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La santificazione nella propria condizione di vita (Commento esegetico di 1 Cor 7, 17-24), di Michele A. Tabet.

Il testo di 1 Cor 7,17-24 ha senz'altro singolare importanza nell'individuazione dei fondamenti biblici della teologia del laicato, specialmente per quanto concerne la definizione dell'ambito della santificazione: la condizione di vita propria di ciascuno. E' opportuno rilevare fin d'ora che il passo in questione non può essere trattato alla stregua di un inciso aperto in 1 Cor 7, o di una parentesi irrilevante nell'ampia prospettiva dell'epistolario paolino[1]. Non è davvero una dottrina secondaria o accidentale nel messaggio globale dell'Apostolo: ne fa fede l'espressione in tutte le chiese (v. 17), usata da San Paolo ad indicare la costanza e l'universalità di tale suo insegnamento. Egli toccava l'argomento in omnibus ecclesiis, come ricorda esplicitamente ai Corinzi.

D'altro canto, il testo di 1 Cor 7,17-24 non resta lettera morta nel -corpus paulinum-. Anche da altri passi disseminati nelle lettere dell'Apostolo si può dedurre che il cristiano deve santificarsi nel proprio stato, per mezzo del lavoro[2].

Tuttavia è forse proprio il nostro il frammento più significativo, che abbozza l'insegnamento poi mirabilmente esposto dal Concilio Vaticano II: -Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose spirituali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli i doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l'esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito evangelico e, in questo modo, a manifestare Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e Redentore-[3].

1. Il contesto immediato di 1 Cor 7,17-24

Il contenuto del passo in esame riceve speciale risalto dal contesto a prima vista sorprendente in cui appare inserito: il capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi. Esso segna l'inizio della seconda parte dell'epistola, consistente nelle risposte dell'Apostolo ai quesiti proposti dai fedeli di Corinto. In particolare, il capitolo 7 affronta la tematica della relazione tra matrimonio e verginità. -Una delle domande proposte all'Apostolo dalla comunità di Corinto doveva chiedere all'incirca se per il cristiano siano leciti il matrimonio e la consumazione del matrimonio. Avevano dinanzi agli occhi l'esempio del celibato degli apostoli; sapevano che Gesù stesso era stato celibe; conoscevano tra l'altro il detto riguardante coloro che rinunciano al matrimonio per amore del regno dei cieli (Mt 19,11 ss.). Da tutto ciò deducevano che tutti dovevano tendere a tale ideale. D'altra parte, c'erano molti altri che disprezzavano i valori sessuali, cosa che poteva condurre, al contrario, al lassismo morale...-[4].

La risposta di San Paolo offre i parametri dottrinali essenziali per risolvere le questioni sollevate. L'Apostolo illustra ai Corinzi la legittimità e la convenienza del matrimonio (vv. 1-2), l'eguaglianza essenziale di diritti e doveri tra i coniugi (vv. 3-4), la continenza temporanea per ragioni più alte (applicarsi all'orazione) (v. 5), il matrimonio e la verginità quali doni della grazia, il secondo dei quali è di per sé eccellente (vv. 6-9), l'indissolubilità del matrimonio (vv. 10-11) e la condotta da seguire nel caso specifico del matrimonio contratto tra pagani, uno dei quali si fosse in seguito convertito al cristianesimo (vv. 12-16). Ed è proprio ora (v. 17), prima di proseguire l'esame dell'argomento e di soffermarsi nell'ultima parte del capitolo sul primato della verginità (vv. 25-40), che San Paolo avverte l'esigenza di ricordare un aspetto capitale della sua predicazione: le normali esigenze della vocazione cristiana in relazione alle strutture del mondo. Il v. 17 si apre così: fuori di questi casi, ciascuno continui a vivere secondo la condizione che gli ha assegnato il Signore, così come Dio lo ha chiamato; così dispongo in tutte le chiese[5].

Saranno forse state l'instabilità dei Corinzi e una certa tendenza al rilassamento dei costumi a indurre San Paolo a ribadire a chiare lettere un caposaldo della sua dottrina, precisando ch'esso valeva per tutte le comunità. L'Apostolo voleva probabilmente evitare un'estensione abusiva dell'insegnamento appena esposto sulla liceità della rottura del vincolo coniugale in un matrimonio contratto tra pagani, nel caso in cui la parte pagana rifiutasse di convivere pacificamente con il coniuge che si fosse convertito al cristianesimo. San Paolo si affretta così a indicare il principio informatore dell'esistenza cristiana: i legami e gli obblighi assunti prima del battesimo dovevano conservare pieno vigore.

La dottrina in definitiva era la seguente: -se la "conversione" al cristianesimo conduce a una radicale trasformazione della vita morale e religiosa dell'uomo interiore, essa non comporta invece di per sé alcun cambiamento nella dimensione esterna e sociale dei fedeli; più ancora, è preferibile restare nella condizione o stato in cui ci si trovava prima di ricevere il dono interiore della fede-[6]. L'Apostolo sosteneva che la realtà della vocazione cristiana esigeva non tanto un cambiamento del quadro esteriore dell'esistenza, quanto una conversione interiore. Di conseguenza, le sue affermazioni sulla dissoluzione del matrimonio quando la parte pagana, di fronte alla conversione del coniuge, rompeva la convivenza, erano la soluzione pratica di un problema ben preciso, e non potevano essere applicate ad altre questioni. Il principio generale era piuttosto il contrario: il cristianesimo non intendeva sconvolgere l'equilibrio precedente, dal momento che ogni stato di vita onesto poteva essere santificato[7].

San Paolo evidenzia l'importanza del principio mediante la sua inaspettata affermazione, l'affermazione ch'esso vale per tutte le chiese e, dal punto di vista grammaticale, la sua reiterazione. Negli otto versetti scarsi della digressione egli lo riafferma infatti ben tre volte, ai vv. 17, 20 e 24. Esaminiamo ordinatamente i diversi punti.

2. 1 Cor 7,17-19: Permanenza nella propria condizione originaria

Il passo è introdotto dalla congiunzione ei me, che ha valore avversativo e restrittivo. La Vulgata e la Neovulgata traducono nisi. Lo Zerwick l'assimila a plên (praeter[quam], ceterum)[8]: -fuori di questi casi-, -per il resto-. E' l'interpretazione della maggior parte degli esegeti. Se San Paolo aveva consentito la separazione dalla parte pagana era perché la parte battezzata non si venisse a trovare in situazioni incompatibili con le esigenze della fede. Ora, con l'espressione -fuori di questi casi-, viene introdotta la norma di condotta altrimenti normale e abituale tra i fedeli, da applicare ogniqualvolta lo stato precedente la conversione sia compatibile con la vocazione cristiana: -ciascuno secondo la condizione assegnatagli dal Signore (Kyrios), ciascuno come Dio (Theos) l'ha chiamato. Era così assodato che lo stato o condizione in cui ci si trovava prima di ricevere la fede è compresa nel disegno divino. Tale situazione riveste il carattere di dono, il cui donatore è indicato da San Paolo in Cristo stesso (Kyrios), perché l'uomo viva in lui e si santifichi quando viene sorpreso dalla chiamata di Dio Padre alla fede-[9].

L'Apostolo illustra il principio enunciato applicandolo a due situazioni di scottante attualità per i Corinzi. La prima era la distinzione tra giudeo e gentile, o, secondo la terminologia impiegata dall'Apostolo, tra circonciso e incirconciso. Era forse la differenza d'origine più radicale, dal punto di vista religioso, che si potesse dare tra cristiani: erano le due condizioni religiose estreme che si potessero dare, dacché Dio aveva eletto il popolo d'Israele. San Paolo, applicando il principio generale, spiega che la conversione al cristianesimo non implica l'esigenza di abbandonare uno stato per abbracciare l'altro: Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda! E' stato chiamato quando non era ancora circonciso? Non si faccia circoncidere! La circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; conta invece l'osservanza dei comandamenti di Dio.

E' il cuore dell'insegnamento dell'Apostolo. San Paolo afferma che, una volta ricevuto il battesimo, sia i giudeo-cristiani sia i pagano-cristiani dovevano accettare e stimare la condizione loro assegnata dalla Provvidenza divina prima che ricevessero la chiamata alla fede. Né il giudeo-cristiano doveva vergognarsi della circoncisione cercando di nasconderla o facendola sparire[10], né il pagano-cristiano doveva pensare che l'adesione al cristianesimo comportasse la previa adozione delle consuetudini giudaiche. Nessuno dei due doveva sentirsi superiore o inferiore in forza della religione d'origine. E' probabile che San Paolo tenesse presente e intendesse tra l'altro combattere il grave errore dei giudaizzanti; ma senza dubbio il suo sguardo si spingeva più lontano. Voleva sottolineare che ben altre erano le esigenze della chiamata alla nuova fede: ciascuno, accettando la propria origine, si doveva convincere che da quel momento in poi l'importante sarebbe stato vivere in essa in conformità con la volontà di Dio, vale a dire, nell'osservanza dei comandamenti di Dio (v. 19). E' il mandato che trasmetterà anche ai Galati: in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6). La vita cristiana non esigeva cambiamenti esterni, ma una conversione interiore, frutto della fede, manifestata dalle opere dell'amore verso Dio e verso il prossimo.

3. Permanenza nella propria condizione sociale (vv. 20-23)

Il ragionamento di San Paolo presenta nei versetti seguenti un certo progresso, tanto nell'enunciazione del principio generale come nell'esemplificazione offertane.

3.1. La condizione di vita intesa come vocazione

Il principio generale, prima espresso con le parole ciascuno [...] secondo la condizione che gli ha assegnato il Signore, viene ora formulato più enfaticamente: ciascuno rimanga nello stato della vocazione, in cui è stato chiamato[11].

Ebbene, che significa qui vocazione (klêsis)? -Non l'atto della grazia divina, ma il posto o condizione sociale condivisa dall'uomo al momento della chiamata alla fede e alla Chiesa-[12]. Riteniamo che, effettivamente, tale debba essere la traduzione del termine nel passo in esame. Indubbiamente la parola klêsis, traducibile con -vocazione-, è impiegata in 1 Cor 7,20 in un'accezione in certo modo inattesa e poco comune in San Paolo[13], ma spiegabile alla luce dell'impiego popolare del vocabolo nella grecità. Klêsis può infatti assumere il significato di -denominazione-, -invito-, -appuntamento-, -Testamento-[14].

Fin dall'antichità è questa l'interpretazione comune del passo. Tanto nella letteratura patristica come in quella medioevale, il termine klêsis, nel contesto di 1 Cor 7,20 è stato inteso come riferito alla vocazione umana, cioè al genere di vita, alla condizione, al lavoro dell'uomo[15]. Tale è l'esegesi dei Padri greci. San Giovanni Crisostomo, per esempio, commenta come segue i vv. 17-21: -Cose del genere non impediscono la fede, dice l'Apostolo, affinché tu non le disprezzi e non ne sia turbato: la fede infatti tutte le assume. Ciascuno rimanga nella vocazione in cui era quando fu chiamato. Quando sei stato chiamato avevi una moglie pagana? Rimani con lei: non rimandare la moglie a cagione della fede. Quando sei stato chiamato eri schiavo? Non te ne preoccupare: rimani schiavo...-[16]. Nel medioevo ricorderemo San Bruno, che scrive nel proprio commento delle lettere di San Paolo: -Ed enuncio in generale il principio vigente per il circonciso e l'incirconciso: che ciascuno, venendo alla fede, rimanga nello stato in cui ha ricevuto la chiamata; e sappia che tale stato è la vocazione di Dio-[17]. Ancor più chiare, se possibile, sono le parole di Hervé de Bourg-Dieu: -Ciascuno nella vocazione in cui è stato chiamato, vale a dire nella condizione che non ripugna alla vocazione, in essa rimanga. Parole da riferire alle consuetudini di vita o vocazioni che non si oppongano alla fede o ai buoni costumi. Giacché se uno era un brigante quando ha ricevuto la chiamata, non pensi di poter proseguire le rapine-[18].

L'interpretazione illustrata ha prevalso nell'esegesi più recente, tanto che pensiamo possa essere considerata opinione comune degli esegeti. Non è dunque strano che il Theologisches Begriffslexicon zum NT affermi decisamente: -1 Cor 7,15 ss. dimostra che la chiamata né modifica necessariamente lo status sociale del cristiano (essa non rende lo schiavo giuridicamente libero dal suo padrone) né lo costringe a cambiar professione: il cambiamento di condizione è ottenuto non tanto mediante strutture caduche, bensì mediante la trasformazione degli atteggiamenti interiori. Per il resto, 1 Cor 7,20 è l'unico passo in cui klêsis può essere tradotto "professione" (nel senso di "condizione" nella quale uno si trova a vivere...)-[19]. Anche per quanto riguarda l'esegesi protestante l'interpretazione proposta sembra la più comune[20]. Il dibattito aperto sul termine klêsis è raccolto dal -Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament- (ThWNT)[21]. Per il significato di -stato di vita- si pronunciano, tra gli altri, H. Lietzmann —che pure riconosce la singolarità di tale accezione nel -corpus paulinum- e persino nella letteratura profana—, H. D. Wendland e K. Holl. Anche quest'ultimo riconosce la peculiarità dell'uso del vocabolo: -Da questo rigoroso uso linguistico (scil. di klêsis nel senso di "vocazione") si scosta soltanto un passo. In 1 Cor 7,20 Paolo scrive: Ognuno deve rimanere nella klêsis nella quale è stato chiamato. La nostra scienza linguistica non è ancora in grado di decidere con sicurezza se qui Paolo tenta d'introdurre, insieme con un concetto ardito, anche un termine altrettanto ardito e di nuovo conio (la vocazione del cristiano include anche la posizione di ognuno, come qualcosa voluto da Dio), o se ha accolto un uso linguistico già affermato, sia pure molto raro o tutt'al più popolare (klêsis = ciò da cui uno riceve il suo nome, e dunque il "ceto", o la "professione" nel senso di "consorteria"). Quest'ultima ipotesi è forse la più probabile. In ogni caso era notevole che il significato di questo termine, accennante a un valore terreno, venisse precisato ai cristiani mediante un passo del N. T.- (ThWNT)[22]. Dal canto loro, autori come lo stesso Schmidt, Cremer-Kögel, ecc., interpretano la parola klêsis di 1 Cor 7,20 come vocazione alla vita cristiana. Infatti nell'articolo Klêsis del ThWNT lo Schmidt traduce: -ciascuno rimanga nello stato della vocazione in cui è stato chiamato-.

La ragione addotta da questi ultimi esegeti è proprio il valore quasi univoco assunto dal vocabolo nel -corpus paulinum-: klêsis, essi affermano, vi assume il significato di vocazione a qualcosa che appartiene alla sfera sacra della salvezza. Riteniamo pertinenti e chiarificatrici le osservazioni di K. V. Truhlar: -Argomento che tuttavia non convince. Degli otto testi addotti, infatti, quello di 1 Cor 1,26 si riferisce direttamente alla vocazione alla vita cristiana, ma non in modo semplice ed esclusivo. Poiché quando Paolo dice: vedete la vostra vocazione, o fratelli, perché non ci sono molti sapienti tra voi, secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili; ma... le cose vili del mondo e di nessun valore elesse Dio..., considera direttamente la vocazione cristiana, ma non separata dallo stato profano, bensì concretizzata nella modesta condizione sociale dei Corinti. Insieme con la vocazione cristiana considera anche la condizione sociale. Se si tiene presente tutto questo, il testo di 1 Cor 7,20, interpretato —nella voce klêsis— per vocazione alla condizione o stato di vita, può essere concepito come un passo più avanti verso la linea incominciata in 1 Cor 1,26-[23]. L'autore prosegue: -Se San Paolo usa per lo più la parola "vocazione" nel senso di chiamata alla vita cristiana, perché non avrebbe potuto, in qualche passo, usare il medesimo termine in senso nuovo, specialmente se codesto nuovo senso si connette intimamente con l'altro, in cui il termine è usato ordinariamente? In concreto: perché San Paolo, che usa la parola klêsis per significare per lo più la vocazione alla vita cristiana, in qualche testo non avrebbe potuto usare la medesima parola per significare la vocazione allo stato o condizione di vita, ossia allo stato professionale, che alla fin fine non è altro che la vita cristiana considerata in concreto?-. E' suggestivo pensare che l'Apostolo impieghi il termine klêsis per designare la vocazione umana in cui l'individuo deve perseverare, nella nuova condizione creata dalla chiamata divina[24].

3.2. Progresso nell'esemplificazione

Il secondo caso a cui San Paolo applica il principio generale aveva una portata molto maggiore del primo. Si tratta dell'antagonismo tra schiavi e liberi. I primi, assai numerosi nella società di Corinto, dovevano chiedersi se la loro condizione era compatibile con la santità predicata dall'Apostolo e con la vocazione cristiana. Domanda più che comprensibile sol che si consideri la visione della schiavitù e del lavoro manuale proprie della cultura greca e latina[25]. L'Apostolo risponde che non c'era motivo di rattristarsi, perché la condizione degli schiavi era certamente compatibile con il Vangelo: Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; ma anche se puoi diventare libero, profitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore, è un liberto affrancato del Signore! Similmente chi è stato chiamato libero, è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato (vv. 21-24).

Le parole dell'Apostolo sono tanto più eloquenti se si tiene presente che le sue lettere contengono una profonda e ampia dottrina sulla dignità dell'uomo che non mancherà d'influire positivamente sulla concezione sociale del mondo e del lavoro[26]. Ma San Paolo sta ora sviluppando un nuovo argomento, nell'intento di chiarire che in qualsiasi condizione umana, per infima ch'essa possa apparire al giudizio degli uomini, la vita cristiana può essere vissuta in pienezza; dunque uno schiavo, persino quando gli si fosse presentata la possibilità di conquistare la libertà, doveva ritenere preferibile rimanere nella condizione precedente[27]. -Dovette essere grande la gioia provata da questi uomini ridotti in schiavitù nel venire accettati come cittadini di pieno diritto nella comunità cristiana e nel vedersi trattare come fratelli e sorelle dagli uomini liberi-[28].

Nei vv. 22-23 San Paolo offre la giustificazione teologica dell'insegnamento proposto. E' la liberazione dal peccato e il compimento dei comandamenti di Cristo a nobilitare l'uomo e dar senso alla sua condizione. Chi è stato chiamato schiavo nel Signore conquista allora la vera libertà, la libertà dei figli di Dio; e chi era libero al momento di ricevere la chiamata, consegue l'unica schiavitù degna dell'uomo, divenendo servo di Cristo. E' il paradosso del soprannaturale, che mette in rilievo il vero senso di ogni realtà: la sua relazione a Cristo. Perché allora cercar di cambiare il proprio stato? La maggior pienezza di vita cristiana non è radicata nelle peculiarità esterne, sebbene in esse si debba poi realizzare. Siamo tutti uguali davanti a Dio (cfr. Gal 3,28; Col 3,11).

La possibilità di vivere in modo nuovo nella propria condizione, prosegue l'Apostolo, è stata acquistata a caro prezzo, a prezzo del sangue di Cristo, grazie al quale l'uomo, non più preda di prospettive meramente umane, può guadagnare l'orizzonte soprannaturale. Centrata così la questione, San Paolo può concludere ripetendo con gioia per la terza volta: Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato (v. 24).

Conclusione

Non possiamo soffermarci nel presente studio sul profondo contenuto teologico e morale racchiuso nell'insegnamento tracciato dall'Apostolo delle genti in 1Cor 7,17-24. Ci sembra tuttavia di poter concludere adeguatamente con l'affermazione che il testo esaminato riassume una delle questioni che più appassionavano il cuore ardente d'amor di Dio di San Paolo. L'idea che la situazione umana ordinaria di ogni uomo è parte del disegno salvifico di Dio; che la vocazione umana e la vocazione divina non sono estranee, ma s'intrecciano in modo tale che in genere la vocazione cristiana dev'essere vissuta proprio nelle circostanze in cui l'uomo è condotto dalle vicissitudini della vita.

Il Fondatore dell'Opus Dei, animato dallo spirito di San Paolo, che altro non è che lo spirito divino, incitava con analoghe parole a una condotta radicalmente fedele alla vocazione cristiana e alla vocazione professionale: -lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. E' in mezzo alle cose più materiali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini (...). Dovete (...) comprendere adesso —con una luce tutta nuova— che Dio vi chiama per servirlo nei compiti e attraverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un'università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro. Dio ci aspetta ogni giorno. Sappiatelo bene: c'è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle azioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire-[29].

MICHELE A. TABET

Ordinario di Sacra Scrittura

nel Centro Accademico Romano

della Santa Croce

[1] E' piuttosto sorprendente la scarsa attenzione prestata al testo paolino da alcuni autori, al momento di studiare la vita dei primi cristiani. E' il caso, per esempio, dell'accreditato libro di L. Cerfaux, Le chrétien dans la théologie paulinienne, Ed. du Cerf, Paris 1962.

[2] E' quanto ha evidenziato Giovanni Paolo II nell'Enciclica sul lavoro umano Laborem exercens, del 14-IX-1981, n. 26. Ivi afferma: -Gli insegnamenti dell'Apostolo delle Genti hanno, come si vede, un'importanza-chiave per la morale e la spiritualità del lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo grande, anche se discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo e nelle sue parabole, in ciò che Gesù fece e insegnò- (At 1, 1).

[3] Cost. dogm. Lumen gentium, n. 31. Ci sembra doveroso indicare nel presente scritto la viva luce proiettata sulla teologia del lavoro e del laicato dall'insegnamento e dall'apostolato del Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer. Tra le autorevoli testimonianze proposte da diverse personalità ecclesiastiche, eccelle quella di Giovanni Paolo II. Le parole da lui pronunciate il 19 agosto 1979, durante l'omelia di una Messa celebrata per un folto gruppo di membri dell'Opus Dei, sono particolarmente significative per l'argomento in esame: -La vostra istituzione —egli affermava— ha come fine la santificazione della vita rimanendo nel mondo, sul proprio posto di lavoro e di professione: vivere il Vangelo nel mondo, pur vivendo immersi nel mondo, ma per trasformarlo e redimerlo col proprio amore a Cristo! Grande ideale, veramente, il vostro, che fin dagli inizi ha anticipato quella teologia del Laicato, che caratterizzò poi la Chiesa del Concilio e del post-Concilio- (Insegnamenti, II,2 (1979) p. 142). Altre testimonianze in J.L. Illanes, La santificazione del lavoro, Ed. Ares, Milano 1981, pp. 5-8. Il libro espone magistralmente la dottrina sul valore soprannaturale del lavoro predicata dal Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, cui devo quanto di positivo ho potuto comprendere sull'argomento del nostro studio.

[4] E. Walter, Der erste Brief an die Corinther, nella serie -Geistliche Schiflesung-, Patmos, Düsseldorf 1969. Nostra traduzione dalla versione spagnola, Herder, Barcellona 1977, p. 104.

[5] Il testo dice letteralmente: fuori di questi casi, come il Signore ha assegnato a ciascuno, come Dio ha chiamato, così cammini.

[6] C. Spicq, Épitres aux Corinthiens, in L. Pirot-A. Clamer, La Saint Bible, t. XI, 2 partie, Letouzey et Ané, Paris 1948, p. 218.

[7] Cfr. J. Jacono, Le epistole di San Paolo ai Romani, ai Corinti e ai Galati, Marietti 1952, in La Bibbia diretta da S. Garofalo, p. 315.

[8] Analysis philologica Novi Testamenti, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1966.

[9] Cfr. J. Leal, Primera carta a los Corintios, in La Sagrada Escritura, -Nuevo Testamento-, t. II, BAC, Madrid 1975, p. 392.

[10] Ciò richiedeva una curiosa operazione medica. Cfr. 1 Mac 1,15; 2 Mac 14.9 s.; 4 Mac 5,2 (scritto apocrifo); Flavio Giuseppe, Antiquitates Iudaicae 12,5,1; ecc.

[11] Letteralmente: ciascuno, nella vocazione in cui fu chiamato, in essa rimanga. L'enfasi è evidente, soprattutto nell'espressione en tautê (in essa).

[12] E. Walter, o.c., p. 124 (nostra traduzione).

[13] Nel Nuovo Testamento, il termine klêsis è sempre riferito alla vocazione cristiana. Così avviene negli altri otto passi paolini in cui il vocabolo ricorre: Rm 11,19; 1 Cor 1,26; Ef 1,18; 4,1; 4,4; Fil 3,14; 2 Ts 1,11; 2 Tim 1,9. Tuttavia, il testo di 1 Cor 1,26 sembra collocarsi sulla linea del versetto (1 Cor 7,20) oggetto del nostro studio. Ritorneremo più avanti sull'argomento.

[14] Nella letteratura greca a noi nota il termine appare in Aristofane, in Senofonte, in Platone, nei papiri, nei LXX e nella letteratura antica. E' scarsamente attestato il significato di -denominazione- o di -nome-; più frequente è quello di -invito-. Tale è il senso dei tre luoghi in cui la parola ricorre nei LXX (Gdt 12,10; 3 Mac 5,14; Ger 31,6); l'uso religioso del vocabolo è comune (cfr K.L. Schmidt, Klêsis, in ThWNT, ed. italiana, Paideia, Brescia 1968, IV, 1469; Stephanus, Thesaurus linguae graecae, Paris 1865 ss.). Un testo di Dionigi d'Alicarnasso, Ant. Rom. 4,18,2 presenta un significato per noi interessante. Vi si legge infatti: -Si tennero dunque sei symmorïai, dette dai Romani "classi", dal greco klêsis-. Sebbene non manchino autori, come A. Debrunner e lo stesso K.L. Schmidt, che considerano infondata l'etimologia proposta da Dionigi, lessicografi illustri come F. Zorell, nel Lexicon Graecum Novi Testamenti (voce: klêsis), recepiscono la spiegazione di Dionigi. Zorell vi ricorre al momento di interpretare 1 Cor 7,20: -"in eo vitae genere seu statu in quo (ad fidem christianam) vocatus est"... fortasse etiam 1 Cor 1,16 huc revocari potest-.

[15] Per una visione d'insieme sull'atteggiamento di fronte al lavoro nella storia della spiritualità, cfr. J.L. Illanes, o.c., pp. 30-38.

[16] In Ep. I ad Cor., omelia XIX: MG LXI, 155-156. Per altre testimonianze patristiche, cfr. W. Schwer, art. Beruf, in Reallexicon für Antike und Christentum, II, 153-156.

[17] In Epist. I ad Cor., 111: ML 159 B.

[18] In Epist. ad Cor., cap. 7: ML 181, 880 D-881 A. Altre testimonianze medioevali sono reperibili in N. Paulus, Die Wertung der weltlichen Berufe im Mittelalter: Hist. Jahrbuch 32 (1911), 725-755; Zur Geschichte des Wortes Beruf: Hist. Jahrbuch 45 (1925), 308-316; Der Berufsgedanke bei Thomas von Aquin: Zeitschr. f. Kath. Theologie 50 (1926), 445-454.

[19] Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1980, p. 255. Leggiamo alcuni commenti recenti: -Unusquisque in qua vocatione...; unusquisque in quocumque vitae genere, ordine et conditione maneat, in qua erat, cum vocatus est. Intellige de statu honesto, licito, inculpato- (C. A Lapide, In Epist. I ad Cor. VII, 20; -Répétition du principe: Que chacun demeure dans la condition extérieure où il était lorsqu'il a été appelé à la fois. Juifs et païens ont été sauvés dans des circonstances extérieures diverses, mais, puisque la grâce les atteints les uns et les autres dans tel ou tel état (cfr. l'emphase de en taúte), il n'y a pas à renier ce dernier, quel qu'il soit. C'est la sagesse même!- (C. Spicq, o.c., p. 219). -Qui l'accento non è posto sulla "dignità" della vita da condurre, ma sulla "circostanza". Si tratta della relazione tra la nuova chiamata di salvezza e il primiero stato di vita- (G. Greganti, La vocazione individuale nel Nuovo Testamento, Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, p. 178). -Per il valore di klêsis si cfr. il v. 24 e non si avrà difficoltà ad ammettere, con tutti gli antichi e la maggioranza dei recenti, che S. Paolo consigli a ciascuno "di rimanere in qualsiasi genere di vita, ordine o condizione in cui ha ricevuto la fede" (Teofilatto)- (V. Jacono, o.c., p. 316). -(Klêsis) no designa aquí la vocación o acto divino que nos llama a ser cristiano, sino la que cada uno debe realizar aceptando su situación propia y viviéndola cristianamente. Por eso hemos traducido por "estado" condición o profesión- (J. Leal, Primera epístola a los Corintios, in AA.VV., La Sagrada Escritura, BAC, Madrid 1965, 2ª ed., p. 392). Sulla stessa linea sono le traduzioni più diffuse della Bibbia.

[20] In relazione alla lettura del testo proposta dai riformatori, occorre rilevare che l'assiduo ricorso di Lutero e Calvino a 1 Cor 7,20 è senz'altro legato all'impostazione dottrinale complessiva della riforma. Lutero ha certamente tradotto con -Beruf- il termine klêsis, dandogli il significato di -Berufung- (classe, professione), come indica K.L. Schmidt nella voce Klêsis, in ThWNT, nota 1. Tuttavia, Lutero non intendeva affatto parlare di santificazione del lavoro: non poteva infatti vedere nelle attività umane un mezzo di santità, senza rinnegare il principio della -sola fides- che giustifica; il suo intento era piuttosto di dimostrare, nell'ambito della polemica condotta contro l'-otium- monastico, che alla vocazione doveva essere riconosciuto un carattere meramente secolare. Lutero valorizzò così in apparenza la vita secolare, ma a costo della radicale svalutazione dell'operare umano in ordine alla giustificazione e alla salvezza. Svalutazione che approdava alla pretesa di scindere le opere profane dalle opere caratteristiche della pietà religiosa. Quanto di positivo sembrava esserci nel rifiuto di Lutero di restringere il concetto di opera buona alle orazioni recitate in chiesa, al digiuno, all'elemosina, ecc., era annullato dalla pretesa di emancipare l'attività umana da qualsiasi giudizio espresso alla luce del Vangelo. Ancor più lontano va Calvino, che considera sì la professione come una vocazione, ma opera una rottura insanabile tra operare umano e salvezza, aprendo la strada alla totale svincolazione del primo dai valori trascendenti (cfr. G. Angelini, Lavoro, in -Nuovo Dizionario di Teologia-, Ed. Paoline, Roma 1982, pp. 704-706); cfr. anche P. Rodríguez, El mundo como tarea moral, in -Studium-, Instituto Pontificio de Teología, Madrid 1981, pp. 423-427. J.L. Illanes, o.c., pp. 51-52 chiarisce che né Lutero né Calvino -giunsero a scoprire il valore santificante del lavoro, anzi contribuirono molto a rendere difficile questa scoperta: la concezione del peccato originale come corruzione totale della natura umana e l'ostinatezza nel negare il carattere meritorio dinanzi a Dio di ogni opera umana, compiuta persino in stato di grazia, chiudevano in realtà ogni apertura di progresso in questa direzione (...). Il dualismo che entrambi teorizzarono —da un lato, la giustificazione per mezzo della sola fides e la predestinazione, dall'altro, il lavoro inteso come servizio ma privo di valore davanti a Dio— diede avvio nello sviluppo successivo a quella scissione tra pietismo individualista e umanesimo senza radici teologali i cui effetti si avvertono ancora ai nostri giorni-.

[21] Cfr. K.L. Schmidt, o.c., nota 1 e 6.

[22] Die Geschichte des Wortes Beruf, in K. Holl, Gesammelte Aufsätze zur Kirchengeschichte, III, 190. Citato da K.L. Schmidt, o.c., nota 1.

[23] K.V. Truhlar, Il lavoro cristiano (Per una teologia del lavoro), cap. XXI, p. 196, Ed. Herder, 1966. Traduzione italiana dall'originale latino, Labor christianus (-Initiatio in theologiam spiritualem systematicam de labore-), Herder, Romae-Friburgi-Barcinonae 1961.

[24] Ibidem, p. 197.

[25] La cultura greca distingueva, a livello teorico e pratico, tra lavoro manuale e attività speculativa. Il risultato era l'associazione, clamorosa in Platone, tra attività intellettuale e condizione di libertà, da un lato, e attività manuale e condizione servile, dall'altro. Di qui il disprezzo per il lavoro manuale, contrapposto alla stima per le arti liberali, proprie dell'uomo libero. La situazione nella cultura latina era analoga (cfr. G. Angelini, Lavoro, in -Nuovo Dizionario di Teologia-, Ed. Paoline, Roma 1982, p. 704).

[26] Sull'argomento cfr. S. Alvarez Turienzo, Doctrina social cristiana (Esclavitud III), in GER, Madrid 1984, t. VIII, pp. 782-783. Si veda la Bibliografia ivi citata. Valgano a inquadrare l'argomento le parole di J. Ramlot: -Né Gesù né Paolo formularono teorie sociali volte a correggere le storture del mondo antico. Ciò nonostante, assumendo entrambi la condizione di lavoratore e di servitore conferirono all'uomo una dignità, una speranza e un potere altrimenti insospettati: con il lavoro e la sofferenza gli scaricatori di Corinto o gli schiavi dei Cesari redimevano il mondo, facessero quel che facessero, e lavoravano per essere accetti non agli uomini ma a Dio (Col 3,23), come "collaboratori di Dio". Niente proclami rivoluzionari, ma un esempio di servizio totale e uno spirito di fraternità effettiva e universale: ecco la nuova giustizia sorta nel mondo antico: una giustizia che non esige tutti i propri diritti e non elimina la follia della croce. Nel Discorso della montagna venne proposto agli uomini un superamento della stretta giustizia, che, lungi dal ledere il prossimo o l'equità, consiste sempre nel fare di più e meglio (Mt 20,1-16)- (L. Ramlot, in AA. VV., Enciclopedia de la Biblia, Ed. Garriga, Barcelona 1963, vol. 6, col. 1075).

[27] La frase tradotta dall'edizione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana ma anche se puoi diventare libero, profitta piuttosto della tua condizione! (Vg.: magis utere) ha conosciuto diverse interpretazioni. Lutero, Calvino e non pochi teologi protestanti (Godet, Hofmann, Robertson, Plummer) ed anche alcuni cattolici (C. A Lapide, Calmet, Ricciotti) hanno visto nell'espressione un inciso che limita il principio di non cambiare di stato o di condizione. Essi propongono di tradurre: tuttavia, se puoi guadagnare la condizione di libero, approfitta dell'opportunità. Ma l'esegesi opposta pare preferibile, alla luce della spiegazione tradizionale e della struttura grammaticale della frase. Ad essa aderiscono tutti i Padri greci, l'Ambrosiaster, San Tommaso, Allo, Spicq, ecc. La stessa lettura è suggerita dall'accezione assunta dal termine greco alla (cfr. anche Gv 16,2; 2 Cor 7,11) assieme alla congiunzione concessiva ei kai (anche se), ben diversa da kai ei (e se); in tal senso depongono anche il nesso con il versetto seguente e la migliore congruenza con il contesto. Infatti il consiglio di approfittare dell'occasione per recuperare la libertà spezzerebbe il normale corso della frase e richiederebbe almeno una giustificazione da parte di San Paolo. L'imperativo chrêsai (utere) non solleva difficoltà: l'imperativo aoristo indica la qualità dell'azione, l'azione in se stessa, non il tempo. San Tommaso commenta: -Maneas in servitute, quoniam causa est humilitatis. Et sicut ait Ambrosius: quanto quis despectior est in hoc saeculo propter Dominum, tanto magis exaltabitur in futuro. Gregorius: Quanto quis Deo pretiosior est, tanto propter eum utilior. Boetius: cum omnis fortuna timenda sit, magis tamen prospera quam adversa- (In Ep. I ad Cor., c. VII, lect. IV). Cfr. C. Spicq, o.c., pp. 219-220; V. Jacono, o.c., p. 316.

[28] E. Walter, o.c., p. 124 (nostra traduzione).

[29] J. Escrivá, Colloqui, nn. 113 e 114, 4ª ed., Ares, Milano 1982. Sono parole pronunciate nell'omelia della Messa celebrata nell'ottobre 1967 a Pamplona, nel -campus- dell'Università di Navarra, dinanzi a 40.000 persone circa. Testi analoghi sono reperibili in J.L. Illanes, o.c., pp. 69 ss.

Romana, n. 6, Gennaio-Giugno 1988, p. 169-176.

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