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Mondo e condizione umana in san Josemaría Escrivá. Criteri cristiani per una filosofia delle scienze sociali

Ana Marta González

Università di Navarra

Abstract: in questa esposizione si esplorano alcuni aspetti degli insegnamenti di san Josemaría che, a giudizio dell’autrice, illuminano da una prospettiva teologica alcuni temi trattati soprattutto dal pensiero sociale moderno: speranza, mondanità, liberazione, culto e cultura, lavoro, responsabilità del creato, civismo, libertà, temporalità, formazione... Sono alcuni aspetti della sua predicazione che permettono di articolare una concezione dell’esistenza cristiana nel mondo, oltre che una teoria vitale delle istituzioni e del cambiamento della società, capaci di entrare in dialogo con il pensiero contemporaneo. Per questo, tuttavia, appare indispensabile una riflessione preliminare sulla possibilità stessa di mettere in discussione l’ambito teologico e pastorale nel quale si muove san Josemaría e l’ambito accademico, filosofico e sociologico nel quale si muovono gli autori che ai nostri giorni hanno riflettuto sull’esistenza umana.

1. Introduzione

In che senso gli insegnamenti di san Josemaría Escrivá possono essere utili alla riflessione di un filosofo, sia esso cristiano o meno?

È possibile che per contestualizzare correttamente i termini e i luoghi dei quali si serve san Josemaría per diffondere in tutti gli ambienti il messaggio della vocazione universale alla santità dovrebbe esserci familiare la tradizione del pensiero cristiano nel quale egli stesso si è formato. In ogni modo, il fatto che persone molto diverse, con una ben diversa formazione, non trovino particolari difficoltà a sentirsi coinvolte dal suo messaggio suggerisce che il tipo di familiarità che si richiede non si ottiene necessariamente con una grande erudizione.

È comunque evidente che la sua predicazione si apre a temi nuovi, particolarmente moderni, trattati soprattutto dalla filosofia dei due ultimi secoli: mondo, lavoro, tempo, storia, vocazione, cultura, libertà, civismo, unità di vita... Questioni tutte che caratterizzano i contorni di quella che, ricordando Heidegger[1] e Hannah Arendt[2], potremmo chiamare una «teoria della immanenza», e che, nella predicazione e nella vita di san Josemaría, appaiono articolate con una semplicità e profondità inconsuete, in un modo che invita a mettere il suo messaggio in relazione con la riflessione filosofica e sociologica su tali questioni; un invito che risulta particolarmente opportuno ai giorni nostri quando, anche da un punto di vista filosofico e sociologico, la religione torna a porsi in primo piano[3].

Non mi nascondo che, a prima vista, le restrizioni metodologiche con le quali si presenta la filosofia sociale contemporanea — principalmente nel non inserire presupposti antropologici forti (sempre sospettati di esprimere posizioni particolari), né, chiaramente, una filosofia della storia che si sottragga a ogni possibilità di falsificazione — potrebbero operare da fattore dissuasorio al momento di riconoscere nella vita e nell’opera di un sacerdote cattolico qualcosa di rilevante per il discorso filosofico.

Ciò nonostante, nella misura in cui le convinzioni religiose, senza perdere la loro specificità[4], incorporano contenuti cognitivi, questa limitazione della filosofia sociale contemporanea costituisce un ostacolo superabile, soprattutto quando lo stesso discorso filosofico-sociale attuale evolve nel senso di diagnosticare le patologie sociali rifacendosi soprattutto alle esperienze di oppressione e di ingiustizia, magari debolmente articolate, ma non per questo meno reali, di persone normali, estranee alle esigenze di coerenza ed erudizione di discorsi teorici che spesso si presentano vincolati a posizioni elitarie[5]. Proprio questa evoluzione, che si propone di restituire legittimità etica a discorsi spesso molto astratti, potrebbe indurre a riconoscere, anche, la rilevanza di un messaggio che è accolto da persone di estrazione sociale e culturale assai diversa, e che per tutte loro diventa un modo, estremamente positivo, di affrontare ingiustizie di tipo molto differente. Che si tratti di un messaggio fondamentalmente religioso non dovrebbe costituire un problema, dal momento che questo messaggio si presta a una esposizione articolata e comprensibile dei suoi contenuti, tanto da non comportare confusione alcuna tra ciò che si sa e ciò che si crede.

Orbene, è legittimo avvicinarsi ai testi e alla vita di Josemaría Escrivá cercando di identificare i temi filosofici in essi impliciti, trascurando le questioni teologiche che propongono? E non solo: sarebbe ciò possibile? Che interesse potrebbe avere? In quel che segue non affronterò direttamente le due prime questioni. Ritengo che il modo migliore di mostrare la portata e i limiti di un simile impegno è metterlo in opera. Non c’è dubbio che, come notavo in precedenza, sviscerare i temi filosofici impliciti in un autore che in nessun modo voleva scrivere una filosofia richiede una certa familiarità con le fonti e la prospettiva in base alle quali scrive, che in questo caso sono fonti teologiche. Ebbene, che senso potrebbe avere dissertare di teologia allo scopo di rendere esplicite le dimensioni filosofiche di un pensiero? Non è questa una incongruenza? Non significa capovolgere completamente il dictum medievale per fare della teologia una ancilla philosophiae? Peggio ancora, non significa degradare un messaggio spirituale, di forma e contenuto fortemente esistenziale, al livello di una delle tante teorie, esponendolo a seguire il destino di una qualunque altra teoria?

Secondo me, no. Se, dunque, come io penso, la predicazione e la vita di san Josemaría Escrivá configurano un modo tipico di stare nel mondo, che rende giustizia armonicamente alle diverse dimensioni umane, approfondire questo messaggio, esplicitare le categorie e l’articolazione tematica in esso contenute e metterle in relazione con quelle che ha coniato il pensiero filosofico e sociologico contemporaneo, può risultare interessante per queste ultime scienze e, più in generale, per tutti coloro che, allo scopo di raggiungere una prospettiva sapienziale per il proprio compito, aspirano a comprendere la struttura e il dinamismo dell’esistenza umana nel mondo. Del resto, non è logico sperare che una predicazione diretta a mettere in evidenza il valore santificatore delle realtà secolari abbia qualcosa da dire alle scienze umane che si occupano di queste realtà secolari?

2. Una tensione costitutiva

Per il momento, nel nucleo del messaggio di san Josemaría sulla santificazione delle realtà ordinarie troviamo l’esortazione a «essere del mondo senza essere mondani»[6]. Ebbene, in questa espressione si annuncia una tensione della quale, in un modo o nell’altro, anche ogni filosofo che rifletta sulla condizione umana deve rendere conto se non vuole semplificare indebitamente il contenuto dell’esperienza. Nel corso della storia i filosofi hanno espresso, coscientemente o incoscientemente, la tensione costitutiva di ciò che è umano in maniere molto diverse: come un compromesso tra contemplazione e azione (Aristotele), come conflitto tra moralità e felicità (Kant), come attuale divario tra l’interesse a lungo termine e l’interesse a breve termine (Hume[7]), esistenza propria o impropria (Heidegger) ecc.; queste o altre tensioni non fanno altro che esprimere un carattere derivato della nostra finitezza, che a me piacerebbe chiamare, metaforicamente, la nostra «ferita costitutiva», che non ha nulla a che vedere con la colpa originale, ma che è in relazione con l’apertura all’infinito, possibile con la nostra razionalità. Grazie a ciò l’essere umano è «orizzonte e confine» — secondo un’espressione di Tommaso d’Aquino[8] —, un essere di frontiera, come dice Simmel[9], non riducibile a una funzione unica (Jaspers), capace, tuttavia, di trascendenza.

È proprio in questa «tensione costitutiva» che definisce la nostra condizione di creature razionali, che prende corpo la speranza[10]; una speranza che, ancora una volta, può apparire in forme diverse, a seconda di quanto s’immagina profonda questa ferita. Così la speranza alimentata dal pensiero utopistico è indubbiamente molto distante da quella alimentata dalla fede cristiana, almeno altrettanto da quanto lo è la sua concezione dell’uomo[11]. Per san Josemaría, l’identità umana rimane definita dalla nostra condizione di figli di Dio[12], mentre la speranza che nasce dalla consapevolezza di tale filiazione[13] è — fintanto che l’uomo sperimenta la realtà del peccato non come attuale trasgressione della legge ma come pratico oblio di Dio[14] — una speranza di redenzione attualizzata, che abbraccia anche il mondo[15]. Infatti, come dice san Giovanni, «noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1 Gv 3, 2), e frattanto — come direbbe san Paolo — il mondo continua a essere sottomesso alla caducità (cfr. Rm 8, 20).

Su questo punto è importante mettere in evidenza il plurale: il mondo aspetta la manifestazione dei figli di Dio (Rm 8, 19)[16], al plurale. Infatti la caducità alla quale è sottomesso non è il prodotto dell’azione di un solo uomo, ma di molti[17]. Allora, in che cosa consiste tale caducità? Alla fin fine, nel fatto che gli esseri umani vivono ripiegati in sé stessi, cosa che, collettivamente, si modella in strutture auto-referenziali, opache alla trascendenza[18]. Come appaiono pertinenti, in questo senso, le parole di Papa Francesco, quando mette sull’avviso circa la necessità di superare ogni routine e pensare ad altri modelli di crescita[19]. La redenzione del mondo, dunque, passa attraverso la trasformazione di queste strutture auto-referenziali, stimolando un modo di vita, individuale e collettivo, animato, alla radice, da un principio differente:

«Dobbiamo lavorare molto sulla terra; e dobbiamo lavorare bene, perché è proprio il lavoro quotidiano che va santificato. Pertanto, non dimentichiamo mai di compierlo per Iddio. Se lo realizzassimo per noi stessi, per orgoglio, produrremmo soltanto fogliame: né Dio né gli uomini potrebbero raccogliere da un albero tanto frondoso un po’ di dolcezza»[20].

È vero, già per sant’Agostino l’amore di sé fino al disprezzo di Dio era il principio fondante di una città terrena alla quale era necessario contrapporre un’altra città diversa, fondata sull’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Ebbene, nel proporre il suo messaggio san Josemaría non insiste tanto sul disprezzo di sé, né del mondo, quanto sulla possibilità di coltivare un diverso apprezzamento di sé stesso e del mondo, un apprezzamento che rimanda allo sguardo di approvazione con il quale Dio contemplò la sua creazione[21], e che appare nuovamente possibile per l’uomo dopo la redenzione operata da Cristo. Ciò che san Josemaría offre è una visione positiva del mondo e delle realtà umane[22], che in fin dei conti deriva dalla consapevolezza della filiazione divina. Questa costituisce, per san Josemaría, la chiave di lettura con la quale affrontare la tensione costitutiva dell’esistenza umana.

Infatti, tutte le realtà umane, dalle più spirituali fino alle più materiali, rimangono libere dalla vanità lì dove, liberato da ogni routine[23], l’uomo vive incline a Dio, come figlio suo, e non per il mondo, come suo schiavo; allora l’uomo trascina con sé tutte queste realtà — il suo mondo — verso un destino più alto: le libera, con la libertà dei figli di Dio.

«Si comprende bene, figli miei, perché l’Apostolo poteva scrivere: “Tutte le cose sono vostre, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3, 22-23). Si tratta di un moto ascensionale che lo Spirito Santo, diffuso nei nostri cuori, vuole provocare nel mondo: dalla terra, fino alla gloria del Signore. E perché non ci fosse dubbio che in questo moto era incluso pure ciò che sembra più prosaico, san Paolo scrive anche: “Sia che mangiate, sia che beviate, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor, 10, 31)»[24].

Questo movimento ascendente, che attraverso l’uomo ricapitola tutte le cose in Cristo, è raccolto in forma condensata e categorica in un testo che appare in vari punti degli scritti di san Josemaría: «Sulla terra sono possibili solo due modi di vivere: o si vive vita soprannaturale o vita animale»[25].

Si tratta di una espressione radicale, che, a prima vista, sembra ignorare la possibilità teorica di una vita umana intermedia tra quella animale e quella soprannaturale. Tuttavia, ciò sta a significare che san Josemaría si rivolge all’uomo realmente esistente, che non è mai soltanto un uomo naturale, collocato in ciò che ha già conseguito, ma in tensione costitutiva verso qualcosa di più. E il messaggio che gli indirizza è proprio che la consistenza di ciò che è umano e la bellezza del mondo si preservano unicamente quando l’uomo vive al di sopra di sé stesso, assecondando il dono di Dio.

Formulata in questi termini, l’idea non è neppure del tutto estranea alla tradizione filosofica. Già Aristotele esortava a «non avere pensieri umani dato che siamo uomini, né mortali dato che siamo mortali, ma, nella misura in cui ci è dato, immortalizziamoci e viviamo secondo quel che di più divino è in noi» (EN, X, 7). E lo stesso Kant, dopo aver tracciato alcuni limiti alla possibilità della conoscenza metafisica, non può evitare di riferirsi agli ideali della ragione, almeno come ideali che regolano la nostra esperienza, senza i quali essa, inclusa la scienza, sarebbe priva di senso[26]. Se le cose stanno così, voler vivere esclusivamente in base a criteri umani, estratti dalla nostra povera esperienza quotidiana, non solo risulta umano, ma «troppo umano» (non nel senso di Nietzsche, ma in quello di Aristotele)[27].

Infatti, fa parte dell’esperienza umana, come osserva Pascal, una forma di autotrascendenza, e questo significa che esiste una autolimitazione contraria al dinamismo caratteristico della vita umana, perché questa concepisce sé stessa come espressione e possibilità di qualcosa di più grande di ciò che ci è dato realizzare qui e ora. Aristotele concepiva questo «di più» come una vita contemplativa che, nella sua espressione perfetta, rimaneva comunque fuori dalla portata umana, perché era privilegio degli dei. In ogni caso, per lui, questo modo contemplativo e divino di vivere sembrava separare l’uomo dalle vicissitudini umane. La filosofia moderna non ha continuato in genere in questa direzione; al suo posto ha accettato, al massimo, forme di trascendenza infra-mondane, come quelle accessibili nell’arte o, in modo diverso, nella morale.

Per contrasto, in un messaggio radicalmente religioso, come quello di san Josemaría, il mondo trascina il destino dell’uomo, degli uomini, e l’esortazione a condurre una vita contemplativa e, in tal senso, vivere «al di sopra dell’umano», includendo queste forme infra-mondane di trascendenza, raggiunge una radicalità inusitata: non come una forma qualsiasi di «auto-trascendenza» naturale, e neppure secondo un ideale qualsiasi, semplicemente umano, di «contemplazione», ma come un invito a ricevere il dono di Dio. Così, «essere cristiani è agire senza pensare ai traguardi meschini del prestigio o dell’ambizione o ad altre finalità che possono sembrare più nobili, come la filantropia e la compassione davanti alle disgrazie altrui: è passare attraverso tutto questo, guardando al termine ultimo e radicale dell’amore che Cristo ha rivelato morendo per noi»[28].

In ciò è implicita, anche, una maniera peculiare, strettamente cristiana, di concepire la dimensione temporale dell’esistenza. San Josemaría rimanda spesso al testo di san Paolo: «Caritas Christi urget nos» (2 Cor 5, 14) per illuminare il significato profondo che ha, per il cristiano, il «profitto del tempo»: «L’intero spazio di un’esistenza è poco per dilatare le frontiere della tua carità»[29].

Questa concezione della temporalità, permeata dall’urgenza della carità, è piena di conseguenze strutturanti dell’esistenza e del vivere quotidiano, che in san Josemaría acquistano concretezze molto specifiche[30]. In ogni caso, è vivendo con questa radicalità, concependo la propria vita ordinaria anzitutto come una corrispondenza all’amore di Dio manifestato in Cristo e, dunque, cercando un attivo distacco da sé stesso, che l’uomo, la donna cristiana, qualunque sia la loro condizione, contribuiscono a liberare l’intera creazione dalla vanità alla quale è stata assoggettata dal peccato; «essere contemplativi» e «santificare le realtà terrene» sono attività proprie dei figli di Dio, tra loro inseparabili, e che sono alla portata di tutti gli uomini, senza eccezione, purché non confidino semplicemente nelle possibilità della natura umana, ma nel dono soprannaturale di Dio[31].

Infatti, l’esortazione a vivere la vita soprannaturale non equivale a raccomandare una contemplazione filosofica alla portata di pochi privilegiati, né del resto è l’espressione di una virtù eroica prodotta dal semplice impegno umano; ma in ogni caso mira semplicemente a vivere nel mondo come figli di Dio in Cristo, con la convinzione piena di speranza che, vivendo così, accettando umilmente il dono di Dio e corrispondendo a esso con tutte le forze, si porta a termine la redenzione, la liberazione del mondo.

3. L’unità radicale di culto e cultura

È il caso di avvertire che in ciò che abbiamo detto è implicita una maniera specificamente cristiana di intendere la cultura o, meglio, la connessione originale — oggi spesso dimenticata — tra culto

e cultura. È vero che l’uso esplicito che san Josemaría fa del termine cultura

è più vicino all’accezione classica e moderna — cultura come coltivazione, come civilizzazione[32] — che a quella più contemporanea — cultura come espressione della soggettività, come modo di vivere di un popolo, che si esprime in norme e simboli condivisi[33] —. In ogni caso, nel suo messaggio i due sensi si trovano profondamente fusi, come richiesto dall’accezione originale. Infatti, nel nucleo di ogni cultura c’è una coltivazione. Tuttavia, mentre nelle religioni non cristiane il culto ruotava attorno ai riti sacrificali, mediante i quali gli uomini dimostravano la loro dipendenza dalla divinità, nel cristianesimo è Dio stesso che si offre in sacrificio per gli uomini, per redimerli dal male e renderli partecipi della medesima vita di Dio. E proprio questo sacrificio è chiamato a costituirsi in centro e radice di una nuova cultura, nella quale non c’è più posto per altre vittime, e per conseguenza si può creare, fra le altre cose, uno spazio propriamente politico, non bloccato da discorsi vittimisti[34].

Più radicalmente, questo atto di sacrificio, rivelatore allo stesso tempo dell’amore di Dio per l’uomo e del valore dell’uomo agli occhi di Dio, fa dei cristiani un unico popolo, con una missione specifica nel mondo, perché costituisce la fonte di quell’altro culto «in spirito e verità» (Gv 4, 23), che ha per protagonisti tutti i cristiani, i quali, commossi dal sacrificio di Dio in Cristo, aspirano a proiettare lo stesso spirito di Cristo in tutte le attività umane, secondo la verità che è loro propria. Con ciò si collega direttamente all’esortazione di san Josemaría a santificare tutte le realtà terrene, coltivandole secondo la propria logica e in conformità e a prolungamento del culto eucaristico[35]. Una esortazione nella quale è implicita l’importanza primordiale dello sforzo per acquisire le virtù richieste dal nostro posto nel mondo, oltre al rigore e alla competenza professionale.

Il messaggio della santificazione delle realtà terrene invita ad approfondire il fatto che il legame tra culto e cultura, indicato già nelle parole della Genesi dove si dice che l’uomo fu creato ut operaretur, per lavorare[36], trova una effettiva realizzazione nella vita ordinaria, quando la pratica morale e l’intera vita sociale sono stimolate dall’esperienza del mistero eucaristico; naturalmente questo legame avviene anche lì dove il rigore del lavoro intellettuale proprio di ogni scienza rimane aperto a un orizzonte sapienziale, che trova il suo significato ultimo nella ricerca di Dio. Tuttavia considero significativo che, pur riconoscendo il ruolo singolare agli intellettuali nella edificazione della cultura, al momento di mettere a fuoco la questione specifica della santificazione di queste attività, san Josemaría si riferisse a esse indistintamente anche come «lavoro», facendo notare che l’unità tra fede e scienza, che il cristiano riconosce come possibile per una questione di principio, spesso non si raggiunge facilmente se non con un «duro lavoro»[37].

Questa — quella del lavoro — è la categoria fondamentale della quale si serve san Josemaría per indirizzare il culto che il cristiano è chiamato a tributare a Dio in mezzo al mondo, proprio nello stesso tempo in cui crea cultura. In effetti, in questo culto razionale gradito a Dio è implicita la ricerca della verità, teorica e pratica, come esigenza intrinseca del lavoro ben fatto: «Veritatem facientes in caritate» (Ef 4, 15). E così il culto che il cristiano tributa a Dio è alla base della sua unità di vita[38], e alla fin fine anche dell’unità stessa della cultura[39].

4. Lo straordinario nell’ordinario

Così, dunque, prendere coscienza che la nostra identità più profonda è la nostra identità di figli di Dio si costituisce, secondo san Josemaría, in sorgente di una speranza che non annulla il processo ordinario — naturale e storico, culturale e sociale — per il quale qualunque persona, nel luogo particolare che gli ha tenuto in serbo la vita, riesce a definire le proprie aspirazioni e acquistare una personalità determinata, con le sue particolarità e lealtà caratteristiche. Però, allo stesso tempo, la consapevolezza della propria filiazione divina ha la virtualità di orientare questi processi in una direzione più alta, che permette di sentire profondamente la solidarietà con tutti gli uomini, la responsabilità per tutta la creazione: «È la fede in Cristo morto e risorto, presente in tutti i momenti della vita, che illumina le nostre coscienze stimolandoci a partecipare con tutte le forze alle vicissitudini e ai problemi della storia umana. In questa storia, che iniziò con la creazione del mondo e terminerà alla fine dei secoli, il cristiano non è un apolide. È un cittadino della città degli uomini, che ha l’anima piena del desiderio di Dio e che già in questa tappa del tempo comincia a intravvedere il suo amore, riconoscendo in esso il fine a cui sono chiamati tutti coloro che vivono sulla terra»[40].

Che tali considerazioni siano possibili soltanto attraverso la fede non le fa diventare totalmente estranee o irrilevanti per la riflessione filosofica. Infatti alla filosofia basta la possibilità di una esistenza basata su queste convinzioni per affermare che un altro mondo è possibile e realizzabile, un mondo che, con la forza dello spirito, è disposto a combattere senza riposo la banalità di una esistenza mediocre, redimendo il tempo e sfidando la «reificazione» delle strutture nemiche della persona e della sua libertà[41], dall’interno stesso di queste strutture.

Infatti, “partecipare con tutte le forze alle vicissitudini e ai problemi della storia umana”, come fa notare san Josemaría, significa andare oltre una diagnosi esatta dei problemi che pone il nostro mondo; significa sentirsi coinvolto personalmente da tali problemi e avvertire, con una profondità nuova, l’enorme potenziale trasformatore delle strutture che racchiude il lavoro umano, quando viene incoraggiato da uno spirito autenticamente cristiano, da uno spirito di servizio che — e su questo insiste Papa Francesco — si diffonde a beneficio del prossimo, specialmente di coloro che più hanno bisogno[42]. La chiave di questa sfida si trova nel punto 301 di Cammino, spesso citato: «Un segreto. — Un segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi. — Dio vuole un pugno di uomini “suoi” in ogni attività umana. — Poi... “pax Christi in regno Christi” — la pace di Cristo nel regno di Cristo»[43].

Questo punto esprime la fiducia di san Josemaría nella forza storicamente trasformatrice della libertà, quando si apre all’azione di Dio nella propria vita; rispecchia anche, come osserva Pedro Rodríguez, una concezione della santità e della vita interiore «in stretta e intima relazione con la “attività umana”, con i problemi della società umana». Questo ci invita a riflettere espressamente su ciò che una volta san Josemaría chiamò «materialismo cristiano», e che, secondo le sue stesse parole, «si oppone audacemente ai materialismi chiusi allo spirito»[44], ma anche agli spiritualismi disincarnati. Infatti, il «materialismo cristiano» è, per san Josemaría, diretta conseguenza della fede nell’Incarnazione del Verbo, poiché in questo mistero è contenuto il messaggio che il mondo e la storia non sono impermeabili alla manifestazione di Dio, né opachi alla sua presenza. Viceversa, si può parlare, come noi abbiamo fatto, di una solidarietà di destinazione tra il mondo e l’uomo, che non mette in pericolo il riferimento dell’uomo a Dio. Infatti la commensurabilità tra il soggetto e il mondo non è perfetta; il mondo non è soltanto il correlato della coscienza umana, ma è anche lo spazio per la manifestazione e la rivelazione di Dio, oltre che lo spazio degli atti umani che hanno come fine ultimo Dio e non il mondo.

Con ciò è concorde un altro aspetto cruciale del messaggio di san Josemaría: l’apprezzamento del “rischio” come il luogo privilegiato per la manifestazione di Dio, proprio perché è lì, in quella situazione di rischio, che l’uomo esercita e materializza la propria libertà. Le due cose sono contenute nell’invito di san Josemaría a trovare il quid divinum[45] che è contenuto nei dettagli, e che tocca a ciascuno scoprire. Non si tratta solo di una raccomandazione devozionale, ma di un invito ad avvertire il kairos, l’opportunità e il valore del momento presente, nel quale la presenza di Dio si materializza per noi e in qualche modo si rende visibile: fare bene le cose che abbiamo fra le mani non è soltanto una esigenza etica, dovuta alla nostra posizione nella società umana, ma l’opportunità concreta che ci viene offerta di corrispondere al dono di Dio e di materializzare la sua presenza nel mondo degli uomini, mettendo in evidenza che non per il fatto di essere ordinaria non è trasformatrice.

Riconoscere la prospettiva trascendente che si apre all’esercizio della nostra libertà, nel disimpegno dei compiti più diversi, fa parte del perfezionamento dell’esistenza umana. Tuttavia, da questo non deriva una deformazione della logica propria di questi compiti, ma una più chiara consapevolezza della sua intima esigenza di salvezza. Orbene, proprio perché le questioni umane vanno soggette a molti rischi, il loro perfezionamento e miglioramento non può fluire attraverso canali rigidi e prefissati, ma deve affidarsi al responsabile discernimento delle persone. Proprio per questo, la fiducia nella loro responsabilità delle persone, che le induce a cercare caso per caso le risposte che si ritengono migliori in coscienza, costituisce un aspetto inseparabile della valutazione delle realtà secolari, che san Josemaría teneva particolarmente presente nel suo lavoro sacerdotale: «Ho concepito il mio lavoro di sacerdote e di pastore di anime come un compito vòlto a porre ciascuno di fronte a tutte le esigenze della sua vita, aiutandolo a scoprire ciò che in concreto Dio gli chiede, senza porre alcun limite a quella santa indipendenza e a quella benedetta responsabilità personale che sono le caratteristiche proprie della coscienza cristiana. Questo spirito e questo modo di agire si basano sul rispetto per la trascendenza della verità rivelata e sull’amore per la libertà della creatura umana. Potrei aggiungere che si basano anche sulla certezza della indeterminazione della storia, aperta a molteplici possibilità che Dio non ha voluto precludere»[46].

5. Una “teoria vitale” delle istituzioni e del cambiamento sociale

La stessa certezza dell’indeterminazione della storia spiega un altro aspetto che considero implicito nel suo modo di affrontare le realtà secolari e che, in mancanza di un’espressione migliore, descriverei come una “teoria vitale” delle istituzioni e del cambiamento sociale.

Indubbiamente, il fatto stesso che riponga nella santità la risposta alle crisi mondiali, ci parla anzitutto della priorità della vita dello spirito[47]. Però, come abbiamo indicato, questo non deve intendersi in senso spiritualista: la vita spirituale, così come egli la concepisce, porta a immergersi nelle realtà secolari allo scopo di redimerle, cosa che ha come conseguenza che bisogna impegnarsi nel promuovere un mondo più umano. Non c’è dubbio che questo comporta un momento negativo, di identificazione delle situazioni disumane. Ebbene, con carattere generale, san Josemaría invita ad affrontare queste situazioni in prima persona, stimolando la responsabilità personale, facendo in modo di «affogare il male nell’abbondanza di bene», occultando i difetti e moltiplicando le iniziative che facciano crescere o ri-orientino le energie implicite nella situazione che occorre migliorare.

Ritiene che risieda nella “formazione” la chiave di ogni sviluppo: una formazione che aiuti a trarre un profitto dai talenti ricevuti, che aiuti i destinatari a diventare i protagonisti del progresso personale e dell’ambiente. La chiave, allora, si chiama lavoro: i criteri con i quali stimolò innumerevoli iniziative assistenziali ed educative in tutto il mondo rivelano un modo professionale di affrontare l’articolazione pratica dei principi di sussidiarietà e solidarietà, oltre a un’acuta percezione del modo in cui si rapportano lavoro e senso della propria dignità.

Tuttavia, l’aver dato la priorità alla formazione e, in tal senso, alla cultura, non significa che ignori gli aspetti strutturali. San Josemaría sa bene che, sul piano sociale, lo sviluppo differenziato di ciò che è umano dipende in gran parte dalla differenziazione e dalla qualità delle istituzioni e dall’organizzazione del lavoro. A ogni modo, è ben lontano dal propugnare una concezione statica dell’ordine sociale; viceversa, si rende conto in molti modi che la vita precede la norma, che la norma è al servizio dello spirito e che, sul piano dell’azione, è sicuramente necessario essere previdenti, ma senza affidarsi esclusivamente all’organizzazione.

Per illustrare l’importanza che concede alle istituzioni come modelli regolatori della vita sociale possiamo rimandare a Colloqui. Rispondendo a una domanda sulla politicizzazione della università, il fondatore dell’Opus Dei fa notare che lì dove mancano i canali istituzionali per esercitare la libertà politica, la legittima aspirazione umana si canalizza per altre vie e si corre il rischio di snaturare l’università[48]. Da questa risposta penso si evidenzia la necessità di contare su un ambito specificamente politico, un ambito in cui i cittadini possano pronunciarsi e partecipare alla proposta di soluzioni dei problemi che si riferiscono alla vita in comune. Qualcosa di simile si potrebbe dire dell’economia: nello stesso tempo in cui riconosce la legittima autonomia dell’attività economica[49], san Josemaría ricorda il suo carattere strumentale[50], ribadendo, per esempio, che «non è che le opere non vengono compiute per mancanza di mezzi, ma per mancanza di spirito»[51].

A ogni modo, riconoscere il ruolo delle istituzioni nella configurazione dell’ordine sociale è cosa diversa dal proporre una iper-istituzionalizzazione[52], che soffocherebbe la spontaneità della vita e le iniziative della libertà. Dopotutto le istituzioni nascono come una esigenza della natura sociale dell’uomo, per dar forma alle inclinazioni che sentiamo verso determinati beni, e anche per dar forma allo stesso impulso socializzatore. Però questo significa che la vita va avanti aprendo strade, come direbbe Simmel, cercando una sua forma[53], facendo in modo di dare a sé stessa un ambito per lo sviluppo di vincoli sociali sicuri[54].

Proprio su quest’ultimo aspetto — la formazione di vincoli sicuri: la nascita della fiducia e la generazione di un clima di libertà — la vita e la predicazione di san Josemaría mettono a disposizione un prezioso materiale che varrebbe la pena esplorare più a fondo, perché nella sua predicazione e nella sua vita si mette in particolare evidenza che le norme e i modelli istituzionali hanno senso nella misura in cui servano all’espressione e allo sviluppo differenziato dello spirito[55].

In ogni caso, la necessità che tutti noi abbiamo di organizzare socialmente la nostra vita spiega come mai le crisi istituzionali si traducano in un certo disordine dei beni che esse proteggono, oltre a una perdita di consistenza delle relazioni umane corrispondenti, che rende difficile un orientamento etico e anche un qualsiasi progetto ragionevole[56]. Questa situazione dà luogo facilmente a reazioni conservatrici, con le quali si corre il rischio di confondere l’ordine morale e le convenzioni sociali che per lungo tempo sono servite a preservarlo. In tali casi è bene ricordare che le crisi possono anche essere segno di una sclerosi culturale, del fatto che l’istituzione si è cristallizzata in una forma culturalmente precedente che non rende giustizia al dinamismo e alle esigenze, sempre nuove, della vita. A questo punto non si può trascurare che si corre anche il pericolo di segno opposto, perché avvertire la necessità di un cambiamento può condurre a un desiderio di adattare le forme sociali ai tempi, che trascini senza discernimento beni umani importanti.

Per questo la teoria delle istituzioni dev’essere completata e articolata con una teoria del cambiamento sociale e culturale, che tenga conto anche dell’ambigua qualità caratteristica dei periodi liminali[57], di transizione culturale, e che rimanga vigile per identificare in ogni caso i beni che sono in gioco e il modo migliore per salvaguardarli. In questo senso è possibile argomentare che l’essenza umana, in quanto tale, ha un carattere «liminale»[58], del quale i riti di passaggio e le epoche di transizione culturale costituiscono un riflesso. Non solo, ma si potrebbe argomentare che, proprio perché si rivolge alla nuda umanità, senza fare favoritismi[59], il messaggio cristiano è particolarmente rilevante in quei momenti nei quali le certezze convenzionali sembrano andare in fumo e gli individui si dibattono nell’incertezza. Il Vangelo si rivolge a tutti, senza discriminazioni[60], e a tutti chiede anche la conversione, una conversione che fra le altre cose richiede proprio che ci si spogli liberamente delle false sicurezze, alle quali di solito è associata la vita in questo mondo, dato che, come san Paolo scrive ai Corinzi, «il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (1 Cor 7, 29-31).

Penso che queste parole descrivano un modo specifico di stare nel mondo che coincide esattamente con l’esigenza radicale della quale è portavoce san Josemaría quando esorta a «vivere nel mondo senza essere mondani», vale a dire, senza permettere che le vicende del mondo, per quanto tristi o gioiose possano essere, determinino l’orientamento fondamentale dell’esistenza[61]. È vero che sul modo concreto di comportarsi nei periodi di transizione, san Josemaría non ci ha lasciato riflessioni teoriche; però ci ha lasciato qualcosa di più eloquente: il suo modo di comportarsi durante la guerra[62]; vivendo in una situazione di contingenza come se non fosse contingente: assoggettandosi a un programma auto-imposto, utilizzando il tempo, preparandosi mediante lo studio a un futuro umanamente incerto, attento a scorgere in ogni momento la volontà di Dio[63]. È una cosa che è conseguente alla sua rivalutazione della contingenza; in realtà, nulla è provvisorio: nel momento presente ci giochiamo tutto ciò che è veramente importante.

Da qui emerge una maniera singolare di affrontare la dimensione temporale dell’esistenza, con una urgenza che nasce dalla carità e che in pratica si traduce nella virtù della diligenza[64], ugualmente scevra da ogni posizione utopistica come dal presentismo inconsistente. «Trarre profitto dal tempo»: in ciò è implicita una maniera costruttiva di mettere a fuoco la questione del cambiamento sociale, proprio attraverso il lavoro, con il quale l’uomo edifica sé stesso, mentre edifica il mondo.

Il concetto che san Josemaría ha del lavoro — del lavoro santificato —, come fonte di progresso e di coesione sociale, fa sì che la sua concezione della società e delle istituzioni non sia semplicemente statica, ma profondamente dinamica: un dinamismo che appare vincolato all’azione dell’uomo sul mondo, nel corso della quale l’uomo non solo scopre nuove strade, che prima rimanevano inedite, ma, soprattutto, forgia sé stesso. Per questo, nell’introdurre questa riflessione, ho voluto sottolineare che quella di san Josemaría sarebbe, in ogni caso, una teoria vitale delle istituzioni. Con ciò non posso fare a meno di insistere sul fatto che le istituzioni trovano il loro punto di partenza nella vita e debbono essere misurate in riferimento alle esigenze della vita — alla fin fine, la vita dello spirito —, e non semplicemente in riferimento a una qualsiasi convenzione, consuetudine o tradizione. In sostanza, la vita spirituale dell’uomo nel mondo si esprime nel lavoro.

È vero che non c’è nulla di nuovo nel considerare il lavoro come sorgente di progresso e di cambiamento sociale. In gran misura, la filosofia e la moderna teoria sociale partono dal constatare la connessione tra divisione del lavoro e progresso sociale. La peculiarità di san Josemaría, tuttavia, sta nel recuperare la visione teologica, di radice biblica, che non riduce il lavoro umano alla sua dimensione attiva, trasformatrice del mondo, né lo subordina al cambiamento delle condizioni materiali[65]; egli vede il lavoro radicato nella contemplazione: «Nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore»[66]. L’amore — a Dio e al prossimo — è la sorgente dalla quale sgorga la forza che nobilita il lavoro, e a esso, dunque, deve rimandare una teoria del cambiamento sociale capace di aprirsi all’azione dello Spirito nella storia, in modi spesso sorprendenti.

San Josemaría non è un rivoluzionario sociale. Il suo messaggio si può mettere in relazione con i classici della teoria sociale che, in maniere diverse, hanno riconosciuto la professione come enclave etica privilegiata delle società moderne[67]. Tuttavia, sarebbe ingenuo pensare che un messaggio spirituale come il suo mancasse di ripercussioni pratiche e nella configurazione degli stili di vita.

Sebbene nel riporre la dignità del lavoro nell’amore con cui si compie san Josemaría non si pronunci sul diverso riconoscimento sociale che ricevono i differenti lavori, è vero che, una volta introdotto questo pensiero, le modalità sociali di valutazione appaiono relativizzate e i passi avanti verso forme di riconoscimento sociale di tutti i lavori diventano inarrestabili. Penso, per esempio, a una questione così concreta e tanto amata da san Josemaría come è il riconoscimento della dignità del lavoro domestico, un punto fondamentale nel quale, come rileva Axel Honneth in base alla teoria critica, oggi si decide, a livello sociale, la questione più generale della relazione tra lavoro e riconoscimento[68].

Più in generale, si può dire che il messaggio della santificazione del lavoro implica una consapevolezza sempre più viva dell’importanza del lavoro nella vita umana, non solo sul piano individuale ma anche su quello sociale; una consapevolezza dalla quale ci si può aspettare una fioritura di iniziative fra le più varie, e in particolare di quelle che tendono a promuovere condizioni degne di vita e di lavoro per tutte le persone. In tale contesto ritengo opportuno citare un passo della Esortazione apostolica Evangelii gaudium, in cui Papa Francesco interviene per evitare una eventuale cattiva interpretazione del messaggio di santificazione del lavoro: «Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. Sebbene si possa dire in generale che la vocazione e la missione propria dei fedeli laici è la trasformazione delle varie realtà terrene affinché ogni attività umana sia trasformata dal Vangelo, nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale»[69].

Se il lavoro viene considerato in tutta la sua profondità umana, vale a dire, non solo come fattore di perfezionamento individuale ma come luogo organizzatore di vita sociale, esso si presenterà in tutte le sue dimensioni; non semplicemente come un luogo per la «auto-realizzazione» individuale, ma come piattaforma dalla quale diffondere, in tutta la sua ampiezza, la sollecitudine umana e cristiana per il prossimo e per le condizioni sociali che ne rendono possibile lo sviluppo.

Come abbiamo fatto osservare in precedenza, il lavoro, secondo san Josemaría, «nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore»[70]. In questo affonda le radici la sua più grande dignità. Proprio perché vede nella libertà di amare Dio la sorgente della dignità umana non ha remore neppure a presentarsi come «ribelle»[71] e descrivere la religione come «la più grande ribellione dell’uomo, che non vuole essere una bestia». Questa è la ragione ultima per cui, presentandosi il caso, può parlare anche di una forma legittima, santa, di ribellione, quando ciò che è in gioco è la libertà delle coscienze, libertà nella quale l’uomo, ogni uomo, mette in gioco il proprio destino: a nessuna autorità della terra è lecito incatenare il libero movimento con il quale gli uomini tributano un culto al loro Creatore. Anche per questo si rifiuta di interpretare la religione, le esigenze dello spirito, secondo categorie semplicemente politiche. Così, per esempio, a una domanda sul ruolo che possono svolgere le tendenze integriste e progressiste nella vita della Chiesa al termine del Concilio, risponde: «Per quanto riguarda le tendenze che lei definisce “progressiste” e “integriste”, mi riesce difficile esprimere un’opinione sul ruolo che possono svolgere in questo momento, perché sempre mi sono rifiutato di ammettere l’opportunità e addirittura la possibilità di fare catalogazioni o semplificazioni di questo genere. Questa ripartizione — che alle volte viene spinta fino a estremi di vero parossismo, o che si cerca di perpetuare, come se i teologi e i fedeli in genere fossero destinati a un continuo “orientamento bipolare” — ho l’impressione che in fondo nasca dalla convinzione che il progresso dottrinale e vitale del Popolo di Dio sia il risultato di una perpetua tensione dialettica. Io invece preferisco credere — con tutta l’anima — all’azione dello Spirito Santo, che spira dove vuole e su chi vuole»[72].

Più che decifrare la legge inesorabile della storia, il santo rimane attento a scoprire in essa i segni dell’azione provvidente di Dio. Forse per questo, certe volte può mettersi al di sopra dei pregiudizi del proprio tempo. Un esempio lo troviamo nel modo positivo con il quale concepì la condizione della donna e la sua corresponsabilità con l’uomo nell’edificazione della cultura[73]. Penso che su tale questione, che oggi appare di buonsenso, san Josemaría abbia potuto sottrarsi alle inerzie e alle convinzioni proprie del suo tempo, puramente e semplicemente perché si lasciava guidare dallo Spirito di Dio[74].

Se teniamo presente che i filosofi più illustri non sempre hanno saputo sottrarsi alle inerzie del loro tempo, allora comprenderemo perché il santo risulta particolarmente “intrigante” per il filosofo. Lo mette di fronte ai propri limiti e gli mostra un modo diverso di superarli.

[1] Martin Heidegger, Ser y tiempo, Trotta, Madrid, 2ª ed., 2009.

[2] Hannah Arendt, La condición humana, Paidós, Barcellona, 1993.

[3] Cfr. Hans Joas & Klaus Wiegandt (eds), Secularization and the world religions, Liverpool University Press, Liverpool, 2009. Cfr. Colin Campbell, The Easternization of the West. A Thematic Account of Cultural Change in the Modern Era, Paradigm Publishers, Boulder, 2007.

[4] Come osserva Hans Joas, le convinzioni religiose si distinguono dalle argomentazioni puramente razionali perché hanno in sé alcuni elementi che incidono profondamente nella propria identità: per questo non vanno d’accordo con gli stessi parametri che sono validi in discussioni puramente intellettuali. Tuttavia, questo non significa che si sottraggano a ogni critica razionale; si tratta piuttosto di imbroccare il modo giusto di parlare della fede e il modo giusto di esporre i suoi contenuti, in modo da permettere di analizzarli e renderli comprensibili, senza per questo intellettualizzarli. Cfr. Hans Joas, Einleitung, in Was sind religiöse Überzeugungen?, Wallstein Verlag, Göttingen, 2003, pp. 9-17.

[5] Cfr. Axel Honneth, La sociedad del desprecio, Trotta, Madrid, 2011, pp. 63-73.

[6] San Josemaría, cfr. Cammino, n. 939 (Edición crítico-histórica preparata da Pedro Rodríguez, Rialp, Madrid, 2002).

[7] Nonostante l’immanentismo psicologista che la definisce («We never really advance a step beyond ourselves», Treatise of Human Nature, Book I, Part II, Section VI), Hume riflette questa tensione nell’ordine pratico.

[8] «Et inde est quod anima intellectualis dicitur esse quasi quidam horizon et confinium corporeorum et incorporeorum, inquantum est substantia incorporea, corporis tamen forma». Tommaso d’Aquino, ScG, lib. 2, cap. 68, n. 6.

[9] «L’uomo è l’essere frontaliero che non ha nessuna frontiera». Cfr. George Simmel, “Puente y puerta”, in El individuo y la libertad. Ensayos de crítica de la cultura, edizione Península, Barcellona, 2001, pp. 45-53.

[10] La tensione che Aristotele percepisce tra la felicità tout court — che sarebbe puramente contemplativa — e la felicità «umana» — insieme di contemplazione e azione —, san Tommaso la reinterpreta come felicità perfetta e felicità imperfetta. In ogni caso rispecchia il fatto che l’uomo non è un animale chiuso in sé stesso, il cui decorso ha un seguito naturale, ma è proprio un animale razionale, che anticipa un’idea di perfezione e aspira a più di ciò che attualmente ha, [...] perfezione che d’altra parte non può raggiungere da solo. Per questo la razionalità può essere paragonata a una «ferita» aperta ed essere presentata come il «luogo» dove affonda le radici, anche sul piano umano, qualunque speranza, così come l’apertura al dono di Dio: in primo luogo, il dono della filiazione divina. Cfr. S.Th. I.II, q. 5, a. 5, ad 1, dove Tommaso d’Aquino si domanda: può l’uomo raggiungere la felicità con i suoi mezzi naturali? E risponde di no, per dire che comunque può rivolgersi a Dio perché lo faccia felice. La cosa interessante è che, per ragionare su questo punto, cita Aristotele: «Quello che possiamo per i nostri amici è come se lo potessimo per noi stessi» (EN, III, 3, 1112b 27-28).

[11] Cfr. Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, soprattutto i nn. 20-30.

[12] «Non dimenticatelo: chi non sa di essere figlio di Dio, non conosce la più intima delle verità che lo riguardano, e nel suo comportamento viene a mancare della padronanza e della signorilità che contraddistinguono coloro che amano il Signore al di sopra di tutte le cose». San Josemaría, Amici di Dio, n. 26. Cfr. Ernst Burkhart - Javier López, Vita quotidiana e santità nell’insegnamento di San Josemaría. Studio di teologia spirituale, vol. II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2018.

[13] Quello che è specifico di san Josemaría sta proprio nello stimolare la consapevolezza della filiazione divina come un principio di vita nuova che deve illuminare tutto ciò che un cristiano fa. Cfr. Ernst Burkhart - Javier López, Vita quotidiana e santità nell’insegnamento di San Josemaría. Studio di teologia spirituale, vol. II, pp. 14-15.

[14] Si può attribuire a questo la frequente esortazione di san Josemaría di evitare la routine nella vita di pietà. Evitare la «routine» vuol dire adottare un carattere personale, non precostituito, con Dio. Sarebbe un modo per evitare di ricadere in ciò che Heidegger chiamerebbe l’esistenza impropria, dove il “si” impersonale prende le redini della nostra vita. Proprio Heidegger si riferisce a questo in termini di “caduta” (Cfr. Martin Heidegger, Ser y tiempo, § 38).

[15] «Quando riconosciamo la piccolezza e la contingenza delle iniziative terrene, quella fatica si apre all’autentica speranza, che eleva tutto l’umano affaccendarsi e lo trasforma in luogo d’incontro con Dio [...]. Ma se trasformiamo i problemi temporali in mete assolute, cancellando dall’orizzonte la dimora eterna e il fine per cui siamo stati creati — amare e lodare il Signore, e possederlo poi in Cielo —, le più brillanti iniziative si mutano in tradimenti e persino in strumenti per svilire le creature [...]. Solo ciò che porta il sigillo di Dio rivela il segno indelebile dell’eternità, e il suo valore è imperituro. Perciò, la speranza non mi separa dalle cose di questa terra, ma mi accosta a codeste realtà in modo nuovo, cristiano, portandomi a scoprire in ogni cosa la relazione della natura — caduta — con Dio Creatore, con Dio Redentore». San Josemaría, Amici di Dio, n. 208.

[16] Cfr. San Josemaría, Forgia, n. 1: «Figli di Dio. — Portatori dell’unica fiamma capace di illuminare i cammini terreni delle anime, dell’unico fulgore, nel quale mai potranno darsi oscurità, ombre o penombre. — Il Signore si serve di noi come di torce, perché questa luce illumini... Da noi dipende che molti non rimangano nelle tenebre, ma percorrano sentieri che conducono fino alla vita eterna».

[17] Questa idea trova eco nelle riflessioni moderne sull’origine della cultura. Più precisamente, si può apprezzare un legame con l’osservazione di Kant — e prima ancora di Rousseau — secondo la quale i «vizi della cultura» sono particolarmente legati al dinamismo della vita sociale (cfr. Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, 6, 27), in quanto gravata da una debolezza originaria, che fa temere che gli altri prosperino più di uno; debolezza che, secondo Kant, si potrebbe superare soltanto nella misura in cui la ragione morale si facesse carico del progresso, e una comunità etica venisse a contrastare gli effetti negativi del “fomes peccati” che è in noi (Ibid, 6, 93 e ss.).

[18] «Molte realtà materiali, tecniche, economiche, sociali, politiche, culturali..., abbandonate a sé stesse, o in mano a chi è privo della luce della nostra fede, diventano ostacoli formidabili per la vita soprannaturale: formano come un recinto chiuso e ostile alla Chiesa. Tu, in quanto cristiano — ricercatore, letterato, scienziato, politico, operaio... —, hai il dovere di santificare queste realtà. Ricorda che tutto l’universo — scrive l’Apostolo — sta gemendo come nei dolori del parto, aspettando la liberazione dei figli di Dio». San Josemaría, Solco, n. 311.

[19] Papa Francesco, Lett. enc. Laudato si’, nn. 43, 49, 191, 194.

[20] San Josemaría, Amici di Dio, n. 202.

[21] «Ho insegnato incessantemente, con parole della Sacra Scrittura, che il mondo non è cattivo: perché è uscito dalle mani di Dio, perché è creatura sua, perché Jahvè lo guardò e vide che era buono. Siamo noi uomini a renderlo cattivo e brutto, con i nostri peccati e le nostre infedeltà. Siatene pur certi, figli miei: qualsiasi specie di evasione dalle realtà oneste di tutti i giorni significa, per voi uomini e donne del mondo, il contrario della volontà di Dio». San Josemaría, Colloqui, n. 114a (Edición crítico-histórica preparata sotto la direzione di José Luis Illanes, Rialp, Madrid, 2012).

[22] Cfr. José Luis Illanes, Existencia cristiana y mundo. Jalones para una riflexión teológica sobre el Opus Dei, Eunsa, Pamplona, 2003.

[23] Cfr. nota 15.

[24] San Josemaría, Colloqui, n. 115c.

[25] «Cerchiamo di crescere in umiltà. Perché solo una fede umile permette di guardare le cose con visione soprannaturale. Non esistono altre vie. Sulla terra sono possibili solo due modi di vivere: o si vive vita soprannaturale o vita animale. Tu e io non possiamo vivere altra vita che quella di Dio, la vita soprannaturale». San Josemaría, Amici di Dio, n. 200. «Non dimentichiamo mai che per tutti — quindi per ciascuno di noi — ci sono solo due modi di stare sulla terra: o si vive vita divina, lottando per piacere a Dio; o si vive vita animale, più o meno umanamente illuminata, quando si prescinde da Lui». San Josemaría, Amici di Dio, n. 206.

[26] «La ragione è trascinata da una tendenza della sua natura a oltrepassare il suo uso empirico e ad avventurarsi in un uso puro, mediante semplici idee, ben oltre gli estremi limiti di ogni conoscenza, ma allo stesso tempo a non trovare riposo finché non abbia completato il suo corso in un tutto sistematico e sussistente per sé stesso. Domandiamoci ora: questa aspirazione si basa sul semplice interesse speculativo della ragione o piuttosto si fonda unicamente ed esclusivamente sul suo interesse pratico? [...] D’accordo con la natura della ragione, questi fini supremi dovranno avere da parte loro, una volta fusi, l’unità che suscita quell’interesse dell’umanità che non è subordinato a nessun altro interesse superiore. La meta finale alla quale in definitiva tende la speculazione della ragione nel suo uso trascendentale si riferisce a tre obiettivi: la libertà della volontà, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio» (Immanuel Kant, KrV, A 797/B825; A 798/B826).

[27] Infatti, secondo Nietzsche, il «troppo umano» fa riferimento alla necessità di un altro come referente della volontà, mentre per Aristotele sarebbe «troppo umano» — solamente umano — rinunciare a coltivare ciò che di più divino è in noi. Così afferma: «È indegno dell’uomo non cercare la scienza a lui adeguata» (Metafisica I, 982 b30) — benché sia una scienza divina come la metafisica, che potrebbe apparirgli eccessiva. E nell’Etica a Nicomaco, come è stato detto nel testo, pur riconoscendo che vivere una vita contemplativa supera le forze umane, è del parere che «non dobbiamo avere, come alcuni ci consigliano, pensieri umani dato che siamo uomini, né mortali dato che siamo mortali, ma, per quanto possibile, dobbiamo immortalarci e fare tutto ciò che è in nostro potere per vivere d’accordo con ciò che di più eccellente c’è in noi» (Etica a Nicomaco, X, 7, 1177 b 32-35).

[28] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 98.

[29] San Josemaría, Amici di Dio, n. 43.

[30] Per esempio, il cristiano deve essere diligente; non deve avere «preoccupazioni», ma «occupazioni», cosa che è anche un modo concreto di abbandono nella Provvidenza. Deve organizzare il suo tempo in modo tale che possa compiere con calma e serenità i suoi doveri (incluso il riposo); e aiutare i suoi fratelli, cosa che in pratica vuol dire adottare un orario, trasformando in qualche modo i «doveri imperfetti» in «doveri perfetti», perché altrimenti alcune attività assorbirebbero tutta l’attenzione e il “portare gli uni i pesi degli altri” non troverebbe occasione di materializzarsi.

[31] Cfr. Pedro Rodríguez, Vocación, trabajo, contemplación, Eunsa, Pamplona, 1986.

[32] San Josemaría afferma con chiarezza che la cultura è un mezzo e non un fine (cfr. Cammino, n. 345). Inoltre accenna alla necessità di «fare di tutta la giornata una Messa» (Appunti presi durante una predicazione, 19-III-1968, citato in Javier Echevarría, Vivere la Santa Messa, Milano, 2010, p. 12), e in ciò si nota chiaramente la relazione tra culto e cultura, culto in spirito e verità, ecc.; qualche volta commenta anche il testo di Rm 12, dove san Paolo parla del «culto razionale». Questo è molto importante: la cultura è mezzo e simbolo, ma, separata dal culto che le dà senso, finisce col frammentarsi in mille pezzi. Allo scopo di evidenziare la continuità con temi moderni, prenderò nota che anche l’uso esplicito che fa Kant del termine è soprattutto quello di «perfezionamento» e, più in generale, quello di mediazione in ciò che riguarda sottilmente il suo aspetto simbolico (cfr. Ana Marta González, Culture as mediation. Kant on nature, culture and morality, Hildesheim, Georg Olms Verlag, 2011, p. 361).

[33] Cfr. Ana Marta González, “Cultura y civilización”, in Ángel Luis González (ed.), Diccionario de Filosofía, Eunsa, Pamplona, 2010, pp. 265-268.

[34] Cfr. Ana Marta González, “La víctima del destino. Ensayo sobre un tipo de nuestro tiempo”, in Lourdes Flamarique e Madalena D’Oliveira-Martins (eds.), Emociones y estilos de vida. Radiografía de nuestro tiempo, Biblioteca Nueva, Madrid, 2013, pp. 157-177.

[35] Cfr. Cruz González-Ayesta, «Il lavoro come una Messa. Riflessioni sulla partecipazione dei laici al munus sacerdotale negli scritti del fondatore dell’Opus Dei», in Romana, n. 50 (2010), pp. 200-218.

[36] «Fin dal 1928 vado predicando che il lavoro non è una maledizione, non è un castigo del peccato. Nel libro della Genesi si parla di codesta realtà già prima della ribellione di Adamo contro Dio (cfr. Gn 2, 15). Secondo il piano divino, l’uomo avrebbe dovuto lavorare comunque, per cooperare al compito immenso della creazione». San Josemaría, Amici di Dio, n. 81.

[37] «Dato che il mondo è uscito dalle mani di Dio, ed Egli ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli ha dato una scintilla della sua luce, il lavoro dell’intelligenza — ancorché richieda un duro sforzo — deve sviscerare il senso divino già insito naturalmente in tutte le cose; e con la luce della fede ne percepiamo anche il valore soprannaturale, reso comprensibile dalla nostra elevazione all’ordine della grazia. Non possiamo aver paura della scienza, perché qualsiasi ricerca, se è veramente scientifica, tende alla verità. E Cristo ha detto: Ego sum veritas, io sono la verità. Il cristiano deve avere sete di sapere. Dall’approfondimento della scienza più astratta all’abilità manuale degli artigiani, tutto può e deve condurre a Dio. Non c’è lavoro umano che non sia santificabile, che non sia occasione di santificazione personale e mezzo per collaborare con Dio alla santificazione di coloro che ci circondano [...]. Il lavoro così fatto è orazione. Lo studio così fatto è orazione. La ricerca scientifica così fatta è orazione [...]. Ogni onesto lavoro può essere orazione; e ogni lavoro che è orazione è apostolato. In tal modo l’anima si irrobustisce in un’unità di vita semplice e forte». San Josemaría, È Gesù che passa, n. 10.

[38] Ibid.

[39] Qualche volta è stato messo in rilievo che questo concetto — l’unità di vita — costituisce uno dei contributi più originali dati da san Josemaría al vocabolario ascetico. Tuttavia, vorrei far notare che tale contributo supera abbondantemente il piano ascetico, dal momento che lo vediamo proiettato sull’orizzonte della cultura. Per una visione panoramica di questo concetto, cfr. Ignacio De Celaya, voce «Unità di vita» in José Luis Illanes (coord.), Diccionario de San Josemaría Escrivá de Balaguer, Monte Carmelo-Instituto Histórico San Josemaría Escrivá de Balaguer, Burgos-Roma, 2015 (3ª ed.), pp. 1217-1223.

[40] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 99.

[41] Il concetto di «reificazione», inizialmente introdotto da Luckacs come uno strumento di analisi critica della cultura, è stato recentemente rivalorizzato da Axel Honneth. Cfr. Axel Honneth, Reificación. Un estudio en la Teoría del Reconocimiento, Katz, Buenos Aires, 2007, pp. 136-137.

[42] Papa Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium, nn. 187 e 193.

[43] San Josemaría, Cammino, n. 301. Rimando alla spiegazione data da Pedro Rodríguez nella edizione critica, dove si fa notare la stretta connessione con Gv 12, 32 e il modo adeguato di interpretare l’allusione al «Regno di Cristo».

[44] San Josemaría, Colloqui, n. 115a.

[45] «Sappiatelo bene: c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire». San Josemaría, Colloqui, n. 114b.

[46] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 99.

[47] Cfr. Leonardo Polo, “El concepto de vida en Monseñor Escrivá de Balaguer”, Anuario Filosófico, 1985, vol. XVIII, 2, pp. 9-32.

[48] «Nell’ipotesi che in una nazione non esista la benché minima libertà politica, forse l’università potrebbe snaturarsi, cessando di essere la casa comune per diventare il campo di battaglia di opposte fazioni. Ma io ritengo tuttavia che sarebbe preferibile dedicare questi anni a una seria preparazione, all’acquisto di una mentalità sociale, per far sì che coloro che domani avranno un ruolo direttivo — ossia gli studenti di oggi — non finiscano essi stessi per cadere in questa malattia che è l’avversione per la libertà personale. Se l’università si trasforma in una tribuna di discussione e di decisione su problemi politici concreti, è facile che si finisca col perdere la serenità accademica e che gli studenti acquistino una mentalità faziosa; e così l’università e il Paese si trascinerebbero sempre dietro la piaga cronica del totalitarismo, poco importa di quale marca» (San Josemaría, Colloqui, n. 77a e b).

[49] Cfr. Un incontro con alcuni imprenditori nello IESE, Barcellona, 27-XI-1972. Alcuni testi di questo incontro si possono leggere in Javier Echevarría, Dirigir empresas con sentido cristiano, in “Revista de Antiguos Alumnos del IESE”, n. 87, settembre 2002, pp. 12-13.

[50] Nel governo di queste opere sapeva conciliare la responsabilità — bisogna fare in modo che le opere si sostengano con il lavoro, chiedendo aiuto, ecc. — e la povertà — la cura degli strumenti — con la magnanimità e la fiducia nella provvidenza: «Si spende quello che si deve, anche se si deve quello che si spende».

[51] Appunti presi durante una riunione di famiglia, 16-V-1960, citati in Javier Echevarría, Lettera pastorale, 1-II-2006.

[52] Prendo il termine da Axel Honneth, The pathologies of individual freedom, Princeton University Press, Princeton, 2010.

[53] Cfr. George Simmel, Intuición de la vida. Cuatro capítulos de metafísica, Altamira, Buenos Aires, 2001.

[54] Per una teoria sulla differenza tra vincoli sociali sicuri e non sicuri vedi Thomas J. Scheff, Emotions, the social bond, and human reality. Part/Whole Analysis, Cambridge University Press, Cambridge, 1997.

[55] Penso che questo si avverte in modo particolare nel modo in cui mette a fuoco la relazione tra sessualità, maturazione dell’amore e sviluppo della personalità. Quando parla di sessualità, san Josemaría suole affermare che di solito tale questione non occupa il primo posto nelle preoccupazioni di una persona. E, in ogni caso, quando si presenta, va considerata in relazione con la maturazione dell’amore personale: quello che all’inizio non è altro che un impulso, un sentimento, deve diventare un amore elettivo e superare la prova del tempo per arrivare a costituire, realmente, un vero amore alla persona. Questa concezione, che in nessun modo è esclusivamente cristiana (cfr. Karl Jaspers, Ambiente espiritual de nuestro tiempo, Labor, Barcellona, 1933, p. 186), costituisce il nucleo morale dell’istituzione matrimoniale; questo, con le sue esigenze di fedeltà reciproca, non è la tomba dell’amore, ma esprime piuttosto la sua qualità specifica, facendo sì che guadagni in profondità umana fino a raggiungere la totalità della persona. Del resto, l’istituzione come tale può adottare forme culturali molto varie, più o meno egualitarie, come già ha potuto apprezzare Tocqueville nel XIX secolo in una sua analisi della democrazia americana (cfr. Alexis de Tocqueville, Democracia in América, vol. II, parte 3, cap. 8, Alianza Editorial, Madrid, 1999, p. 164 e ss.).

[56] Questo è ovvio nel caso di istituzioni politiche ed economiche: quando viene meno la fiducia nelle istituzioni, gli individui si ripiegano su sé stessi e rinunciano a progetti di ampio respiro. Qualcosa di simile accade anche in altri campi. Così, la deregolamentazione della vita affettiva-sessuale non solo riguarda lo sviluppo della personalità, rendendo difficile la maturazione dell’amore personale, ma introduce indirettamente nella vita sociale un fattore di incertezza che distorce lo sviluppo normale delle relazioni umane di amicizia, fiducia, ecc., con il conseguente impoverimento della vita sociale e professionale.

[57] Cfr. Victor Turner, “Entre lo uno y lo otro: el periodo liminar de los rites de passage”, in La selva de los símbolos, Siglo XXI, Madrid, 1980, pp. 103-123.

[58] «L’essenza dell’uomo nella sua storia è piuttosto un interinato costante come inquietudine della sua esistenza temporale in ogni momento incompiuta. Non è la ricerca dell’unità dell’epoca a venire ciò che deve servirgli per qualcosa, ma semmai il tentativo incessante di scoprire le potenze anonime che contemporaneamente si mettono di traverso al regime esistenziale e all’essere medesimo» (Karl Jaspers, Ambiente espiritual de nuestro tiempo, p. 175).

[59] «Dio non bada a persona alcuna» (Gal 2, 6), «Un figlio di Dio non può essere classista, perché gli interessano i problemi di tutti gli uomini... E cerca di contribuire a risolverli mediante la giustizia e la carità del nostro Redentore. Già lo fece presente l’Apostolo, quando ci scriveva che per il Signore non vi è discriminazione di persone, e che io non ho esitato a tradurre così: non c’è che una sola razza, la razza dei figli di Dio!» (San Josemaría, Solco, n. 303).

[60] Gal 3, 26-29; 1 Cor 12, 13; Rm 10, 12. «L’Apostolo ha anche scritto che “non c’è distinzione tra gentile e giudeo, tra circonciso e incirconciso, tra barbaro e scita, tra schiavo e libero, ma Cristo è tutto ed è in tutti”. Queste parole valgono oggi come ieri: di fronte al Signore, non esistono differenze di nazione, di razza, di classe, di stato... Ognuno di noi è rinato in Cristo, per essere una nuova creatura, un figlio di Dio: siamo tutti fratelli, e da fratelli ci dobbiamo comportare» (San Josemaría, Solco, n. 317).

[61] Desidero far notare la relazione tra questa convinzione e l’importanza che san Josemaría dava a un tema apparentemente banale come la moda. Lungi dal ridurre il tema a una questione semplicemente morale — come accadeva spesso tra alcuni Padri della Chiesa —, penso che avvertisse fino a che punto, in questa materia, il discernimento si collegava ai modi più o meno indovinati di comprendere la secolarità: come essere del mondo senza essere mondano.

[62] La guerra è sicuramente uno dei periodi che si possono chiamare liminari. Cfr. Victor Turner, “Entre lo uno y lo otro: el periodo liminar en los rites de passage”, in La selva de los símbolos, p. 105.

[63] Vedi Andrés Vázquez de Prada, Il Fondatore dell’Opus Dei, vol. II, Leonardo International, Milano, 2002, pp. 52-124. Cfr. San Josemaría, Cammino, n. 697.

[64] La diligenza induce a impiegare il proprio tempo compiendo con serenità e calma i doveri del proprio stato e aiutando il fratello sovraccarico di lavoro a compiere il proprio dovere. Cfr. San Josemaría, Amici di Dio, nn. 41 e 44.

[65] La possibilità di sottrarsi a una considerazione puramente processuale del lavoro, la possibilità di scoprire un significato umano del lavoro, appaiono evidenziate anche in Jaspers (Ambiente espiritual de nuestro tiempo, n. 186). Però negli scritti di san Josemaría queste considerazioni si diffondono e si elevano.

[66] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 48.

[67] Per vedere un approccio di Weber e Durkheim alla questione, cfr. Fernando Múgica, La profesión: enclave ético de la moderna sociedad diferenciada, Cuadernos de Empresa y Humanismo, Universidad de Navarra, 1998.

[68] «Per l’analisi successiva della relazione reciproca nella quale si trovano lavoro e riconoscimento acquista importanza, soprattutto oggi, il dibattito in corso, in collegamento con il femminismo, sul problema del lavoro domestico non remunerato. In altre parole, da due prospettive, nel corso di questa discussione, è risultato chiaro che l’organizzazione del lavoro sociale è strettissimamente vincolata da norme etiche che regolano il sistema dell’apprezzamento sociale: dal punto di vista storico, il fatto che l’educazione infantile e le attività domestiche finora non siano state valorizzate come tipi di lavoro sociale perfettamente validi e necessari per la riproduzione si può spiegare solo con un riferimento al disprezzo sociale che è stato mostrato nell’ambito di una cultura determinata dai valori maschili; dal punto di vista psicologico, risulta dalle medesime circostanze il fatto che, in base alla tradizionale distribuzione dei ruoli, le donne possono solo contare su minori possibilità di trovare, nella società, il grado di riconoscimento sociale che costituisce la condizione necessaria per una auto-definizione positiva...» (Axel Honneth, La sociedad del desprecio, pp. 143-144).

[69] Papa Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium, n. 201.

[70] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 48.

[71] La ribellione nei confronti di ciò rimpicciolisce lo spirito, in nome della nobiltà intesa come autenticità, è un tema presente nei filosofi dell’esistenza; questo si nota, per esempio, in Jaspers: «Si inizia oggi l’ultima campagna contro la nobiltà. Invece di riguardare il terreno politico o sociologico, coinvolge le anime stesse» (Karl Jaspers, Ambiente espiritual de nuestro tiempo, p. 189). Però l’autenticità che Jaspers crede di trovare nella «vita filosofica», san Josemaría la trova nella santità, nella pienezza della filiazione divina che altro non è che l’identificazione con Gesù Cristo.

[72] San Josemaría, Colloqui, n. 23.

[73] Per molti secoli, contrariamente alla uguale dignità che lo stesso dogma cristiano riconosce alla donna e all’uomo, la considerazione della donna, in pratica, è stata inseparabile dall’idea di «tentazione», probabilmente perché lo sguardo predominante è stato sempre quello dell’uomo non redento. Tuttavia, l’approccio di san Josemaría è radicalmente diverso. Per lui le donne sono anzitutto figlie di Dio, chiamate, come gli uomini, ad assumere liberamente e responsabilmente la direzione della loro vita, davanti a Dio, e a realizzarsi nel dono di sé attraverso l’amore nelle diverse modalità che prevede l’esistenza umana (matrimonio, celibato apostolico, ecc.), ma in nessun modo destinate — come se nella vita fosse il loro unico destino — a contrarre matrimonio; capaci di formarsi, governarsi e sostenersi economicamente, di scegliere e svolgere una vocazione professionale, di partecipare alla vita pubblica.

[74] Cfr. Mercedes Montero, “El papel de la mujer en la sociedad democrática. Edición crítica de Conversaciones con Monseñor Escrivá de Balaguer”, Nuestro Tiempo, vol. LVIII, n. 677 (2012), pp. 92-95.

Romana, n. 65, Luglio-Dicembre 2017, p. 362-381.

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