tommaso d’Aquino, tutto è sottoposto al suo governo onnipotente e nulla sfugge alla sua misericordia, anche se molto spesso noi non ce ne rendiamo conto[4]. Siamo chiamati ad amare questo mondo, non un altro, in cui magari pensiamo che ci sentiremmo più a nostro agio; possiamo amare solo le persone in carne e ossa che ci stanno accanto, solo le sfide reali che ci tocca affrontare. Non si può intraprendere un’attività apostolica con la rassegnazione di chi avrebbe preferito farlo in un altro momento.

Quando san Josemaría invitava ad amare il mondo appassionatamente, spesso ci metteva in guardia da quella “mistica del magari” che vorrebbe poter scegliere le caratteristiche dell’ambito da evangelizzare, pensando: “Magari le cose fossero differenti!”. Chiediamo al Signore la capacità di entusiasmarci con la missione che Egli ci ha affidato, come un figlio che lavora con entusiasmo negli affari di casa sua.

Nella giornata di oggi, rivolgendo uno sguardo speciale a san Josemaría, possiamo prendere esempio dalla sua fede nel lanciarsi in imprese che sembravano impossibili, in un’epoca per diversi aspetti ben più complicata e difficile della nostra. Facciamoci contagiare dalla fiducia di nostro Padre, che ci porterà ad amare il mondo che abbiamo ricevuto in eredità e a cercare di saziare la nostalgia di Cristo in tante persone che ci incontrano. Per tutto ciò ci affidiamo in modo tutto particolare alla mediazione di Nostra Madre Maria, che ha a cuore, con amore e con pazienza materna, la felicità di tutti i suoi figli. Così sia.

[1] San Josemaría, Amici di Dio, nn. 260 e ss.

[2] Papa Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium, n. 14.

[3] Benedetto XVI, Omelia 11-X-2012.

[4] Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Th., I, q. 103, a. 5, risp.

Romana, n. 68, Gennaio-Giugno 2019, p. 90-92.

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