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“Il lavoro come una Messa”. Riflessioni sulla partecipazione dei laici al munus sacerdotale negli scritti del Fondatore dell’Opus Dei, di Cruz González-Ayesta

All’origine di questo studio vi sono alcune parole tratte dalla predicazione orale di San Josemaría, il quale, commentando un frammento di una preghiera tradizionale a San Giuseppe — “et operis innocentia tuis sanctis altaris deservire” —, diceva: “Servirlo non solo sull’altare, ma nel mondo intero che per noi è un altare. Tutte le opere degli uomini si fanno come su un altare, e ognuno di voi, in questa unione di anime contemplative che è la vostra giornata, dice in qualche modo la sua Messa, che dura ventiquattro ore, in attesa della Messa successiva che durerà ventiquattro ore, e così sino alla fine della nostra vita”[1]. Infatti, penso che si tratti di una riflessione di grande ricchezza teologica, anche se è formulata, come accade spesso nei testi di San Josemaría, in categorie non teologiche, ma, diremo così, pastorali.

La dottrina teologica che sta dietro a queste parole è, a mio modo di vedere, quella che si riferisce alla partecipazione alla triplice funzione di Cristo da parte dei fedeli laici. Perciò comincerò lo studio con una notazione sulla dottrina magistrale al riguardo. Poi mi occuperò propriamente dei testi di San Josemaría. In alcuni passi il Fondatore dell’Opus Dei si riferisce esplicitamente alla partecipazione dei fedeli laici alla triplice funzione di Cristo[2], ma spesso sintetizza la sua dottrina al riguardo mediante una espressione condensata: vivere con “anima sacerdotale” e “mentalità laicale”. Per capire sino in fondo tale espressione è indispensabile fare un breve esame del termine “lavoro”, per indicare ciò che si definisce come categoria teologica negli scritti del Fondatore dell’Opus Dei.

1. La partecipazione dei fedeli laici al munus sacerdotale[3]

Fino a che punto la dottrina dei tria munera, e in particolare la partecipazione a essi da parte dei fedeli, trova fondamenti solidi nel Nuovo Testamento, nella Tradizione testimoniata dai Padri e nella liturgia è una questione aperta alla discussione teologica. Aurelio Fernández, per esempio, in una sua ampia monografia[4] sostiene che la dottrina dei tria munera dev’essere considerata soltanto come una teoria utile per sistematizzare la missione della Chiesa o quella di Cristo, ma non come uno schema inflessibile che ne escluda altre (per esempio, quella della duplice potestà di ordine e giurisdizione): “Tuttavia, come tenterò di dimostrare in questo libro, né i Padri né i teologi fissarono in un modo unanime la missione di Cristo in tre poteri o funzioni, e dunque neppure riferiscono questa triplice funzione partecipata al ministero ecclesiastico, e ancor meno agli altri battezzati. Soprattutto, la teologia antica è estranea alla teoria del triplice munus così come oggi si prospetta, vale a dire, come elemento soggiacente della cristologia e, in generale, della concezione della Chiesa, che si svilupperebbe grazie al compimento di questi tre uffici”[5]. La sua tesi si oppone a quella formulata trent’anni prima da Paul Dabin[6]. Questo autore difende la presenza continua della dottrina dei tria munera sia negli insegnamenti dei Padri che in quelli della teologia dall’epoca medievale fino al secolo XX: “La triplice funzione è una realtà sublime. La partecipazione a essa da parte dei fedeli non è né una usurpazione né qualcosa di immaginario. È una verità cattolica insegnata dai Padri, dai teologi, dal Catechismo del Concilio di Trento e universalmente utilizzata dalle diverse liturgie”[7]. Dato che questo dibattito supera ampiamente i limiti del presente lavoro, ho deciso di mettere da parte la discussione dei fondamenti biblici e liturgici, incentrando la mia esposizione della dottrina sui testi magisteriali del Concilio Vaticano II. C’è accordo sul fatto che in essi si dà ampio spazio a questa dottrina al momento di descrivere la missione della Chiesa e dei suoi fedeli, siano essi laici o ministri ordinati.

Il Concilio Vaticano II formula esplicitamente per la prima volta[8] la partecipazione dei fedeli alla triplice funzione di Cristo: sacerdotale, profetica e regale. Questa dottrina è intimamente legata, nell’insegnamento del Concilio, a quella del sacerdozio comune dei battezzati, nonché al perfezionamento della vocazione e della missione dei laici in seno alla Chiesa.

La dottrina del Concilio che sto per descrivere brevemente fu preceduta da una vera e propria discussione teologica, soprattutto nell’ambito francofono. Entrare nel dettaglio di tali dibattiti ci allontanerebbe molto dall’obiettivo di questo studio; tuttavia una brevissima descrizione delle questioni disputate può aiutarci a introdurre la dottrina sulla partecipazione ai tria munera Christi. Prenderò come autori di riferimento F. Mugnier, Y. Congar e G. Philips[9].

I testi biblici della cui esegesi si servono questi autori per interpretare come avviene la partecipazione di tutti i fedeli al sacerdozio di Cristo sono molti. Alcuni sono usati da tutti, sebbene gli uni e gli altri differiscano nella loro interpretazione. Mi sto riferendo in modo particolare a tre passi: 1 Pt 2,5 (“Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo”); Rm 12,1 (“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”); e Ap 1,5-6 (“A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”). Forse la questione di fondo di maggior rilievo è la discussione intorno alla relazione che lega tra loro le funzioni sacerdotale, profetica e regale, in modo particolare nei fedeli non ordinati. Mentre Y. Congar tende a considerarle separatamente, F. Mugnier e G. Philips preferiscono mettere in evidenza che il sacerdozio include in qualche modo il munus propheticum e il munus regale.

Congar ritiene che la nozione di sacerdozio si debba affrontare in base alla categoria di sacrificio, anche se ammette che nella tradizione cattolica è stata affrontata in base alla nozione di mediazione. La sua preferenza per la categoria di sacrificio si basa sull’idea che non ogni mediazione è sacerdotale. Propone di distinguere i tipi di sacerdozio a seconda dei tipi di sacrificio: così nei fedeli c’è un duplice sacrificio e un duplice sacerdozio. Da una parte, interpretando i testi citati più sopra, Congar si riferisce all’offerta da parte dei fedeli di ostie spirituali che provengono dalla loro vita secondo lo Spirito. Questo sacrificio e questo sacerdozio (che egli chiama regal-spirituale) sono legati alla grazia e alla vita quotidiana: per l’unione con Cristo attraverso la grazia, il cristiano può offrire la propria vita come sacrificio spirituale in modo che la sua stessa esistenza acquisti una dimensione cultuale: “Il culto, i sacrifici dei fedeli, e dunque il sacerdozio che a questi compete, sono essenzialmente quelli della vita santa, religiosa, orante, consacrata, caritativa, misericordiosa, apostolica. Questo culto, questi sacrifici, il sacerdozio che compete loro, non sono concessi sul piano propriamente liturgico o sacramentale”[10]. D’altra parte c’è la consacrazione che i fedeli ricevono per il culto sacramentale. Questo sacerdozio sacramentale si divide a sua volta in due sacerdozi che differiscono essenzialmente e non solo in grado. Con il sacramento dell’Ordine alcuni fedeli sono abilitati ad amministrare i sacramenti e a celebrare la liturgia (sacerdozio gerarchico o ministeriale); in virtù del carattere battesimale ogni cristiano è abilitato a partecipare al culto liturgico-sacramentale della Chiesa, e in particolare all’Eucaristia (sacerdozio comune o battesimale). In tal modo Congar separa il sacerdozio regal-spirituale dal sacerdozio battesimale. Mentre con il primo tipo di sacerdozio il fedele partecipa alla funzione regale di Cristo, attraverso il sacerdozio battesimale partecipa alla funzione sacerdotale. Congar spiega questa divisione tra sacerdozio regal-spirituale e sacerdozio sacramentale attraverso la distinzione agostiniana tra res e sacramentum. Il sacerdozio regal-spirituale starebbe nell’ordine della res, vale a dire della grazia, mentre il sacerdozio sacramentale rientrerebbe nell’ordine del sacramentum, dei mezzi per raggiungere la grazia[11]. Bisogna dire, tuttavia, che Congar ammette che l’esercizio dei due sacerdozi si “unisce” in qualche modo quando il fedele partecipa all’Eucaristia: “I fedeli offrono sé stessi compiendo una immolazione spirituale (morale) della quale essi stessi sono i sacerdoti, ma che concerne la Messa, sia come contenuto che come frutto. Anche come contenuto, certamente, perché l’Eucaristia è l’offerta dei membri con e nel capo; ma soprattutto come frutto [...]. È necessario dare all’Eucaristia tutta la sua verità in noi, nel quotidiano della nostra vita [...]. Mettere tutta la vita nella Messa, includere la Messa nella vita, è sempre stata [...] la verità più pratica predicata dalla Chiesa ai fedeli in materia di partecipazione eucaristica. In questo modo il sacerdozio spiritual-regale, con il quale ci offriamo come ostie spirituali, si unisce al sacerdozio battesimale con il quale offriamo liturgicamente il sacrificio di Cristo. Avviene una specie di osmosi dall’uno all’altro, di presenza dell’uno nell’altro, dato che, essendo membri dell’assemblea liturgica, ci offriamo con Cristo, completando l’atto del sacerdozio spirituale interiore in quello del nostro sacerdozio battesimale. E subito dopo diamo con la nostra vita tutta la sua realtà alla nostra Messa, completando in tal modo l’atto del nostro sacerdozio battesimale nel sacerdozio spirituale interiore inerente alla nostra esistenza”[12].

Prima di esporre la posizione di Mugnier e di Philips, voglio fare una breve considerazione su questa impostazione. Secondo me, il problema che si prospetta nella distinzione che propone Congar tra sacrificio di giustizia e grazia (spirituale-regale) e sacrificio sacramentale è, per così dire, di ordine cristologico. In breve: come si applica a Cristo tale differenza? Indubbiamente la risposta di Congar — credo — sarebbe che tale distinzione non opera in Cristo, ma nella duplice relazione di Cristo con la Chiesa (come comunione-grazia; come mezzi per questa comunione od ordine sacramentale). Il sacerdozio cristiano, tuttavia, non può essere concepito altro che come partecipazione al sacerdozio di Cristo, e dato che tutta la vita di Cristo è redentrice, e, per così dire, si ricapitola e consuma nel sacrificio della Croce, non si può propriamente distinguere il sacrificio del quotidiano da quello liturgico-cultuale. Se in Cristo tutto il sacrificio è esistenziale (di questo tratterò più avanti), la separazione nel cristiano di due tipi di sacerdozio (il sacerdozio di giustizia o grazia e quello sacramentale) sembra un tantino artificiosa.

A differenza di Congar, sia Mugnier che Philips difendono una concezione unitaria delle tre funzioni di Cristo e, di conseguenza, della partecipazione che a essi ha il fedele laico. In contrapposizione alla divisione tra sacerdozio riguardo alla vita e sacerdozio riguardo al culto (sacerdozio spirituale-regale e, rispettivamente, battesimale), i due autori parlano di un unico sacerdozio dei fedeli. Philips fa notare che il sacerdozio dei fedeli è una realtà ontologica, una vera partecipazione alla dignità sacerdotale di Cristo, che si compie in modi diversi nel ministro ordinato e nel laico. Mugnier fa notare, invece, che il sacerdozio trova uno stretto e formale compimento solo nel ministro ordinato e in senso derivato e analogico nel laico. Entrambi gli autori, Mugnier e Philips, mantengono la concezione unitaria anche tra il sacerdozio regale, mediante il quale il cristiano offre ostie spirituali (cfr. 1 Pt 2,5 e 9), e l’abilitazione a partecipare al culto sacramentale, ricevuta con il carattere battesimale. Il fondamento della partecipazione al sacerdozio comune sta nel carattere sacramentale del Battesimo. Mugnier fa notare che il laico partecipa attivamente al culto sacramentale, specialmente nell’Eucaristia, offrendo sé stesso in unione con la Vittima e prendendo come materia del suo sacrificio il proprio dovere, specialmente il lavoro, che si trasforma in una Messa continua[13], così come il dolore e la morte. Anche Philips mette l’accento sul fatto che la piena partecipazione dei fedeli alla liturgia non avviene tanto quando compiono certe funzioni, o sostituiscono il sacerdote in quello che possono fare, ma che il campo di attuazione del loro sacerdozio include sia la vita sacramentale che la vita normale: l’azione dei sacramenti non si limita al momento, ma è rivolta alla totalità dell’esistenza[14].

Restano così delineate alcune questioni sulle quali bisognerà ritornare quando prenderemo in esame la dottrina magisteriale[15]: la relazione fra il sacerdozio e gli uffici profetico e regale, così come la caratterizzazione del sacerdozio comune come sacerdozio regale, o, in altri termini, la relazione fra culto sacramentale e culto esistenziale.

I paragrafi che seguono vogliono solo presentare la dottrina del Concilio e alcuni sviluppi successivi nelle loro linee generali, in modo che si possa capire che cosa s’intende per partecipazione del laico al munus sacerdotale.

Nel secondo capitolo della Lumen gentium, sul popolo di Dio, questo è descritto come un popolo sacerdotale. In questo contesto viene esposta la dottrina del sacerdozio dei fedeli, che nasce dal sacerdozio di Cristo: “Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini, fece del nuovo popolo ‘un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo’”. Subito dopo si riferisce direttamente al sacerdozio comune: “Per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati — dice il Concilio — vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici”[16]. Il sacerdozio dei fedeli rimane caratterizzato come culto spirituale, vale a dire, come un’offerta della propria esistenza che ha nome e valore di sacrificio proprio in virtù dell’unione con Cristo che lo Spirito Santo opera quando si riceve il Battesimo. Attraverso i sacramenti, e prima di tutti il Battesimo, il cristiano fa suo il culto di Cristo, che non è un culto rituale (il culto del Tempio), ma l’offerta di sé stesso in un atto di obbedienza: culto esistenziale. Gesù Cristo istituisce i sacramenti proprio per rendere possibile questa partecipazione e con essi introduce un nuovo ordine rituale, distinto da quello dell’antico Israele, che viene abolito. Questo culto crea un nuovo ordine di sacralità, sicché il culto esistenziale di Cristo diventa culto sacramentale nella Chiesa[17].

Proseguendo con l’esposizione di Lumen gentium, poco più avanti, dopo aver segnalato che la differenza tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale non è di grado, ma è essenziale, la Costituzione mostra qual è la radice del loro reciproco intreccio: “Sono [...] ordinati l’uno all’altro; infatti l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo”. La descrizione concreta del sacerdozio ministeriale e del sacerdozio comune dimostra che il termine “sacerdozio” è preso nel senso ampio, come mediazione, includendo i tre uffici: di santificare, o sacerdotale in senso stretto, profetico e regale: “Il sacerdote ministeriale [...] forma [munus docendi vel propheticum] e regge [munus regendi vel regale] il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo [munus sanctificandi vel sacerdotale]; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti[18], con la preghiera e il ringraziamento [munus sacerdotale], con la testimonianza di una vita santa [munus propheticum], con l’abnegazione e la carità operosa [munus regale]”[19].

Dopo il capitolo terzo, dedicato all’esposizione della costituzione gerarchica della Chiesa, dove si tratta, fra le altre cose, del modo in cui i Vescovi esercitano la triplice funzione di santificare, insegnare e governare, arriva il capitolo quarto dedicato ai laici. In esso, come nel capitolo precedente si era fatto con i Vescovi, si descrive in che modo i fedeli laici partecipano alla triplice funzione di Cristo come sacerdote, profeta e re (Lg, 34-36). Non mi è possibile esporre qui tutta la ricchezza teologica e antropologica racchiusa in questi paragrafi: per esempio, non svilupperò tutto ciò che si riferisce alla libertà cristiana o alla legittima autonomia del creato. Mi interessa, invece, leggere i testi in base all’ottica dell’espressione sacerdotium regale: vale a dire, in base all’intima relazione esistente tra la partecipazione alla funzione di Cristo sacerdote (munus sanctificandi) e la partecipazione alla funzione di Cristo re (munus regendi).

La funzione sacerdotale dei laici è descritta nel paragrafo 34 nei seguenti termini: “I laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo mirabile chiamati e istruiti per produrre frutti dello Spirito sempre più abbondanti. Tutte infatti le loro attività — le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale —, se sono compiute nello Spirito, [...] diventano offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo; nella celebrazione dell’Eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso”[20]. Per compiere la consacrazione del mondo a Dio, di cui parla il paragrafo 34, occorre tuttavia che il fedele laico in ogni questione temporale sia guidato dalla coscienza cristiana, come è indicato nel paragrafo 36 dedicato alla partecipazione alla funzione regale[21]. Tale partecipazione è caratterizzata da una duplice nota: la conoscenza e il rispetto delle leggi proprie di ogni porzione delle realtà temporali, nelle quali il laico è competente allo stesso modo e con la stessa libertà di qualunque altro cittadino; e l’ordinamento di tali realtà alla gloria di Dio, cosa che richiede il compimento delle esigenze di giustizia e carità, oltre che la guarigione dagli effetti del peccato. In entrambi i casi, tanto quando si parla della partecipazione del fedele laico alla funzione regale come della sua partecipazione alla funzione sacerdotale, viene messo in evidenza quello che caratterizza il laico in quanto tale: la secolarità[22].

La secolarità, infatti, comporta che le realtà temporali non siano solo lo scenario dove trascorre la vita dei fedeli laici, ma la materia propria della loro esistenza cristiana. La nozione di secolarità del fedele laico è descritta in questo stesso numero della costituzione, in stretta relazione con la partecipazione alla triplice funzione di Cristo: regale, profetica e sacerdotale. “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”[23]; questa affermazione è chiaramente parallela alla descrizione del modo in cui il laico esercita il suo munus regale. “Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico”[24]; il riferimento allo spirito evangelico, al compito di santificare il mondo e all’immagine del fermento fa pensare al munus sanctificandi che il laico esercita dopo aver ricevuto i sacramenti[25], e non solo nell’ambito del culto, ma nella totalità della sua esistenza: “Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù”[26]. Il riferimento alla funzione profetica appare in seguito: “[I laici] in questo modo manifestino Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità”[27]. Come la partecipazione dei pastori alla triplice funzione è definita dal ministero che ricevono con l’Ordine, la partecipazione dei laici è specificata dalla secolarità.

Segnalare la stretta relazione tra la partecipazione del laico alla triplice funzione e la secolarità ha un particolare interesse quando si tratta di sottolineare ciò che di specifico ha il laico e che lo distingue non solo dal ministro ordinato (una partecipazione al sacerdozio che differisce essenzialmente nell’un caso e nell’altro), ma anche dallo stato religioso (con il quale condivide la condizione di fedele e, pertanto, il sacerdozio comune). La concisa affermazione di Lg, 31 — “Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici” — è sviluppata nel numero 15 della Christifideles laici. Lì si fa una distinzione tra la dimensione secolare che spetta alla Chiesa (e, per conseguenza, a tutti i suoi membri) in virtù della sua missione e l’indole secolare che caratterizza specificamente il fedele laico[28]. L’indole secolare è una realtà ecclesiologica e non un semplice dato sociologico: “Il ‘mondo’ diventa così l’àmbito e il mezzo della vocazione cristiana dei fedeli laici”. Si può dire che il mondo è il luogo nel quale i cristiani esercitano il loro sacerdozio regale. “Dio [...] ha affidato il mondo agli uomini e alle donne, perché essi partecipino all’opera della creazione, liberino la creazione stessa dall’influsso del peccato e santifichino sé stessi nel matrimonio o nella vita celibe, nella famiglia, nella professione e nelle varie attività sociali”[29]. Orbene, questo compito si può adempiere grazie alla novità cristiana che proviene radicalmente dal Battesimo e dalla vita di Cristo ricevuta negli altri sacramenti: “La condizione ecclesiale dei fedeli laici viene radicalmente definita dalla loro novità cristiana e caratterizzata dalla loro indole secolare[30]. In definitiva, la relazione tra la partecipazione alla triplice funzione di Cristo, il suo sacerdozio, inteso ora in senso ampio, e la secolarità mette in evidenza che il sacro e il profano non si debbono costituire come due sfere o due piani stagni, assolutamente incomunicabili tra loro; come ha indicato Illanes, “poiché Cristo è la pienezza — e pertanto anche la pienezza del sacerdozio —, ogni cristiano è costituito sacerdote, ha accesso a Dio sapendo che il sacrificio della propria vita sarà considerato come ostia gradita e ben accetta [...]. Ogni culto semplicemente esteriore, ogni tentativo di offrire a Dio qualcosa di diverso della nostra vita, non ha senso”[31].

In questa relazione tra sacerdozio e secolarità, tra funzione sacerdotale e funzione regale, l’Eucaristia gioca un ruolo determinante. Se nel Battesimo c’è la radice del sacerdozio comune, nell’Eucaristia trovano un punto di confluenza il culto esistenziale e il culto sacramentale. Illanes ne parla in questi termini: “L’esistenza cristiana ha, insomma, una struttura sacramentale e, di conseguenza, la considerazione della vita come atto di culto non esclude atti rituali o cultuali nel senso più ridotto o stretto del vocabolo”[32]. Non solo non li esclude, ma li esige, perché la relazione tra la vita cristiana e la vita di Cristo non è solo quella di coloro che imitano un modello, ma quella di coloro che ricevono una nuova vita (e come frutto di tale rigenerazione possono seguire e imitare Cristo). Sicché la vita si edifica sul dono ricevuto proprio nei sacramenti: il culto esistenziale è riferito al culto sacramentale. Che posto occupa l’Eucaristia? Se “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia”[33], l’Eucaristia è “fonte e apice di tutta la vita cristiana”[34], che racchiude “tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo [...], dà vita agli uomini”[35]. Il numero 10 della Lumen gentium, già citato, precisa che “i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia”. La Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia dà preziosi suggerimenti che vale la pena riprendere.

L’Eucaristia è un sacrificio in senso proprio e stretto: una donazione del Figlio al Padre, dal Figlio a sua volta donata alla Chiesa; infatti, con essa “Cristo ha [...] voluto fare suo il sacrificio spirituale della Chiesa, chiamata a offrire, col sacrificio di Cristo, anche sé stessa”[36]. Questa offerta comporta un impegno a trasformare la propria vita: “Annunziare la morte del Signore ‘finché Egli venga’ comporta, per quanti partecipano all’Eucaristia, l’impegno di trasformare la vita, perché essa diventi, in certo modo, tutta ‘eucaristica’”[37]. E questo, che si lega alla dimensione escatologica dell’Eucaristia, suppone anche la trasformazione della realtà storica che circonda il cristiano: “Conseguenza significativa della tensione escatologica insita nell’Eucaristia è anche il fatto che essa dà impulso al nostro cammino storico, ponendo un seme di vivace speranza nella quotidiana dedizione di ciascuno ai propri compiti”[38]. Attraverso questa partecipazione la vita del cristiano diventa sacramento, segno e strumento della presenza di Cristo e della sua salvezza, per l’umanità: è fermento e luce[39]. Come si può osservare, da un lato l’Eucaristia è la sorgente da cui sgorga la vita di Cristo, la novità cristiana, che permette di ordinare a Dio la gestione delle cose temporali; dall’altro, essa è il centro verso il quale si dirigono, come al loro culmine, le attività temporali per acquistare il valore di sacrificio, di culto esistenziale.

2. L’approccio al concetto teologico di lavoro

L’obiettivo di questo paragrafo è quello di rilevare, attraverso l’analisi di una serie di testi, il significato teologico del termine “lavoro” negli scritti di San Josemaría. Nei suoi insegnamenti questo termine è legato ad altri concetti di grande profondità teologica come vocazione, mondo e secolarità. Il termine indica a volte la realtà specifica del lavoro professionale; altre volte, invece, serve a riunire in una sola parola tutto ciò che implica l’inserimento del cristiano laico nel mondo: l’insieme di circostanze e di obblighi che costituiscono la sua secolarità e che per lui sono il cammino, la materia, la fonte della sua vita spirituale.

Come punto di partenza, voglio prendere una frase che, citando San Paolo, San Josemaría ci propone come “motto”[40] per la nostra vita di cristiani: “Si comprende bene, figli miei, perché l’Apostolo poteva scrivere: ‘Tutte le cose sono vostre, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio’. Si tratta di un moto ascensionale che lo Spirito Santo, diffuso nei nostri cuori, vuole provocare nel mondo: dalla terra, fino alla gloria del Signore. E perché non ci fosse dubbio che in questo moto si includeva pure ciò che sembra più prosaico, San Paolo scriveva anche: ‘Sia che mangiate, sia che beviate, fate tutto per la gloria di Dio’”[41]. Il lavoro si inserisce nel moto di exitus-reditus, di creazione e redenzione, il cui centro è Cristo. Non si deve dimenticare che, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, la creazione “non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata ‘in stato di via’ ( ‘in statu viae’) verso una perfezione ultima [...] che ancora deve essere raggiunta”[42]. La riflessione teologica sul lavoro umano ha qui il suo contesto.

Come conseguenza della profonda unità fra creazione e redenzione, c’è una misteriosa solidarietà tra l’uomo e il mondo; il destino del mondo è solidale con il destino dell’uomo, sia nel peccato che nella redenzione: quando l’uomo pecca, il mondo soffre le conseguenze del peccato dell’uomo, resta sottomesso al peccato e si converte in vanità (perché nasconde quello che dovrebbe svelare). Solo mediante l’unità tra il piano creatore e redentore di Dio, che si coglie attraverso la fede, appare pienamente in luce il valore cristiano del mondo, che altrimenti sarebbe svalutato a semplice scenario della vita dell’uomo o, anche, privato della sua bontà, se si insiste unicamente sul suo lato oscuro (il mondo come una delle tre tentazioni, il mondo in quanto sottomesso al peccato e mutato in vanità). Il pieno valore cristiano del mondo consiste nel fatto che la realtà, così come è ora dopo il peccato, non solo non ha perduto la sua bontà originaria, ma reclama l’azione dei figli di Dio che la liberi dalla servitù del peccato fino all’arrivo della pienezza escatologica[43].

Il mondo continua a essere riferito alla gloria di Dio attraverso il cristiano; egli è chiamato sin dalla creazione al possesso del mondo per mezzo del suo lavoro: “Il lavoro è la prima vocazione dell’uomo, è una benedizione di Dio, e si sbagliano, purtroppo, quelli che lo considerano un castigo. Il Signore, il migliore dei padri, ha collocato il primo uomo nel Paradiso, ut operaretur (Gn 2,15) — perché lavorasse”[44]. In un testo parallelo a quello appena citato, si insiste sull’idea di vocazione originale a fronte di quell’altra — sbagliata — di castigo a causa del peccato: “Sappiatelo bene: quest’obbligo (quello di lavorare) non è sorto come conseguenza del peccato originale, e tanto meno è una scoperta moderna. Si tratta di un mezzo necessario che Dio ci affida sulla terra, dando ampiezza ai nostri giorni e facendoci partecipi del suo potere creatore, affinché possiamo guadagnare il nostro sostentamento e, nello stesso tempo, raccogliere ‘frutti per la vita eterna’ (Gv 4,36): ‘L’uomo nasce per lavorare, come gli uccelli per volare’ (Gb 5,7 Vg)”[45]. Pertanto, il lavoro è una vocazione originale dell’uomo, una partecipazione al potere creatore di Dio, e la sua finalità è allo stesso tempo umana e soprannaturale. Umana, perché con essa guadagniamo il sostentamento ed edifichiamo la città terrena; soprannaturale, perché ricava frutti di vita eterna, contribuisce all’offerta del mondo a Dio[46].

In effetti, è attraverso il lavoro che l’uomo inserisce tutto ciò che comporta la nobile attuazione umana nel reditus del mondo a Dio, che la redenzione ha reso possibile: “Qualunque lavoro, anche il più nascosto, anche il più insignificante, offerto al Signore, ha la forza della vita di Dio!”[47]. Cristo assunse integralmente la condizione umana, incluso il lavoro[48], che acquista così un valore redentivo: tutti gli atti di Cristo sono redentivi. Il cristiano, quando compie il suo lavoro “con perfezione umana (competenza professionale) e con perfezione cristiana (per amore della volontà di Dio e al servizio degli uomini)”[49], contribuisce in qualche modo a liberare la creazione, che è radicalmente buona essendo uscita dalle mani di Dio, dalla sottomissione al peccato: svelando la dimensione divina che hanno tutte le realtà umane, persino le più comuni, tali realtà recuperano il “nobile e originario significato” che avevano ricevuto con la creazione e che fu oscurato dal peccato[50]. “Svolto in questo modo, quel lavoro umano [...] contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali — manifestando la loro dimensione divina[51] — e viene assunto e incorporato nell’opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato all’ordine della grazia e si santifica: diventa opera di Dio, operatio Dei, opus Dei[52].

La conseguenza è chiara: il mondo, così come è (in statu isto), ha per il cristiano un valore vocazionale. In altre parole, le circostanze concretissime nelle quali si svolge la vita dell’uomo, di ogni uomo, la vicenda storica personale e, in definitiva, tutto ciò che configura l’esistenza concreta di ogni persona nel mondo possono costituire, e costituiscono di fatto, per la maggioranza dei cristiani la materia della vita cristiana, ossia della santificazione[53]. Non è sufficiente, e neppure corretto, affermare che il cristiano che vive in mezzo al mondo si può santificare malgrado la situazione in cui si trova, ma si deve dire che proprio attraverso la situazione in cui si trova egli si santifica[54]. In altre parole, la realtà che circonda la vita umana e tutto quanto determina la posizione che l’uomo occupa nella società (condensato a volte in un solo termine: il lavoro) sono via e mezzo della vita cristiana.

Il lavoro diventa così il luogo della chiamata da parte di Dio[55]: “Dovete comprendere adesso — con una luce tutta nuova — che Dio vi chiama per servirlo nei compiti e attraverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro, Dio ci aspetta ogni giorno”[56]. Il vero luogo dell’esistenza cristiana del fedele laico è la vita ordinaria[57]; in verità, non vi sono realtà esclusivamente profane dacché Cristo si è incarnato[58]: “Cristo è asceso al Cielo, ma ha concesso a tutte le realtà umane oneste la possibilità concreta di essere redente”[59].

Una chiamata o vocazione, alla quale va unita una missione, quella di contribuire alla ricapitolazione di tutto in Cristo: “Cristianizzare dal di dentro il mondo intero, dimostrando che Gesù ha redento tutta l’umanità: ecco la missione del cristiano”[60]. Tutto questo ha una relazione con una locuzione divina che San Josemaría ebbe il 7 agosto 1931[61]: “Giunse il momento della Consacrazione: nell’alzare la Sacra Ostia, senza perdere il dovuto raccoglimento, senza distrarmi — avevo appena fatto mentalmente l’offerta all’Amore misericordioso — si presentò al mio pensiero, con forza e chiarezza straordinarie, quel passo della Scrittura: ‘Et si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum’ (Gv 12,32). In genere, di fronte al soprannaturale, ho paura. Poi viene il ‘ne timeas! sono Io’. E compresi che saranno le donne e gli uomini di Dio a innalzare la Croce con la dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane... E vidi il Signore trionfare e attrarre a sé tutte le cose”[62]. Basandosi sulle successive riflessioni che su tale esperienza fece lo stesso San Josemaría, il Professor Rodríguez riassume con queste parole ciò che il Fondatore dell’Opus Dei vide quel giorno con singolare nitidezza: “Comprese il significato salvifico della secolarità cristiana e, di conseguenza, la via per santificarla”[63]. Comprese che il lavoro umano, ogni situazione quotidiana, ordinaria, dei cristiani è inserita nella redenzione, ed è mezzo e canale di quella attrazione mediante la quale Cristo riconduce la creazione purificata al cuore di Dio[64]: è il “tutte le cose sono vostre, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” del quale parlavo all’inizio di questo paragrafo.

Ebbene, collocare la Croce al centro, sul pinnacolo[65], in cima a qualsiasi attività umana, al centro della vita secolare, non ha nulla a che vedere con i segni esteriori, con gli atteggiamenti confessionali, con la nostalgia dei tempi passati. Il testo rileva che sono gli uomini e le donne quelli che metteranno Cristo sulla cuspide. Inoltre, la cima su cui erigere la Croce di Cristo sono i cuori degli uomini e delle donne e non, almeno principalmente, determinate istituzioni; il testo non deve essere interpretato in modo tale da considerare rilevanti per l’effettivo regno di Cristo determinate professioni che occupano i posti più alti nella considerazione sociale. Lo conferma uno scritto successivo: “Come uomo, il cristiano ha pieno diritto di cittadinanza nel mondo. Se poi accetta che Cristo viva e regni nel suo cuore, l’efficacia salvifica del Signore si manifesterà in tutte le sue opere: poco importa che esse siano rilevanti o modeste, perché agli occhi di Dio una vetta umana può essere bassezza, e quel che chiamiamo umile o modesto può essere un vertice cristiano di santità e di servizio”[66].

Come si vede, tuttavia, la condizione per mettere Cristo al culmine è che il cristiano permetta che Cristo abiti in lui, vale a dire, che egli sia di Cristo: che sia alter Christus, che sia ipse Christus. Questo ci obbliga a riprendere il tema della partecipazione del cristiano al sacerdozio di Cristo, e ci porta al terzo e ultimo paragrafo di questo studio.

3. Con anima sacerdotale e mentalità laicale

La vittoria di Cristo, la cui pienezza si manifesterà soltanto nella escatologia, è già avvenuta mediante la sua morte e risurrezione, sicché mettere Cristo in cima alle attività umane è in stretta relazione con la partecipazione all’Eucaristia. La relazione tra creazione, lavoro ed Eucaristia è espressa magnificamente dalla liturgia nella formula dell’Offertorio della Messa dove, come spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica, “rendiamo grazie al Creatore per il pane e per il vino, frutto del lavoro dell’uomo, ma prima ancora frutto della terra e della vite, doni del Creatore”[67]. Il frutto della terra e del lavoro dell’uomo si trasforma in Cristo stesso, e così il lavoro diviene una Messa[68]. Questa idea la troviamo riflessa nel seguente passo di San Josemaría: “Nel Santo Sacrificio dell’altare, il sacerdote prende il Corpo del nostro Dio e il Calice con il suo Sangue, e li innalza sopra tutte le cose della terra, dicendo: ‘Per Ipsum, et cum Ipso, et in Ipso’ — per il mio Amore, con il mio Amore, nel mio Amore! Unisciti a questo gesto. Più ancora: incorpora questa realtà nella tua vita”[69].

Una delle espressioni che San Josemaría usa per riferirsi al sacerdozio comune dei fedeli, in quanto realtà che si trasforma in principio che ispira la totalità dell’esistenza, è quella di anima sacerdotale[70]. Anima sacerdotale vuol dire vivere “il sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”[71]. È un sacerdozio che si esercita e che riguarda la propria vita nella misura in cui questa si unisce alla radice della grazia: “Se agisci — vivi e lavori — al cospetto di Dio, per ragioni di amore e di servizio, con anima sacerdotale, anche se non sei sacerdote, tutto il tuo agire acquista un genuino senso soprannaturale, che mantiene tutta la tua vita unita alla fonte di tutte le grazie”[72]. La fonte di tutte le grazie è il mistero pasquale[73], alcune volte nominato semplicemente negli scritti del Fondatore dell’Opus Dei come “la Croce”[74], e logicamente il suo memoriale liturgico: la Santa Messa. Ecco perché la Santa Messa è definita da San Josemaría come centro e radice della vita cristiana[75]: un centro verso il quale convergono tutte le azioni e una radice dalla quale esse germogliano in virtù della forza salvifica che contiene il mistero pasquale (la tractio Christi del passo giovanneo che è alla base dell’esperienza del 7 agosto 1931). La conseguenza immediata di questa visione è che la giornata intera deve trasformarsi in un atto di culto[76] fatto di orazione, di lavoro, di vita familiare e di relazioni sociali: “Ognuno di voi, in quella unione di anime contemplative che è la vostra giornata, dice in qualche modo la propria Messa, che dura ventiquattro ore, in attesa della Messa che durerà altre ventiquattro ore, e così sino alla fine della nostra vita”[77]. Derville fa questo commento: “Culto e lavoro formano un’unica realtà: Escrivá parla di una Messa di ventiquattro ore! La confluenza delle volontà sull’altare del lavoro è la glorificazione di Dio e quella dell’uomo, come accade sulla Croce”[78].

La materia del sacrificio che il cristiano offre in unione con l’unica vittima, Cristo, è la propria esistenza. Il cristiano è tale in quanto incorporato in Cristo e in quanto partecipe dell’unico sacrificio salvifico, quello della Croce, sacerdote e vittima; offerente di un’offerta che non è una cosa esterna, ma la propria vita; in questo senso la Messa è definita come “nostra Messa”[79]: non si tratta di una cerimonia alla quale si assiste, ma di un incontro al quale chi partecipa riceve il dono che Cristo fa di sé stesso e si impegna così a convertirsi egli stesso in un dono.

In questo contesto di idee appare un uso del termine “altare” che merita di essere chiosato: “Tutti noi nell’Opera abbiamo anima sacerdotale: altare Dei est cor nostrum (San Gregorio Magno, Moral. 25, 7, 15), il nostro cuore è un altare di Dio”[80]. Su questo “altare” il cristiano offre la sua Messa che dura quanto la sua giornata, come si diceva nel testo citato più sopra. Il quotidiano, la vita ordinaria, si trasforma nel luogo del culto: “Servirlo non solo sull’altare, ma nel mondo intero che è un altare per noi”[81].

I testi citati hanno un chiaro parallelismo. In tutti si fa riferimento al sacerdozio regale in relazione con la partecipazione al sacrificio della Messa, che è, secondo me, il modo in cui si deve interpretare la presenza del termine “altare”. C’è un’intima connessione tra secolarità, sacerdozio e regalità: il fedele laico è chiamato a offrire come sacrificio spirituale tutto ciò che costituisce la propria vita ordinaria; in questo modo ordina a Dio le realtà temporali delle quali si occupa gomito a gomito con gli altri cittadini suoi uguali. Questo sacrificio acquista il valore ultimo nel suo radicamento sacramentale: l’incorporazione a Cristo mediante il Battesimo e la partecipazione all’Eucaristia. I sacramenti non sono solo il presupposto dell’anima sacerdotale, ma essa cresce e si sviluppa attraverso la partecipazione all’Eucaristia che permette di entrare in comunione con i sentimenti e la vita di Cristo[82].

Si ha così un apparente paradosso. Da una parte, San Josemaría afferma che nella Santa Messa c’è tutto quello che il Signore spera da un cristiano: “Forse qualche volta ci siamo domandati come poter corrispondere a tanto amor di Dio, e forse vorremmo vedere esposto chiaramente un programma di vita cristiana. La soluzione è facile ed è alla portata di tutti i fedeli: partecipare con amore alla Santa Messa, imparare nella Messa a mettersi in rapporto con Dio, perché in questo Sacrificio è contenuto tutto ciò che il Signore vuole da noi”[83]. D’altra parte, ci dice con uguale chiarezza che il tempio non è il luogo per antonomasia della vita cristiana: “Quando si ha questa visione delle cose, il tempio diventa il luogo per antonomasia della vita cristiana; essere cristiano vuol dire allora andare nel tempio, partecipare alle cerimonie sacre [...]. In questa mattina di ottobre, nel momento in cui ci disponiamo ad addentrarci nel memoriale della Pasqua del Signore, rispondiamo con un semplice no a questa visione distorta del cristianesimo. Pensate un momento alla cornice della nostra Eucaristia, della nostra Azione di Grazie: ci troviamo in un tempio singolare; si potrebbe dire che la navata è il campus universitario, la pala d’altare è la biblioteca dell’Università; attorno ci sono le gru per la costruzione dei nuovi edifici; e, sopra di noi, il cielo di Navarra... Non è forse vero che questo sguardo a ciò che abbiamo intorno vi conferma — con un’immagine viva e indimenticabile — che è la vita ordinaria il vero luogo della vostra esistenza cristiana? Figli miei, lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo”[84]. Il paradosso, come ho appena detto, è solo apparente: in verità, proprio la partecipazione alla Santa Messa svela al cristiano l’autentico valore della realtà temporale, la cui gestione gli è affidata: la possibilità concreta di santificarla e di santificarsi attraverso di essa. Tale possibilità avrà un’intima relazione con l’esercizio del sacerdozio comune; con la coscienza di tale sacerdozio, con l’anima sacerdotale, un’espressione che abitualmente il Fondatore dell’Opera completava con l’altra di mentalità laicale, proprio per sottolineare che l’esercizio del sacerdozio regale non esime il cristiano dalla costruzione della città terrena; non lo esime dalla vita ordinaria che, per essere santificata, dev’essere fatta propria in tutta la sua serietà umana. La mentalità laicale connota una serie di caratteristiche: amore al mondo, libertà, responsabilità, preparazione e prestigio professionale. Non posso fermarmi a sviluppare ognuna di esse; citerò come esempio un testo in cui, anche se non compare l’espressione “mentalità laicale”, si allude al suo contenuto: “Un uomo consapevole che il mondo — e non solo il tempio — è il luogo del suo incontro con Cristo, ama questo mondo, si sforza di raggiungere una buona preparazione intellettuale e professionale, e va formando — in piena libertà — il proprio criterio sui problemi dell’ambiente in cui opera; e di conseguenza prende le sue decisioni che, essendo decisioni di un cristiano, sono anche frutto di una riflessione personale, umilmente intesa a cogliere la Volontà di Dio in questi particolari piccoli e grandi della vita”[85].

Come ha affermato a ragion veduta Illanes, questi due atteggiamenti — anima sacerdotale e mentalità laicale —, e l’insieme delle disposizioni che li compongono, si devono conciliare armonicamente, in maniera tale che, se prevalesse una delle dimensioni a detrimento dell’altra, si incorrerebbe o nel clericalismo o nel laicismo; “l’unione di entrambe dà origine, invece, a un equilibrato atteggiamento cristiano: la disposizione d’animo che spinge a quel far presente Cristo in tutte le attività umane che San Josemaría percepì con particolare chiarezza il 7 agosto 1931; a quel portare il mondo verso Dio dall’interno del mondo stesso, al quale il cristiano è chiamato in virtù del suo sacerdozio regale”[86].

[1] Appunti presi durante una meditazione, 19-III-1968. Citato in JAVIER ECHEVARRÍA, Vivir la Santa Misa, Rialp, Madrid 2010, p. 17.

[2] “Il cristiano sa di essere inserito in Cristo mediante il Battesimo; reso idoneo a lottare per Cristo mediante la Cresima; chiamato a operare nel mondo mediante la partecipazione alla funzione regale, profetica e sacerdotale di Cristo; reso una sola cosa con Cristo mediante l’Eucaristia, sacramento dell’unità e dell’amore. Per questo, come Cristo, il cristiano deve vivere per gli altri uomini, guardando con amore ciascuno di coloro che lo circondano e l’umanità tutta” (È Gesù che passa, n. 106). [Qui le opere di San Josemaría sono citate dall’edizione italiana pubblicata da Ares, Milano].

[3] Questa espressione ha in sé una certa ambiguità, perché con essa si può indicare tanto la triplice funzione di insegnare, santificare e guidare nel loro insieme come, più specificamente, il munus sanctificandi. Se ho impiegato il termine “funzione sacerdotale” è proprio per non limitarmi all’amministrazione dei sacramenti quando mi riferisco a questa funzione. Sebbene ciò sia il suo contenuto essenziale nel caso dei ministri ordinati, il sacerdozio comune, diverso da quello ministeriale non solo in grado ma essenzialmente, può essere definito per la sua relazione non solo alla partecipazione al culto ma anche per il nesso che tale partecipazione ha con il munus regale. Questa è la prospettiva che si esplora in queste pagine.

[4] A. FERNÁNDEZ, Munera Christi et munera Ecclesiae. Historia de una teoría, Eunsa, Pamplona 1982.

[5] A. FERNÁNDEZ, o.c., pp. 22-23.

[6] P. DABIN, Le sacerdoce royal des fidèles dans la tradition ancienne et moderne, L’Edition Universelle-Desclée de Brouwer, Bruxelles-Paris 1950.

[7] “Le triple office est une sublime réalité. Sa participation par les fidèles n’est point une usurpation ou un rêve de l’imagination. C’est une vérité catholique enseignée par les Pères, les théologiens, le Catéchisme du Concile de Trente, universellement utilisée par les diverses liturgies” (P. DABIN, o.c., p. 39).

[8] “La partecipazione dei fedeli ai munera di Cristo è uno di quegli insegnamenti del Concilio Vaticano II che costituisce un importante pronunciamento magistrale a motivo della benefica ripercussione che essi hanno nella vita della Chiesa. La dichiarazione conciliare su questa materia viene a essere, oltretutto, la prima volta che la dottrina dei munera nei fedeli è proposta dal Magistero” (J. F. QUINGLES, El sacerdocio común y la participación de los fieles en los tria munera de Cristo, Pontificia Università della Santa Croce, Roma 2003, p. 7).

[9] F. MUGNIER, Roi, Prophète, Prêtre avec le Christ, Lethielleux, Paris 1937; Y. CONGAR, «Structure du sacerdoce chrétien», in La Maison-Dieu 27 (1950) 51-85; Jalones para una teología del laicado, Estela, Barcelona ³1965, pp. 140-269; e G. PHILIPS, «Un peuple sacerdotal, prophétique et royal», in Divinitas 5 (1961) 664-705. Questo articolo è stato inserito in un’opera successiva: El laicado e la época del Concilio. Hacia un cristianismo adulto, Dinor, San Sebastián 1966, pp. 77-111.

[10] Y. CONGAR, Jalones, pp. 155-156.

[11] Y. CONGAR, Structure du sacerdoce chrétien, pp. 65-66.

[12] Y. CONGAR, Jalones, pp. 257-258.

[13] “Faire ainsi de ma journée comme une Messe en action, continuant, s’il se peut, la sainte Messe quotidiennement entendue et pratiquée, ce devrait étre la vie normale de tout chrétien” (F. MUGNIER, Roi, Prophète, Prêtre avec le Christ, p. 215).

[14] “Lo stesso principio vige nella liturgia dei sacramenti. Essi ci sono stati dati per garantire in noi la forza interiore necessaria per la vita cristiana. Producono in noi la santità, ma non senza ordinarci di applicare questa forza alla cristianizzazione della nostra esistenza” (G. PHILIPS, El laicado en la época del Concilio, p. 85).

[15] Per esaminare la dottrina magisteriale intorno alla partecipazione dei laici ai tria munera Christi conviene tener conto dei seguenti documenti: Lumen gentium (nn. 10-11, 31 e 34-36), Apostolicam actuositatem (n. 2), Christifideles laici (nn. 14-17), Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 901-913).

[16] CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 10 (Enchiridion Vaticanum 1, EDB 1985). A partire da ora, la citerò con la sigla abituale: Lg, 10.

[17] Per queste idee sul culto esistenziale e sacramentale sono debitrice del Professor Pedro Rodríguez: «Questa sarebbe, dunque, la struttura del culto nel tempus Ecclesiae. Se nel tempus Christi il culto a Dio e la santificazione degli uomini si espressero in maniera definitiva negli acta et passa Christi in carne, che furono esistenziali, non rituali né sacri, nel tempus Ecclesiae il culto e la santificazione saranno la presenza permanente nella storia di quella donazione a Dio compiuta da Cristo una volta per tutte — l’ephapax di Cristo (cfr. Eb 7,27) —, una presenza che si realizza attraverso alcune realtà sacre, alcuni riti sacri, di origine cristologica, che sono i sacramenti [...]. L’uomo cristiano, che nell’Eucaristia e nei sacramenti riceve l’efficacia santificante e adorante del culto esistenziale di Cristo, deve fare anche della propria vita un “sacerdozio”, una “ostia” e un “sacrificio” esistenziale in mezzo al mondo» (Lo sagrado y el misterio eucarístico según Santo Tomás, conferenza pronunciata alla Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino, 25 giugno 2005, pp. 12 e 14, pro manuscripto).

[18] Lg, 11 spiega proprio in che modo si attua il sacerdozio nei diversi sacramenti: “L’indole sacra e la struttura organica della comunità sacerdotale vengono attuate per mezzo dei sacramenti e delle virtù”.

[19] Lg, 10.

[20] Lg, 34. Questo frammento è citato nel numero 91 del Catechismo della Chiesa Cattolica, oltre che nel numero 14 dell’Esortazione apostolica Christifideles laici.

[21] “Per l’economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere fra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana. Cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al comando di Dio” (Lg, 36). Questo brano è citato nel numero 912 del Catechismo della Chiesa Cattolica dedicato alla descrizione della partecipazione dei laici alla missione regale di Cristo.

[22] “Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici” (Lg, 31).

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] Questo aspetto è messo in evidenza alla fine del numero 14 della Christifideles laici: “La partecipazione dei fedeli laici al triplice ufficio di Cristo Sacerdote, Profeta e Re trova la sua radice prima nell’unzione del Battesimo, il suo sviluppo nella Confermazione e il suo compimento e sostegno dinamico nell’Eucaristia”.

[26] Lg, 11. In questo senso è significativa l’affermazione del Catechismo della Chiesa Cattolica a proposito della partecipazione dei laici alla missione sacerdotale di Cristo: “I genitori partecipano all’ufficio di santificazione conducendo la vita coniugale secondo lo spirito cristiano” (n. 902, che contiene una citazione del canone 835 del CIC). Infatti manifesta l’idea che l’ufficio sacerdotale, sebbene presupponga i sacramenti, non si limita a riceverli, ma si estende a ciò che ho chiamato culto esistenziale.

[27] Lg, 31. Una descrizione più completa del modo in cui i fedeli laici partecipano alla missione profetica di Cristo nella misura in cui compete loro per diritto proprio, in virtù della loro stessa condizione di fedeli battezzati, si trova nel numero 2 del decreto Apostolicam actuositatem: “I laici, essendo partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, all’interno della missione di tutto il popolo di Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo. In realtà essi esercitano l’apostolato evangelizzando e santificando gli uomini, e animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine temporale, in modo che la loro attività in questo ordine costituisca una chiara testimonianza a Cristo e serva alla salvezza degli uomini. Siccome è proprio dello stato dei laici che essi vivano nel mondo e in mezzo agli affari profani, sono chiamati da Dio affinché, ripieni di spirito cristiano, esercitino il loro apostolato nel mondo, a modo di fermento”.

[28] “Certamente tutti i membri della Chiesa sono partecipi della sua dimensione secolare; ma lo sono in forme diverse. In particolare la partecipazione dei fedeli laici ha una sua modalità di attuazione e di funzione che, secondo il Concilio, è loro ‘propria e peculiare’: tale modalità viene designata con l’espressione ‘indole secolare’” (Christifideles laici, 15).

[29] Ibid.

[30] Ibid.

[31] J. ILLANES, Laicado y sacerdocio, Eunsa, Pamplona 2001, pp. 208-209.

[32] Ibid., p. 211.

[33] CONCILIO VATICANO II, Costituzione Sacrosanctum Concilium, 10.

[34] Lg, 11.

[35] CONCILIO VATICANO II, Decreto Presbyterorum ordinis, 5.

[36] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, (Enchiridion Vaticanum 22, n. 13)

[37] Ecclesia de Eucharistia, 20.

[38] Ibid.

[39] Cfr. Ecclesia de Eucharistia, 22.

[40] Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 70. In seguito citerò questo libro come Colloqui.

[41] Colloqui, n. 115.

[42] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 302.

[43] Cfr. Rm 8,19-23.

[44] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Solco, n. 482.

[45] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amici di Dio, n. 57.

[46] “Un lavoro […] che contribuisca effettivamente all’edificazione della città terrena (e che sia fatto quindi con competenza, con spirito di servizio) e alla consacrazione del mondo (e che pertanto sia santificante e santificato)” (Colloqui, n. 70).

[47] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Forgia, n. 49.

[48] La meditazione degli anni di lavoro di Cristo a Nazaret fu una costante negli scritti e nella predicazione di San Josemaría. Cito, come esempio, due testi: “Trentatré anni di Gesù!...: trenta furono di silenzio e di oscurità; di sottomissione e di lavoro...” (Solco, n. 485); “Non mi spiego come puoi chiamarti cristiano e condurre codesta vita di ozioso inutile. — Dimentichi la vita di lavoro di Cristo?” (Cammino, n. 356).

[49] Colloqui, n. 10.

[50] “Vi posso dire che la nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni il loro nobile senso originario, metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle, facendone mezzo e occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo” (Colloqui, n. 114).

[51] La stessa idea è espressa a volte in forma poetica: “È missione molto nostra trasformare la prosa di questa vita in endecasillabi, in poesia eroica” (Solco, n. 500).

[52] Colloqui, n. 10.

[53] “Il cristiano si santifica non malgrado il compimento della missione che ha dovuto svolgere durante la sua esistenza terrena, ma proprio attraverso il compimento di tale missione. E questo vale sia per le missioni o attività direttamente ecclesiastiche o formalmente religiose, sia per ogni attività umana, anche quelle caratterizzate da un contenuto temporale” (J.L. ILLANES, Ante Dios y en el mundo. Apuntes para una teología del trabajo, Pamplona 1997, p. 33). Quest’ultimo è il caso dei laici, dove la missione si specifica mediante il compito che sono chiamati a realizzare nel mondo: la loro vocazione professionale. Illanes descriverà sinteticamente questa idea con una formula presa da San Josemaría: “La vocazione umana è una parte, e una parte importante, della vocazione divina” (Lettera 15-X-1948, citata da J.L. ILLANES, La vocación cristiana, Madrid 1975, p. 35).

[54] Illanes è del parere che qui sta il quid della differenza tra spiritualità per i laici e spiritualità laicale. Egli, secondo il carisma dell’Opus Dei — che comporta la santificazione del lavoro —, si preoccupa di sviluppare nei suoi scritti una teologia del lavoro, concepita come uno sviluppo teologico del modo in cui il lavoro (inteso come professione e come l’occupazione che conferisce una determinata posizione civile nel mondo, una mentalità a suo riguardo e un complesso di relazioni) può e deve essere materia santificabile e fonte di santificazione personale e degli altri. E questo non perché gli si aggiunga qualcosa, ma perché si scopre un valore in esso contenuto, che può rimanere ignorato quando manca la fede, la visione cristiana (cfr. La santificazione del lavoro. Il lavoro nella storia della spiritualità, Milano 2003, 99-119).

[55] “Ciò che ti meraviglia a me sembra ragionevole. — Che il Signore sia venuto a cercarti nell’esercizio della tua professione? Così cercò i primi: Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo accanto alle reti; Matteo seduto al banco degli esattori... E — sbalordisci! — Paolo nel suo accanimento di mettere fine alla semenza dei cristiani” (Cammino, 799).

[56] Colloqui, n. 114.

[57] Cfr. Colloqui, n. 112.

[58] Cfr. È Gesù che passa, n. 112.

[59] Ibid., n. 120.

[60] Colloqui, n. 112.

[61] Circa l’ambito evangelico e teologico nel quale si iscrive questa locuzione cfr. G. DERVILLE, «La liturgia del trabajo. “Levantado de la tierra, atraeré a todos hacia mi” (Gv 12,32) en la experiencia de San Josemaría Escrivá de Balaguer», in Scripta Theologica 38 (2006), 823-825 [821-854].

[62] Appunti intimi, n. 217, in A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, Leonardo International, Milano 2003, vol. I, p. 402.

[63] P. RODRÍGUEZ, «“Omnia traham ad meipsum”. El sentido di Juan 12,32 en la experiencia espiritual de Mons. Escrivá de Balaguer», in Romana 13 (1991), p. 347 [331-352].

[64] Cfr. P. RODRÍGUEZ, Vocación, trabajo y contemplación, Eunsa, Pamplona 1986, p. 78.

[65] In tal senso, riferendosi in una lettera a questa stessa esperienza, il Fondatore dell’Opus Dei parlava di mettere Cristo “in cima e nella profondità di tutte le attività degli uomini”, volendo esprimere lo stesso concetto di quando usava il termine “pinnacolo” (cfr. Lettera 11-III-1940, 13, in A. VÁZQUEZ DE PRADA, o.c., p. 404; cfr. anche Forgia, n. 678).

[66] È Gesù che passa, n. 183.

[67] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1333.

[68] Cfr. G. DERVILLE, La liturgia del trabajo, p. 852. Questo autore mette in evidenza come San Josemaría si riferiva anche all’aspetto reciproco: non solo il lavoro diviene una Messa, ma la Messa si rivela un autentico lavoro: “Dopo tanti anni, quel sacerdote fece una meravigliosa scoperta: comprese che la Santa Messa è un vero lavoro: operatio Dei, lavoro di Dio. E quel giorno, nel celebrarla, provò dolore, gioia e stanchezza. Sentì nella sua carne la spossatezza di un lavoro divino” (Via Crucis, XI Stazione, 4).

[69] Forgia, n. 541.

[70] “L’espressione anima sacerdotale allude [...] alla ripercussione a livello esistenziale e spirituale di quella realtà ontologico-sacramentale che è il sacerdozio regale” (J.L. ILLANES, Existencia cristiana y mundo, Eunsa, Pamplona 2003, p. 292).

[71] Solco, n. 499. Paradigmaticamente questo punto fa parte del capitolo “Lavoro”. Un testo parallelo a questo si trova in È Gesù che passa, n. 96: “Con il Battesimo, siamo stati costituiti sacerdoti della nostra stessa esistenza per offrire vittime spirituali, ben accette a Dio per mezzo di Gesù Cristo”.

[72] Forgia, n. 369.

[73] “L’amore della Trinità per gli uomini fa sì che dalla presenza di Cristo nell’Eucaristia derivino tutte le grazie per la Chiesa e per l’umanità” (È Gesù che passa, n. 86).

[74] “Essere cristiano — e in modo particolare essere sacerdote; ricordando anche che tutti noi battezzati partecipiamo al sacerdozio regale — significa stare continuamente in Croce” (Forgia, n. 882).

[75] “La Santa Messa ci pone così di fronte ai misteri principali della fede, in quanto è il dono che la Trinità fa di sé stessa alla Chiesa. Si comprende allora come la Messa sia il centro e la radice della vita spirituale del cristiano, e come sia anche il fine di tutti i Sacramenti. La vita della grazia, generata in noi dal Battesimo, fortificata e accresciuta dalla Confermazione, si avvia nella Messa verso la sua pienezza” (È Gesù che passa, n. 87).

[76] “Lotta per far sì che il Santo Sacrificio dell’Altare sia il centro e la radice della tua vita interiore, in modo che tutta la giornata si trasformi in un atto di culto — prolungamento della Messa che hai ascoltato e preparazione alla successiva —, che trabocca in giaculatorie, visite al Santissimo, nell’offerta del tuo lavoro professionale e della tua vita familiare...” (Forgia, n. 69).

[77] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Appunti presi durante una meditazione, 19-III-1968. Citato in JAVIER ECHEVARRÍA, o.c., p. 17.

[78] G. DERVILLE, La liturgia del trabajo, p. 830.

[79] “[...]. Perciò, quanto sono obbligato ad amare la Messa! (La ‘nostra’ Messa, Gesù...)” (Cammino, n. 533).

[80] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 19-III-1954, n. 8 (AGP P06 1987, vol. III, p. 575).

[81] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Appunti presi durante una meditazione, 19-III-1968. Citato in JAVIER ECHEVARRÍA, o.c., p. 17.

[82] Cfr. J.L. ILLANES, Existencia cristiana y mundo, p. 293.

[83] È Gesù che passa, n. 88.

[84] Colloqui, n. 113.

[85] Colloqui, n. 116.

[86] J.L. ILLANES, Existencia cristiana y mundo, p. 295.

Romana, n. 50, Gennaio-Giugno 2010, p. 200-216.

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