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Nella Messa in suffragio di Mons. Álvaro del Portillo, Basilica di Sant’Eugenio, Roma (23-III-2011)

Cari fratelli e sorelle!

1. “Scio quod Redemptor meus vivit!” (Gb 19,25). Io lo so che il mio Redentore è vivo! Queste parole di Giobbe sono un invito alla speranza. Dobbiamo vivere, agire con la certezza della vittoria definitiva di Gesù sul peccato e sulla morte, che la prossima solennità pasquale ci renderà più presente. Gesù è la roccia più salda della nostra speranza, anche e soprattutto quando ci si presentano circostanze difficili, sia a livello personale o familiare, sia nell’ambito collettivo.

La storia di Giobbe è paradigmatica. Quell’uomo pio, premuroso nell’offrire al Signore sacrifici per i peccati ed elemosine ai bisognosi, all’improvviso comincia a subire ogni sorta di mali: dalla morte di tutti i figli alla sua completa rovina, alla malattia, al disprezzo con cui lo trattano le persone a lui più vicine. Come spiega il Papa in una delle sue Encicliche, “certo Giobbe può lamentarsi di fronte a Dio per la sofferenza incomprensibile, e apparentemente ingiustificabile, presente nel mondo”[1].

Anche noi, davanti alle sofferenze di cui siamo spesso testimoni, potremmo essere tentati di reagire allo stesso modo: non potrebbe Dio, che è onnipotente, eliminare alla radice il male fisico e morale, soprattutto quello che colpisce gli innocenti? Come può permetterlo? Il Santo Padre sottolinea che “spesso non ci è dato di conoscere il motivo per cui Dio trattiene il suo braccio invece di intervenire. Del resto, Egli neppure ci impedisce di gridare, come Gesù in croce: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’ (Mt 27,46)”[2].

Il libro di Giobbe non risolve il problema del dolore, ma ci incoraggia all’abbandono fiducioso nelle mani del nostro Padre celeste. Come diceva spesso San Josemaría, “Dio ne sa di più!”. E tante volte — sempre! — quello che in un primo momento poteva sembrare assurdo, se ci sforziamo di scoprire la Provvidenza divina dietro alle apparenze, si risolve alla fine in qualcosa di buono. Anche Giobbe, pur senza comprendere il motivo delle sue disgrazie, accetta la Volontà di Dio e fa quell’atto di fede che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Io lo so che il mio Redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero” (Gb 19,25-27).

2. Queste considerazioni sono e saranno sempre di grande attualità. Di fronte agli eventi dolorosi di cui siamo stati testimoni nelle ultime settimane, solo la fede in Dio nostro Padre è in grado di gettare un po’ di luce su queste vicende umane. In realtà, come insegna il Concilio Vaticano II, solo “per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Cristo è risorto, distruggendo la morte con la sua morte, e ci ha donato la vita, affinché, figli nel Figlio, esclamiamo nello Spirito: ‘Abba, Padre!’”[3].

Abbiamo ancora ben presenti le immagini della tragedia sofferta dal Giappone a causa dell’immane terremoto e dello tsunami successivo. Nessuno di noi è rimasto indifferente di fronte a fatti che hanno sconvolto la vita di milioni di persone. Abbiamo pregato e continuiamo a pregare per le vittime, per le loro famiglie e per tutte le persone coinvolte nella sciagura.

Queste catastrofi naturali, come anche le guerre che affliggono tante popolazioni inermi (in Costa d’Avorio, in Libia, ecc., per ricordarne soltanto alcune), possono e devono servirci anche per alzare gli occhi al cielo e fissarli nella nostra dimora definitiva, il Paradiso, dove — come insegna la Sacra Scrittura — il Signore stesso “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).

È umanamente logico che simili tragedie ci tocchino nel profondo del cuore e risveglino in noi — come in Giobbe — la domanda del perché. Ma, allo stesso tempo, è soprannaturalmente logico che ci aggrappiamo con più forza alla fede. “La nostra protesta — scrive Benedetto XVI — non vuole sfidare Dio, né insinuare la presenza in Lui di errore, debolezza o indifferenza. Per il credente non è possibile pensare che Egli sia impotente, oppure che ‘stia dormendo’ (cfr. 1 Re 18,27). Piuttosto è vero che perfino il nostro gridare è, come le parole di Gesù in croce, il modo estremo e più profondo per affermare la nostra fede nella sua sovrana potestà. I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella ‘bontà di Dio’ e nel ‘suo amore per gli uomini’ (Tt 3,4). Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi”[4].

3. Oggi, l’anniversario del transito del Servo di Dio, Mons. Álvaro del Portillo, ci offre l’occasione di considerare un aspetto della sua ricca personalità cristiana, di sacerdote e vescovo. Mi riferisco al suo grande cuore, che si manifestava nel condividere le sofferenze di quanti gli si avvicinavano e nel comunicare una grande pace alle anime. Sono innumerevoli le testimonianze di persone che, dopo un incontro con il mio amatissimo predecessore, dopo avergli confidato le loro preoccupazioni, hanno sperimentato un profondo sollievo nello spirito e sono tornate a casa con una grande pace nell’anima.

La sorgente che alimentava la pace interiore di don Álvaro e la sua capacità di comunicarla agli altri era proprio la sua profonda fede in Dio Padre misericordioso, e la sua fiducia in Gesù Cristo nostro Salvatore e nell’azione dello Spirito Santo. Alla scuola di San Josemaría, aveva toccato quasi con mano molte volte l’amore di Dio per le sue creature. Sapeva, anche per esperienza personale, che il Signore permette sofferenze, prove, dolori, nella nostra vita, perché vuole che diventiamo più simili al suo Figlio Unigenito, morto sulla Croce per amore nostro.

In un’omelia pronunciata durante una Messa nel Giubileo della Gioventù dell’anno 1984, don Álvaro si esprimeva così: «Una causa di tristezza può essere la sofferenza propria e degli altri: il dolore, la contraddizione, tutto l’insieme di piccole e grandi cose che, nella vita personale e nella storia umana, non sono gradevoli, e alle quali non si riesce a dare una soluzione né un senso umano. Com’è possibile essere allegri di fronte alla malattia e nella malattia, di fronte all’ingiustizia e soffrendo l’ingiustizia? Non sarà forse un’illusione o una scappatoia irresponsabile? No! La risposta viene da Cristo, soltanto da Cristo! Solo in Lui si riesce a trovare il vero senso della vita personale e la chiave della storia umana. Solo in Lui — nella sua dottrina, nella sua Croce redentrice, la cui forza salvifica si fa presente nei sacramenti della Chiesa — troverete sempre l’energia per migliorare il mondo, per farlo più degno dell’uomo, che è immagine di Dio»[5].

Alla scuola di San Josemaría, dicevo poc’anzi, don Álvaro imparò a guardare la passione e morte di Cristo come un atto d’amore, del più grande amore che possono contemplare i secoli, perché è l’amore di Dio fatto uomo. Anche noi, nei giorni della Pasqua, ormai vicini, e sempre, vogliamo seguire la stessa via: la via della Croce. Perché, come fa considerare il Fondatore dell’Opus Dei in un’omelia, “non potremo partecipare alla Risurrezione del Signore se non ci uniamo alla sua Passione e alla sua Morte (cfr. Rm 8,17). Per essere con Cristo nella sua gloria, bisogna che prima aderiamo al suo olocausto per sentirci una sola cosa con Lui, morto sul Calvario”[6]. Meditiamo dunque “su questo Signore, coperto di ferite per amor nostro [...]. La scena che ci presenta questo Cristo ridotto a uno straccio, un corpo martoriato e inerte deposto dalla Croce e affidato a sua Madre, è come il ritratto di una disfatta. Dove sono le folle che lo seguivano? Dov’è il Regno di cui annunciava l’avvento? Ma non è una sconfitta; è una vittoria: ora Egli è più che mai vicino al momento della Risurrezione, della manifestazione della gloria che ha conquistato con la sua obbedienza”[7].

L’amore di Cristo per noi si è manifestato non solo nella morte sulla Croce. “A questo atto di offerta — rileva il Papa — Gesù ha dato una presenza duratura attraverso l’istituzione dell’Eucaristia, durante l’Ultima Cena. Egli anticipa la sua morte e risurrezione donando già in quell’ora ai suoi discepoli nel pane e nel vino sé stesso, il suo corpo e il suo sangue come nuova manna (cfr. Gv 6,31-33)”[8].

Stiamo andando avanti nella Quaresima. Prepariamoci il meglio possibile per partecipare alla grande vittoria di Cristo sul peccato, il dolore e la morte. È il momento di rinnovare i propositi che forse abbiamo fatto all’inizio di questo tempo liturgico: più amore e attenzione nelle nostre preghiere, più perseveranza nel compimento delle piccole mortificazioni, più generosità nell’elargire elemosine e praticare le altre forme di carità. Particolare importanza riveste la fruttuosa ricezione del sacramento della Riconciliazione, mediante una preparazione più accurata e un maggior dolore dei nostri peccati. Cerchiamo di viverlo meglio personalmente e incoraggiamo tante persone a fare altrettanto.

Contempliamo Gesù sofferente sulla Croce, il quale ci assicura che non vuole lasciarci soli nei nostri dolori. Soffre per noi proprio perché ci ama e per insegnarci che non c’è cristianesimo, non c’è vera gioia soprannaturale e umana se non siamo disposti ad abbracciare la Croce quotidie, ogni giorno.

Ricorriamo, come sempre, all’intercessione della Madonna affinché ci ottenga da Gesù, con maggiore abbondanza, la grazia della contrizione. Così sia.

[1] BENEDETTO XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 25-XII-2005, n. 38.

[2] Ibid.

[3] CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 22.

[4] BENEDETTO XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 25-XII-2005, n. 38.

[5] MONS. ÁLVARO DEL PORTILLO, Omelia nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, 12-IV-1984.

[6] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 95.

[7] Ibid.

[8] BENEDETTO XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 25-XII-2005, n. 13.

Romana, n. 52, Gennaio-Giugno 2011, p. 60-64.

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