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Intervista concessa a “Famiglia Cristiana” (20-II-2011)

(raccolta da Alfredo Tradigo)

— Monsignor Echevarría, mettere la Messa al centro della giornata è una bella sfida oggi. Eppure San Josemaría Escrivá, da lei citato nel suo recente libro Vivere la Santa Messa, la pone come condizione per santificarsi giorno dopo giorno, di 24 ore in 24 ore: “È possibile poi avere il pensiero di Dio, lavorare alla Sua presenza come Egli lavorava e amare come Egli amava”. Qual è il segreto per vivere bene la Messa? Come partecipano i fedeli?

La Messa — Sacrificio del Calvario — non è né uno spettacolo a cui si assiste, né un rito esteriore a cui si presenzia. La Messa è azione di Dio, che ci permette di partecipare alla passione, morte e resurrezione di Cristo, non come spettatori o osservatori, ma come coprotagonisti. Per questo nel titolo del libro ho voluto utilizzare il termine “vivere” la Santa Messa, è la parola che meglio esprime il coinvolgimento totale — cioè umano e spirituale — che la Messa richiede.

— A un certo punto nel testo lei parla del rischio del ritualismo nel vivere la Santa Messa. Come ci invita a superarlo?

Ritualismo sarebbe dimenticare il contenuto di ciò che accade. Che cosa faremmo se ci dicessero: “Hai l’occasione di stare sul Calvario accanto a Gesù”? Oppure: “Oggi incontrerai Cristo risorto”? Come andremmo preparati? Ecco una via per combattere il rischio di abitudinarismo sempre presente in tutti noi.

— Lei ha vissuto lunghi anni accanto al Fondatore dell’Opus Dei: che cosa l’ha affascinata di più della sua personalità e del suo carisma?

Sapeva voler bene alle persone in modo straordinario. Riusciva a capire le necessità di ciascuno con quel tipo di intuito che forse solo le madri hanno. A volte gli bastava uno sguardo per capire che una persona stava poco bene. Allo stesso tempo era un vero padre: non c’è nulla che non abbia insegnato a partire dal suo stesso esempio. Penso che — come capitava a tutti — si vedeva che era un sacerdote che cercava sempre il Signore.

— Come celebrava la Messa San Josemaría?

Era consapevole che nell’Eucaristia il protagonista è Cristo, non il sacerdote. Ciò lo conduceva ad adempiere fedelmente le prescrizioni rituali, senza cercare l’originalità, in modo che solo Gesù brillasse, non lui. Ciò lo portava pure ad avere molto a cuore le letture previste dalla Liturgia della parola. Durante la giornata era solito ricordare i testi che aveva letto nella Messa, in particolare il Vangelo, come un alimento per la sua vita spirituale. Spesso diceva che per lui la Messa era un lavoro: uno sforzo alle volte estenuante, tanta era l’intensità con cui la viveva. Il suo raccoglimento era tale che, per chi assisteva, era impossibile non sentire l’invito a vivere appieno quella Messa. Ogni piccolo gesto trasmetteva tutto il senso soprannaturale della celebrazione.

— “Ite Missa est”. La frase di congedo del celebrante verso i fedeli, intraducibile in italiano se non con il semplice “la Messa è finita, andate in pace”, nasconde un significato più profondo. “Missa” significa dimissione, missione. Dopo la Messa ci attendono i compiti della giornata che ci sono stati affidati. Ma che cosa succede realmente nella Messa perché poi uno vada nel mondo “diverso” e “in missione”?

La Messa, in realtà, non finisce con il rito. Essa ci accompagna lungo tutta la giornata. Mentre il cibo materiale ci nutre perché lo trasformiamo in noi, l’Eucaristia come cibo spirituale ci trasforma in Gesù. Così le nostre giornate — unite al Sacrificio dell’Altare — diventano come una continua Messa dedicata a trasformare tutto quello che facciamo — lavoro, riposo, rapporti familiari e sociali — in un’opera gradita a Dio, offerta a Dio per la redenzione di molti.

— Per chi non conosce l’”Opera”, può spiegare in poche parole in che cosa consiste la proposta dell’Opus Dei?

L’Opus Dei nella Chiesa ha il compito di ricordare che tutti noi battezzati siamo chiamati alla santità, attraverso le cose normali della vita. San Josemaría diceva che esiste qualcosa di divino nascosto nelle azioni più comuni e sta a noi scoprirlo. Da questo punto di vista non c’è nessuna azione, nessun lavoro, nessuna occasione sociale e umana retta che sia d’ostacolo all’amicizia con Dio. Anzi, è proprio in questi fatti di tutti i giorni che Dio ci chiama: chi è studente è chiamato a studiare bene; chi è marito o moglie, ad amare molto il coniuge; e così via, fino a tutte le possibili situazioni, ognuno al suo posto, facendo bene quello che deve fare come uomo (o donna) e come fedele cristiano, sempre, come è logico, rinvigorito dalla forza dei Sacramenti.

— La Prelatura dell’Opus Dei può essere paragonata a una grande diocesi globale, diffusa in tutto il mondo e dipendente direttamente dal Santo Padre? Che cosa significa per voi questo legame speciale con Benedetto XVI?

Mi permetta di chiarire che l’affermazione non è esatta. Potrebbe forse portare a qualche malinteso, come se la figura della Prelatura personale fosse una Chiesa particolare separata dalla Chiesa locale: la Prelatura è invece al servizio della comunione nelle Chiese locali, e il lavoro che realizzano i fedeli dell’Opus Dei, laici e sacerdoti, è sempre una collaborazione attiva con ogni diocesi. Per il resto, i fedeli laici dell’Opus Dei, nelle loro diocesi, dipendono anche dal Vescovo locale, esattamente come gli altri cattolici. Poi la Prelatura, come altre realtà pastorali che appartengono alla gerarchia ordinaria della Chiesa, dipende dalla Congregazione dei Vescovi, e la sua dipendenza dal Santo Padre è identica a quella di qualsiasi circoscrizione ecclesiale. Detto questo, certo l’amore e la devozione al Romano Pontefice sono uno dei tratti caratteristici dello spirito della Prelatura. Con tutto il Popolo di Dio, sono molto grato a Benedetto XVI per la sapiente mitezza con cui sta rinvigorendo l’unità della Chiesa e sta offrendo risposte autentiche ai disagi dell’uomo contemporaneo: è un vero e proprio dono per la Chiesa e per il mondo di oggi.

— Dopo il Fondatore San Josemaría Escrivá e il suo successore Álvaro del Portillo, di cui è in atto il processo di beatificazione, da quindici anni lei è il terzo Prelato a dirigere l’Opera: come vive questa eredità di “Santi” e questa responsabilità?

Ho vissuto accanto a loro per molti anni. Quando si vive con persone sante ci si rende conto di quale sia il segreto per la pace del cuore: mantenere un dialogo costante con il Signore. Il che significa che, per quanto possano essere per noi evidenti le nostre lacune, i nostri difetti e le nostre défaillances, Lui sarà sempre al nostro fianco, pronto a colmarle. Questo “fattore Dio” è ciò che fa la differenza nella vita di ogni cristiano, anche nel momento in cui è chiamato a svolgere compiti delicati, rendendolo immune da tante ansie e angosce che invece affliggono l’uomo contemporaneo.

— Ci può raccontare un episodio particolarmente significativo della vita di San Escrivá di cui lei è stato testimone diretto, un fatto, magari “inedito”, che le è rimasto particolarmente nel cuore?

Ho servito la Messa molte volte a San Josemaría. Mi ha fatto impressione la prima volta che mi ha chiesto di pregare perché non si abituasse mai a celebrare quell’azione tanto sublime. In seguito, me lo chiese spesso.

— L’Opus Dei è presente in oltre 65 Paesi nel mondo; in quali direzioni nuove oggi si sta diffondendo la vostra presenza? Avete centri e rapporti con Paesi “difficili” per i cristiani, dove c’è sofferenza e persecuzione come, per esempio, Cina, Israele, Egitto, Pakistan o Iraq?

Con la grazia di Dio, ci sono fedeli e cooperatori dell’Opus Dei nei più svariati scenari. Dal punto di vista apostolico, i grattacieli di Wall Street assomigliano alle favelas: dappertutto c’è una grande sete di Dio. Per questo non sono mai abbastanza i Paesi dove iniziare attività di formazione spirituale. Per quanto riguarda Paesi “difficili”, come dice lei, in Cina ci sono fedeli della Prelatura in diverse città e, come dappertutto, ognuno svolge il proprio lavoro professionale e riceve dall’Opera l’aiuto spirituale che le è proprio. L’anno scorso è iniziato il lavoro apostolico stabile dell’Opus Dei in Indonesia; ci sono anche altri Paesi a maggioranza musulmana in cui l’Opus Dei è presente con centri della Prelatura, ma non ancora negli altri tre che lei menziona, anche se non manca il lavoro apostolico in quei luoghi, grazie al fatto che alcuni fedeli della Prelatura vi si recano per motivi professionali. Non mancano sfide in Medio Oriente (in Terra Santa e in Libano) e in Africa: penso alla Costa d’Avorio, ma anche al Congo, alla Nigeria e a tanti altri luoghi. Dappertutto, i potenziali problemi si superano con una fede vissuta in modo concreto: con un atteggiamento di apertura e di servizio agli altri, nell’interesse del bene comune, con un lavoro santificato. In questo tutti riconoscono un arricchimento che supera le differenze.

— Dal suo punto di vista, come vede la diffusione della fede cattolica nel mondo d’oggi? Quali sono, a suo avviso, i “segni dei tempi”?

Oggi c’è bisogno di testimoni, e ci sarà sempre questo bisogno. Di fronte al relativismo che sembra imperare in Occidente, così come di fronte alle divisioni, alle guerre e alla povertà che affliggono diverse aree del mondo, servono persone in grado di rimboccarsi le maniche e prendersi sulle spalle le sorti dei loro simili. Sembra chiaro che il mondo sta chiedendo ai cristiani e alla Chiesa, si potrebbe dire oggi più che mai, di mostrare la realtà del Vangelo, non nei discorsi o nelle teorie ma nella vita di tutti i giorni. Per questo la diffusione della fede e il cambiamento del mondo iniziano dal cambiamento di sé stessi, dal prendere sul serio il proprio rapporto con Dio. Penso inoltre che i cattolici di oggi siano chiamati a dare una testimonianza della gioia che deriva dall’amicizia personale con Gesù, e che porta ciascuno ad aprirsi all’amicizia e al dialogo sincero con le persone che ha intorno.

— Come era il rapporto del vostro Fondatore con i giovani? E oggi, nelle vostre comunità, come si esprime la presenza giovanile e come considera il tema dell’emergenza educativa, soprattutto in Italia?

Quando San Josemaría fondò l’Opera, aveva intorno a sé soltanto un pugno di giovani studenti universitari e di operai. Per l’Opus Dei le attività formative con i giovani sono una delle sue priorità.

Esistono, in Italia e in tutto il mondo, numerose residenze universitarie e centri culturali in cui tanti ragazzi e ragazze trovano occasioni per crescere umanamente e spiritualmente, per imparare a studiare, a essere buoni amici dei propri amici, ad arricchire la propria personalità, formando anche uno spirito critico vivace e costruttivo, e per comportarsi come figli di Dio. È questa la vera sfida educativa: aiutare i giovani a crescere, a diventare donne e uomini completi, cristiani autentici, perché ognuno di loro poi sia in grado di dare il suo contributo nella società. Direi che tutto questo lavoro di educazione va fatto sempre in collaborazione con le famiglie; infatti — almeno, questa è l’esperienza nell’Opus Dei — di solito sono proprio i genitori a promuovere scuole, club giovanili e tante altre iniziative per l’educazione dei propri figli, come avviene in tante città d’Italia.

Romana, n. 52, Gennaio-Giugno 2011, p. 79-82.

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