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Discorso nell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana, Sala Clementina, Vaticano (21-I-2012)

Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

È per me motivo di gioia ricevervi oggi nell’annuale incontro, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Rivolgo il mio saluto al Collegio dei Prelati Uditori, a iniziare dal Decano, Mons. Antoni Stankiewicz, che ringrazio per le sue parole. Un cordiale saluto anche agli Officiali, agli Avvocati, agli altri collaboratori, e a tutti i presenti. In questa circostanza rinnovo la mia stima per il delicato e prezioso ministero che svolgete nella Chiesa e che richiede un sempre rinnovato impegno per l’incidenza che esso ha per la salus animarum del Popolo di Dio.

Nell’appuntamento di quest’anno, vorrei partire da uno degli importanti eventi ecclesiali, che vivremo tra qualche mese; mi riferisco all’Anno della fede, che, sulle orme del mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, ho voluto indire nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Quel grande Pontefice — come ho scritto nella Lettera apostolica di indizione — stabilì per la prima volta un tale periodo di riflessione “ben cosciente delle gravi difficoltà del tempo, soprattutto riguardo alla professione della vera fede e alla sua retta interpretazione”[1].

Riallacciandomi a una simile esigenza, passando all’ambito che più direttamente interessa il vostro servizio alla Chiesa, oggi vorrei soffermarmi su un aspetto primario del ministero giudiziale, ovvero l’interpretazione della legge canonica in ordine alla sua applicazione[2].

Il nesso con il tema appena accennato — la retta interpretazione della fede — non si riduce certo a una mera assonanza semantica, considerato che il diritto canonico trova nelle verità di fede il suo fondamento e il suo stesso senso, e che la lex agendi non può che rispecchiare la lex credendi. La questione dell’interpretazione della legge canonica, peraltro, costituisce un argomento assai vasto e complesso, dinanzi al quale mi limiterò ad alcune osservazioni.

Anzitutto l’ermeneutica del diritto canonico è strettamente legata alla concezione stessa della legge della Chiesa.

Qualora si tendesse a identificare il diritto canonico con il sistema delle leggi canoniche, la conoscenza di ciò che è giuridico nella Chiesa consisterebbe essenzialmente nel comprendere ciò che stabiliscono i testi legali. A prima vista questo approccio sembrerebbe valorizzare pienamente la legge umana. Ma risulta evidente l’impoverimento che questa concezione comporterebbe: con l’oblio pratico del diritto naturale e del diritto divino positivo, come pure del rapporto vitale di ogni diritto con la comunione e la missione della Chiesa, il lavoro dell’interprete viene privato del contatto vitale con la realtà ecclesiale.

Negli ultimi tempi alcune correnti di pensiero hanno messo in guardia contro l’eccessivo attaccamento alle leggi della Chiesa, a cominciare dai Codici, giudicandolo, per l’appunto, una manifestazione di legalismo. Di conseguenza, sono state proposte delle vie ermeneutiche che consentono un approccio più consono con le basi teologiche e gli intenti anche pastorali della norma canonica, portando a una creatività giuridica in cui la singola situazione diventerebbe fattore decisivo per accertare l’autentico significato del precetto legale nel caso concreto. La misericordia, l’equità, l’oikonomia così cara alla tradizione orientale, sono alcuni dei concetti a cui si ricorre in tale operazione interpretativa. Conviene notare subito che questa impostazione non supera il positivismo che denuncia, limitandosi a sostituirlo con un altro in cui l’opera interpretativa umana assurge a protagonista nello stabilire ciò che è giuridico. Manca il senso di un diritto oggettivo da cercare, poiché esso resta in balìa di considerazioni che pretendono di essere teologiche o pastorali, ma alla fine sono esposte al rischio dell’arbitrarietà. In tal modo l’ermeneutica legale viene svuotata: in fondo non interessa comprendere la disposizione della legge, dal momento che essa può essere dinamicamente adattata a qualunque soluzione, anche opposta alla sua lettera. Certamente vi è in questo caso un riferimento ai fenomeni vitali, di cui però non si coglie l’intrinseca dimensione giuridica.

Esiste un’altra via, in cui la comprensione adeguata della legge canonica apre la strada a un lavoro interpretativo che s’inserisce nella ricerca della verità sul diritto e sulla giustizia nella Chiesa. Come ho voluto far presente al Parlamento Federale del mio Paese, nel Reichstag di Berlino[3], il vero diritto è inseparabile dalla giustizia. Il principio vale ovviamente anche per la legge canonica, nel senso che essa non può essere rinchiusa in un sistema normativo meramente umano, ma deve essere collegata a un ordine giusto della Chiesa, in cui vige una legge superiore. In quest’ottica la legge positiva umana perde il primato che le si vorrebbe attribuire, giacché il diritto non si identifica più semplicemente con essa; in ciò, tuttavia, la legge umana viene valorizzata in quanto espressione di giustizia, anzitutto per quanto essa dichiara come diritto divino, ma anche per quello che essa introduce come legittima determinazione di diritto umano.

In tal modo, si rende possibile un’ermeneutica legale che sia autenticamente giuridica, nel senso che, mettendosi in sintonia con il significato proprio della legge, si può porre la domanda cruciale su quel che è giusto in ciascun caso. Conviene osservare, a questo proposito, che per cogliere il significato proprio della legge occorre sempre guardare alla realtà che viene disciplinata, e ciò non solo quando la legge sia prevalentemente dichiarativa del diritto divino, ma anche quando introduca costitutivamente delle regole umane. Queste vanno infatti interpretate anche alla luce della realtà regolata, la quale contiene sempre un nucleo di diritto naturale e divino positivo, con il quale deve essere in armonia ogni norma per essere razionale e veramente giuridica.

In tale prospettiva realistica, lo sforzo interpretativo, talvolta arduo, acquista un senso e un obiettivo. L’uso dei mezzi interpretativi previsti dal Codice di Diritto Canonico nel canone 17, a cominciare dal “significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto”, non è più un mero esercizio logico. Si tratta di un compito che è vivificato da un autentico contatto con la realtà complessiva della Chiesa, che consente di penetrare nel vero senso della lettera della legge. Accade allora qualcosa di simile a quanto ho detto a proposito del processo interiore di Sant’Agostino nell’ermeneutica biblica: “il trascendimento della lettera ha reso credibile la lettera stessa”[4]. Si conferma così che anche nell’ermeneutica della legge l’autentico orizzonte è quello della verità giuridica da amare, da cercare e da servire.

Ne segue che l’interpretazione della legge canonica deve avvenire nella Chiesa. Non si tratta di una mera circostanza esterna, ambientale: è un richiamo allo stesso humus della legge canonica e delle realtà da essa regolate. Il sentire cum Ecclesia ha senso anche nella disciplina, a motivo dei fondamenti dottrinali che sono sempre presenti e operanti nelle norme legali della Chiesa. In questo modo, va applicata anche alla legge canonica quell’ermeneutica del rinnovamento nella continuità di cui ho parlato in riferimento al Concilio Vaticano II[5], così strettamente legato all’attuale legislazione canonica. La maturità cristiana conduce ad amare sempre più la legge e a volerla comprendere e applicare con fedeltà.

Questi atteggiamenti di fondo si applicano a tutte le categorie di interpretazione: dalla ricerca scientifica sul diritto canonico, al lavoro degli operatori giuridici in sede giudiziaria o amministrativa, fino alla ricerca quotidiana delle soluzioni giuste nella vita dei fedeli e delle comunità. Occorre spirito di docilità per accogliere le leggi, cercando di studiare con onestà e dedizione la tradizione giuridica della Chiesa per potersi identificare con essa e anche con le disposizioni legali emanate dai Pastori, specialmente le leggi pontificie nonché il magistero su questioni canoniche, il quale è di per sé vincolante in ciò che insegna sul diritto[6]. Solo in questo modo si potranno discernere i casi in cui le circostanze concrete esigono una soluzione equitativa per raggiungere la giustizia che la norma generale umana non ha potuto prevedere, e si sarà in grado di manifestare in spirito di comunione ciò che può servire a migliorare l’assetto legislativo.

Queste riflessioni acquistano una peculiare rilevanza nell’ambito delle leggi riguardanti l’atto costitutivo del matrimonio e la sua consumazione e la ricezione dell’Ordine sacro, e di quelle attinenti ai rispettivi processi. Qui la sintonia con il vero senso della legge della Chiesa diventa una questione di ampia e profonda incidenza pratica nella vita delle persone e delle comunità e richiede una speciale attenzione. In particolare, vanno anche applicati tutti i mezzi giuridicamente vincolanti che tendono ad assicurare quell’unità nell’interpretazione e nell’applicazione delle leggi che è richiesta dalla giustizia: il magistero pontificio specificamente concernente questo campo, contenuto soprattutto nelle Allocuzioni alla Rota Romana; la giurisprudenza della Rota Romana, sulla cui rilevanza ho già avuto modo di parlarvi[7]; le norme e le dichiarazioni emanate da altri Dicasteri della Curia Romana. Tale unità ermeneutica in ciò che è essenziale non mortifica in alcun modo le funzioni dei tribunali locali, chiamati a confrontarsi per primi con le complesse situazioni reali che si danno in ogni contesto culturale. Ciascuno di essi, infatti, è tenuto a procedere con un senso di vera riverenza nei riguardi della verità sul diritto, cercando di praticare esemplarmente, nell’applicazione degli istituti giudiziali e amministrativi, la comunione nella disciplina, quale aspetto essenziale dell’unità della Chiesa.

Avviandomi alla conclusione di questo momento di incontro e di riflessione, vorrei ricordare la recente innovazione — a cui ha fatto riferimento Mons. Stankiewicz — in forza della quale sono state trasferite a un Ufficio presso codesto Tribunale Apostolico le competenze circa i procedimenti di dispensa dal matrimonio rato e non consumato e le cause di nullità della sacra Ordinazione[8]. Sono certo che vi sarà una generosa risposta a questo nuovo impegno ecclesiale.

Nell’incoraggiare la vostra preziosa opera, che richiede un fedele, quotidiano e impegnato lavoro, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria, Speculum iustitiae, e volentieri vi imparto la Benedizione Apostolica.

[1] BENEDETTO XVI, Motu pr. Porta fidei, 11-X-2011, n. 5: L’Osservatore Romano, 17-18-X-2011, p. 4

[2] Cfr. can. 16, § 3 CIC; can. 1498, § 3 CCEO.

[3] Cfr. BENEDETTO XVI, Discorso al Parlamento Federale della Repubblica Federale di Germania, 22-IX-2011: L’Osservatore Romano, 24-IX-2011, pp. 6-7.

[4] Cfr. BENEDETTO XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 30-IX-2010, 38: AAS 102 (2010), p. 718, n. 38.

[5] Cfr. BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia Romana, 22-XII-2005: AAS 98 (2006), pp. 40-53.

[6] Cfr. BEATO GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Rota Romana, 29-I-2005, 6: AAS 97 (2005), pp. 165-166.

[7] Cfr. BENEDETTO XVI, Allocuzione alla Rota Romana, 26-I-2008: AAS 100 (2008), pp. 84-88.

[8] Cfr. BENEDETTO XVI, Motu pr. Quaerit semper, 30-VIII-2011: L’Osservatore Romano, 28-IX-2011, p. 7.

Romana, n. 54, Gennaio-Giugno 2012, p. 19-23.

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