envelope-oenvelopebookscartsearchmenu

Cordova, Spagna (20-XI-2009) Conferenza al clero di Cordova.

SANTI PER SANTIFICARE.

Stiamo percorrendo l’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI per tutta la Chiesa. Nella lettera da lui scritta per l’occasione, il Santo Padre manifesta il proposito di «contribuire a promuovere l’impegno di rinnovamento interiore di tutti i sacerdoti, affinché la loro testimonianza evangelica nel mondo di oggi sia più intensa e incisiva»[1].

Il desiderio di collaborare a questa iniziativa del Romano Pontefice ha indotto il mio amato fratello nell’Episcopato, Mons. Juan José Asenjo, attuale Arcivescovo di Siviglia e Amministratore Apostolico di Cordova, a invitarmi a parlare di questo tema davanti a un gruppo di sacerdoti. Gli sono veramente grato, anche se, allo stesso tempo, mi pare di essere venuto a vender miele all’apicoltore. Era un’espressione che utilizzava San Josemaría Escrivá quando lo invitavano a rivolgere la parola ai suoi fratelli nel sacerdozio. Con ciò voleva sottolineare che chiunque di loro avrebbe potuto farlo molto bene, soltanto aprendo il proprio cuore e manifestando l’amore a Dio e alle anime che portava in sé.

Se così si esprimeva un sacerdote tanto santo, che aveva ricevuto l’incarico divino di aprire le vie della santità nel compimento dei doveri propri dello stato di ciascuno, e che la Chiesa ha proposto, insieme ad altri esimi sacerdoti, come modello di santità a presbiteri e secolari, figuratevi che cosa potrei dire io. Ricorro alla sua intercessione davanti al Signore affinché queste mie parole riescano a trasmettere almeno un po’ della ricchezza della sua dottrina sul sacerdozio, in modo che le sue parole e l’esempio della sua vita incitino tutti noi — anche me — a compiere quella conversione interiore che la Chiesa si aspetta da ognuno in quest’Anno Sacerdotale.

L’identificazione con Cristo, fondamento del nostro sacerdozio

Nella prima Messa crismale celebrata dopo aver ricevuto il ministero petrino, Benedetto XVI si rivolgeva così ai sacerdoti che concelebravano con lui nella Basilica di San Pietro: «Il mistero del sacerdozio della Chiesa sta nel fatto che noi, miseri esseri umani, in virtù del Sacramento, possiamo parlare con il suo Io: in persona Christi. Egli vuole esercitare il suo sacerdozio per nostro tramite»[2].

Uno solo è il sacerdote del Nuovo Testamento, Gesù Cristo Nostro Signore, come mette in evidenza la lettera agli Ebrei (cfr. Eb 7,11-28). Noi siamo suoi strumenti in virtù del sacramento dell’Ordine, che ci identifica a Lui. È ciò che si manifesta chiaramente nei gesti e nelle parole del Vescovo durante il rito dell’ordinazione. Quando, in silenzio, impone le sue mani sul capo del candidato, invocando poi lo Spirito Santo con l’orazione consacratoria, è Gesù stesso — Sommo ed Eterno Sacerdote — che prende possesso di ciascuno. L’ordinazione sacerdotale produce un cambiamento reale in chi la riceve, visibile solo agli occhi della fede. Lo ribadiva San Josemaría quando, parlando dell’identità del sacerdote — che nei primi anni del post-Concilio alcuni mettevano in discussione —, non esitava ad affermare con decisione: «Qual è l’identità del sacerdote? Quella di Cristo. Tutti noi cristiani possiamo e dobbiamo essere non soltanto alter Christus, ma anche ipse Christus: un altro Cristo; lo stesso Cristo! Ma il sacerdote lo è in modo immediato, in forma sacramentale»[3].

Non si tratta di una considerazione solo teorica, ma deve manifestarsi in modo concreto nelle più diverse situazioni, anche al di fuori degli atti propri del sacrum ministerium. Un episodio della vita di questo sacerdote lo dimostra eloquentemente.

Correva l’anno accademico 1942-43. Il proprietario di un immobile della madrilena via Jenner, dove aveva sede la prima residenza universitaria promossa dall’Opus Dei alla fine della guerra civile, comunicò che aveva un’immediata necessità di riavere la casa perché un suo figlio stava per sposarsi. Si poneva un problema di difficile soluzione: che fare con le decine di studenti che vivevano in quell’immobile, ora che l’anno accademico era già avanzato? Non si potevano abbandonare per la strada. Tuttavia nessuna delle ragioni addotte dai direttori di quell’attività apostolica riusciva a far desistere il proprietario dalla sua intimazione. Allora il Fondatore dell’Opera andò a trovarlo personalmente, accompagnato da Amadeo de Fuenmayor, allora direttore della Residenza, che poi raccontò l’episodio.

La conversazione, cortese ma fredda, dimostrava che quella persona non era disposta a fare concessioni. Improvvisamente San Josemaría cambiò il tono del colloquio: «Lei sa con chi sta parlando?», domandò con tono deciso al suo interlocutore. E, al gesto di sorpresa di questi, aggiunse: «Sono un sacerdote di Cristo... E non posso accettare che, in pieno anno accademico, debbano abbandonare la Residenza cinquanta studenti, la cui anima mi è stata affidata». Il professor Fuenmayor, che assisteva alla conversazione senza proferire parola, riferisce che da quel momento il tono del colloquio cambiò completamente: il proprietario acconsentì a prorogare il termine dell’affitto della casa a fine anno accademico[4].

Questo episodio mette con forza in risalto la viva coscienza che in ogni momento aveva il Fondatore dell’Opus Dei di identificarsi con Cristo sacerdote. Metteva così in evidenza che il carattere dell’Ordine riguarda tutta l’esistenza di chi è stato marcato con questo sacramento. Qualcosa di analogo succede con il fedele normale, unto col carattere battesimale: l’intera sua vita rimane conformata a Cristo. Non si è cristiano, figlio di Dio e partecipe del sacerdozio di Cristo solo in certi momenti, quando si prega o si partecipa a una cerimonia liturgica. L’essere cristiano impregna — deve impregnare — le ventiquattro ore della giornata, e a questo devono aspirare tutti i battezzati. Lo stesso deve succedere in noi che abbiamo ricevuto il sacramento dell’Ordine: dobbiamo essere — come a San Josemaría piaceva ripetere — «sacerdoti-sacerdoti, sacerdoti al cento per cento»[5], in tutti i momenti e in tutte le circostanze.

«Essere sacerdote — ricorderò con parole di Benedetto XVI — significa diventare amico di Gesù Cristo, e questo sempre di più con tutta la nostra esistenza. Il mondo ha bisogno di Dio — non di un qualsiasi dio, ma del Dio di Gesù Cristo, del Dio che si è fatto carne e sangue, che ci ha amati fino a morire per noi, che è risorto e ha creato in sé stesso uno spazio per l’uomo. Questo Dio deve vivere in noi e noi in Lui. È questa la nostra chiamata sacerdotale: solo così il nostro agire da sacerdoti può portare frutti»[6].

Siamo convinti che le parole del Papa rispondano assolutamente alla realtà; d’altra parte sappiamo anche che — come ha scritto San Paolo — portiamo il tesoro divino in vasi di creta (cfr. 2 Cor 4,7). Forse in qualche momento abbiamo rivissuto l’esperienza di Simon Pietro dopo la pesca miracolosa. La sproporzione fra la grandezza del compito affidatoci — far presente Cristo tra gli uomini — e le nostre limitazioni personali ci appare a volte in tutta la sua ampiezza. Tuttavia, in ogni momento, il ricordo che Gesù ci ha chiamato amici (cfr. Gv 15,15) e ci sostiene con la sua grazia, ci fortificherà e ci aiuterà a superare questi momenti, se si dovessero presentare. «La fede in Gesù, Figlio del Dio vivente, è il mezzo grazie al quale sempre di nuovo afferriamo la mano di Gesù e mediante il quale Egli prende le nostre mani e ci guida»[7].

L’identificazione con Cristo negli atti del ministero

Se tutta la nostra esistenza è marcata dal carattere sacerdotale, a maggior ragione questo accade quando esercitiamo gli atti propri del nostro ministero; ed è lì che dobbiamo cercare in modo particolare la nostra santificazione personale.

Il Servo di Dio Mons. Álvaro del Portillo ha saputo esporlo con acume; non invano è stato uno degli esperti che più hanno lavorato perché nel Concilio Vaticano II fosse messa in evidenza la chiamata dei presbiteri alla santità proprio nell’esercizio del loro ministero. Permettetemi che legga alcune sue parole, che sono come un riassunto di quel che io vorrei trasmettere in questa conversazione fraterna.

«È indispensabile far sì che i sacerdoti acquisiscano negli anni della loro preparazione, e nella successiva formazione permanente, una chiara coscienza dell’identità che sussiste fra la realizzazione della loro vocazione personale — essere sacerdote nella Chiesa — e l’esercizio del ministero in persona Christi Capitis. Il loro servizio alla Chiesa consiste, essenzialmente (altri modi di servire, per un sacerdote, possono essere legittimi, ma restano secondari), nel personificare attivamente e umilmente in mezzo ai fratelli Cristo Sacerdote che dà vita alla Chiesa e la purifica, Cristo Buon Pastore che la conduce in unità al Padre, e Cristo Maestro che la conforta e la stimola con la sua Parola e con l’esempio della sua Vita.

«La formazione del sacerdote è qualcosa che dura per tutta la vita, perché, nei suoi molteplici aspetti, tende — deve tendere — a formare in lui Cristo (cfr. Gal 4,19), realizzando questa identificazione come compito, in risposta a ciò che essa ha come dono sacramentale ricevuto. Un compito che implica, prima ancora di un’incessante attività pastorale, e come condizione della sua efficacia, un’intensa vita di preghiera e di penitenza, una sincera direzione spirituale della propria anima, un ricorso al sacramento della Penitenza vissuto con periodicità e con estrema delicatezza, e tutta l’esistenza radicata, centrata e unificata nel Sacrificio eucaristico»[8].

Mi soffermerò brevemente su alcuni di questi momenti, e specialmente sulla celebrazione del Santo Sacrificio e l’amministrazione della Penitenza, perché sono i momenti in cui il nostro essere ipse Christus, lo stesso Cristo, come sacerdoti, raggiunge la più alta densità ontologica.

La Santa Messa: “in persona Christi”

Il Papa ha invitato a riflettere in modo particolare sulla figura del Santo Curato d’Ars in questo Anno Sacerdotale con il quale commemoriamo il 150° anniversario del suo dies natalis, della sua nascita al Cielo. «Era convinto — ha scritto Benedetto XVI — che tutto il fervore nella vita di un sacerdote dipendesse dalla Messa: “La causa del rilassamento di un sacerdote è che trascura la Messa. Dio mio, come fa pena il sacerdote che celebra come se stesse facendo qualcosa di ordinario!”. Ogni volta che celebrava, aveva l’abitudine di offrire anche la propria vita come sacrificio: “Come fa bene a un sacerdote offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”»[9].

Il Concilio Vaticano II, nel Decreto Presbyterorum ordinis, afferma che la celebrazione della Messa è il momento più importante della giornata di un sacerdote, perché costituisce il «centro e la radice di tutta la vita del presbitero»[10]. Perciò è logico che cercheremo di celebrarla ogni giorno nel miglior modo possibile. Penso che tutti noi siamo rimasti impressionati dalla testimonianza del Servo di Dio Giovanni Paolo II quando, al momento di compiere le nozze d’oro sacerdotali, diceva con semplicità: «Nell’arco di quasi 50 anni di sacerdozio ciò che per me continua a essere il momento più importante e più sacro è la celebrazione dell’Eucaristia. È dominante in me la consapevolezza di celebrare all’altare in persona Christi. Mai nel corso di questi anni ho tralasciato la celebrazione del Santissimo Sacrificio. Se ciò è accaduto, è stato soltanto per motivi indipendenti dalla mia volontà. La Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata»[11].

La Trinità concede al sacerdote un dono inesprimibile: essere strumento affinché la passione, morte e risurrezione di Nostro Signore, storicamente accaduta duemila anni fa, si faccia sacramentalmente presente nella sua autentica realtà e con la sua piena efficacia santificante. Come afferma Giovanni Paolo II, grazie all’Eucaristia si produce nel nostro mondo «una misteriosa “contemporaneità” tra quel Triduo e lo scorrere di tutti i secoli. Questo pensiero ci porta a sentimenti di grande e grato stupore [...]. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella celebrazione eucaristica»[12].

Il sacerdote non deve abituarsi al prodigio di amore che avviene ogni giorno sull’altare e che continua nel tabernacolo dopo la Messa. Con l’aiuto di Dio, deve osservare con uno sguardo sempre nuovo quel che conosce con gli occhi della fede, senza stancarsi di considerare questa meraviglia. Come i bambini, dei quali è il Regno dei cieli (cfr. Mt 18,3-4), godono di una capacità praticamente illimitata di meravigliarsi, così il sacerdote ha bisogno di questo stesso senso di meraviglia davanti al mistero, frutto della fede e dell’amore, per celebrare l’Eucaristia e nel corso della celebrazione stessa.

Tutti i cristiani debbono coltivare la capacità di meravigliarsi, ma in modo particolare noi sacerdoti, ai quali è stata concessa la facoltà di compiere questo grandissimo miracolo. L’identità del sacerdote — lo ripeto ancora una volta con parole di San Josemaría — consiste nell’essere «strumento immediato e quotidiano della grazia salvifica che Cristo ha meritato per noi. Quando si comprende questo principio, quando lo si medita nell’attivo silenzio della preghiera, come possiamo considerare il sacerdozio una rinuncia? È un guadagno incalcolabile. Maria Santissima, nostra Madre, la più santa delle creature — più di Lei solo Dio —, trasse una sola volta Gesù al mondo; i sacerdoti lo portano su questa terra, al nostro corpo, alla nostra anima, tutti i giorni: e Gesù viene, per nutrirci, per vivificarci, per essere fin da ora pegno della vita futura»[13].

È inesauribile la ricchezza di questa realtà meravigliosa: sull’altare il sacerdote è ipse Christus, lo stesso Cristo, in modo sacramentale! Presta a Gesù Cristo la voce, le mani, tutto il suo essere, perché si faccia presente il Santo Sacrificio del Calvario dovunque nel mondo, sino alla fine dei tempi. È un dovere — dovere di amore, ma dovere — che il presbitero sia esigente con sé stesso, per salire all’altare con la minore indegnità possibile da parte sua.

Per perfezionare la coscienza forse può essere utile un consiglio pratico: dividere la giornata in due parti. La mattina, ringraziare la Trinità per aver potuto celebrare la Santa Messa; nel pomeriggio, preparare quella del giorno successivo. Così si esprimeva un sacerdote santo: «Faccio in modo che l’ultimo pensiero [di ogni giornata] sia di ringraziamento al Signore per aver potuto celebrare la Santa Messa quel giorno. E gli dico anche: “Signore, ti rendo grazie perché, per tua misericordia, spero di celebrare anche domani la Santa Messa, rinnovando il Divino Sacrificio in persona Christi e consacrando il tuo Corpo e il tuo Sangue”. Così cerco di addormentarmi e cerco di prepararmi»[14].

Una dimostrazione del senso sacerdotale, che Benedetto XVI ha ricordato, consiste nel salire all’altare con i paramenti liturgici adatti. Il Santo Padre invita a penetrare bene il significato di queste vesti — l’amitto, il camice, la stola, la casula —, così chiaramente espresso nelle orazioni che la Chiesa consiglia al momento di indossarle subito prima della celebrazione. «Il fatto che stiamo all’altare vestiti con i paramenti liturgici — spiega Benedetto XVI — deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì “in persona di un Altro”. Gli indumenti sacerdotali, così come nel corso del tempo sono stati modificati, sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa [...]. Indossarli dev’essere per noi più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel “sì” del nostro incarico, in quel “non più io” del Battesimo che l’Ordinazione sacerdotale ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede»[15].

Ministri della misericordia di Dio

Insieme alla celebrazione eucaristica, l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione è un altro momento nel quale l’identificazione del presbitero con il Sommo ed Eterno Sacerdote raggiunge la massima intensità. Si è molto parlato del fatto che stiamo attraversando una crisi della Confessione, ma in realtà — e così hanno affermato varie volte i Romani Pontefici negli ultimi anni — si tratta piuttosto di una crisi di confessori. Lo prova il fatto che quando in una chiesa ci sono sacerdoti disposti a confessare, con orari chiari, con segni inequivocabili della loro presenza, in poco tempo molti fedeli vengono per ricevere questo sacramento.

La situazione non è diversa da quella di una volta, però è vero che occorre una catechesi sulla necessità del sacramento della misericordia divina, utilizzando omelie, lezioni di preparazione alla Confermazione o al Matrimonio, ecc., e che i sacerdoti si mostrino disposti a confessare. Benedetto XVI scrive che «in Francia, ai tempi del Santo Curato d’Ars, la confessione non era né più facile né più frequente che ai nostri giorni [...]; però egli cercò con tutti i mezzi, nella predicazione e con consigli persuasivi, che i suoi parrocchiani riscoprissero il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come una intima esigenza della presenza eucaristica. Così seppe dare il via a un “circolo virtuoso”. Col suo prolungato stare in chiesa davanti al Tabernacolo ottenne che i fedeli cominciassero a imitarlo, andando a visitare Gesù, sicuri che vi avrebbero trovato anche il loro parroco, disposto ad ascoltarli e a perdonarli. Alla fine, una moltitudine sempre maggiore di penitenti, provenienti da tutta la Francia, lo tratteneva nel confessionale anche sedici ore al giorno»[16].

Non c’è dubbio che oggi nessuno ci chiede le stesse cose che al Santo Curato d’Ars, e forse il tempo disponibile per amministrare questo sacramento dipenderà da molti fattori, dagli incarichi che abbiamo ricevuto, ecc. Sicuramente, però, se ci esaminiamo con sincerità, scopriremo che potremmo fare qualcosa di più; che, ritagliando un po’ del tempo che dedichiamo ad altre attività, potremmo raggranellare alcune ore alla settimana per stare disponibili nel confessionale. Forse in nessun altro momento, come in questo, appare con tanta chiarezza che — come affermava San Giovanni Maria Vianney — “il sacerdozio è l’amore del Cuore di Gesù”[17].

Anche su questo punto San Josemaría dà testimonianza della propria esperienza, confermata da quella di molti altri presbiteri. «Un consiglio da fratello — diceva a chi lo interrogava sulla dedicazione al Sacramento della Penitenza —: sedetevi nel confessionale tutti i giorni, o almeno due o tre volte la settimana, aspettando lì le anime come fa il pescatore con i pesci. All’inizio, forse non verrà nessuno. Portatevi il breviario, un libro di lettura spirituale o qualcosa da meditare. Nei primi giorni potrete farlo; poi verrà una vecchietta e le insegnerete che non basta che lei sia buona, ma che deve venire con i nipoti più piccoli. Dopo quattro o cinque giorni verranno due ragazze e poi un ragazzotto e anche un uomo, un po’ di nascosto... In capo a due mesi non vi lasceranno vivere, né potrete pregare nel confessionale, perché le vostre mani consacrate, come quelle di Cristo — identificate con le sue, perché sarete Cristo — saranno impegnate a dire: io ti assolvo». E concludeva: «Amate il confessionale. Amatelo, amatelo! [...]. Questa è la strada giusta per risarcire il Signore dei tanti nostri fratelli che ora non vogliono sedersi nel confessionale, né vogliono ascoltare le anime, né amministrare il perdono di Dio»[18].

Il rapporto di amicizia col Signore

Il significato più profondo del sacerdozio si riassume nell’essere ministri e amici di Gesù. Ministri che dicono, come San Paolo: “Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20). E amici intimi, che — come dice il Vangelo — sanno perseverare con Lui nei momenti di difficoltà (cfr. Lc 22,28). Intimità significa comunione di pensiero e di volontà, di sentimenti e di aspirazioni, secondo il consiglio dell’Apostolo delle genti: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù” (Fil 2,5).

L’unione con Gesù non è una cosa di carattere semplicemente interiore, ma deve manifestarsi in opere. «Ciò significa — spiega il Santo Padre — che dobbiamo conoscere Gesù in modo sempre più personale, ascoltandolo, vivendo insieme con Lui, trattenendoci presso di Lui. Ascoltarlo nella lectio divina, cioè leggendo la Sacra Scrittura in un modo non accademico, ma spirituale; così impariamo a incontrare il Gesù presente che ci parla. Dobbiamo ragionare e riflettere sulle sue parole e sul suo agire davanti a Lui e con Lui. La lettura della Sacra Scrittura è preghiera, deve essere preghiera, deve emergere dalla preghiera e condurre alla preghiera»[19].

L’esempio del Signore è molto chiaro. Gli evangelisti ce lo mostrano in costante colloquio con Dio Padre, e allo stesso tempo mettono in evidenza che spesso si ritirava sul monte per pregare da solo; vale a dire, dedicava un tempo specifico alla preghiera, lontano dalla moltitudine e anche dagli stessi Apostoli. Il sacerdote, ipse Christus, deve imitare l’esempio del Maestro. Solo così crescerà in intimità con Lui e sarà un ottimo strumento per comunicare ad altri questa amicizia.

Sappiamo bene che l’efficacia dei sacramenti non dipende dalla santità personale di chi li amministra, perché agiscono ex opere operato, per virtù propria; vale a dire, sono anzitutto e soprattutto azioni di Cristo, unico e perfetto Sacerdote, sorgente della vita soprannaturale. Ma, per la Comunione dei santi, arriveranno più grazie alle anime se il sacerdote è ben unito a Cristo; e questa buona disposizione è assicurata da un rapporto assiduo con il Signore nel Pane e nella Parola, nell’Eucaristia e nell’orazione. «Solo così possiamo parlare veramente in persona Christi, anche se la nostra interiore lontananza da Cristo non può compromettere la validità del Sacramento. Essere amico di Gesù, essere sacerdote, significa essere uomo di preghiera»[20].

Il Magistero della Chiesa, gli insegnamenti dei santi e la stessa esperienza mostrano la necessità che noi chierici coltiviamo una robusta vita interiore con la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, col ricorso frequente alla confessione sacramentale, con la recita dell’Ufficio Divino e col tempo che dedichiamo all’orazione personale, con una devozione filiale alla Santissima Vergine. Sarebbe questa la garanzia di un’azione pastorale veramente efficace. «Il tempo che riserviamo per la preghiera non è un tempo sottratto alla nostra responsabilità pastorale, ma è proprio “lavoro” pastorale, è pregare per gli altri. Nel “Comune dei Pastori” si legge come caratterizzante per il Pastore buono che “multum oravit pro fratribus”. Questo è proprio del Pastore: che sia uomo di preghiera, che stia dinanzi al Signore pregando per gli altri, sostituendo anche gli altri, che forse non sanno pregare, non vogliono pregare, non trovano il tempo per pregare. Come si evidenzia così che questo dialogo con Dio è opera pastorale!»[21].

In questo contesto acquista una particolare importanza la fedeltà alla Liturgia delle Ore. Sarebbe un grave errore pensare che questi momenti di orazione vocale e mentale siano una perdita di tempo, vista l’urgenza dell’attività pastorale, e che non succeda nulla se li omettiamo. Proprio la preghiera pubblica della Chiesa è uno degli incarichi affidati con l’ordinazione sacerdotale. Essa però non deve apparire come un obbligo imposto dall’esterno, ma piuttosto come una necessità del cuore sacerdotale per chi sa di essere ministro nel Corpo mistico di Cristo.

In una determinata occasione il Papa diceva che la Chiesa «ci impone — ma sempre come una Madre buona — di avere tempo libero per Dio, con le due pratiche che fanno parte dei nostri doveri: celebrare la Santa Messa e recitare il Breviario. Ma più che recitare, realizzarlo come ascolto della Parola che il Signore ci offre nella Liturgia delle Ore»[22]. In questo modo, interiorizzando la preghiera liturgica, riservando i momenti più appropriati a questa orazione, prolunghiamo la grande catena supplicante che iniziarono gli uomini giusti dell’Antico Testamento. Preghiamo con il Signore, o meglio, il Signore prega con noi, come spiega Sant’Agostino: orat pro nobis ut sacerdos noster; orat in nobis ut caput nostrum; oratur a nobis ut Deus noste[23]r. Preghiamo con la Chiesa di tutti i tempi. Allora si capirà che l’incarico ricevuto è una splendida responsabilità che viene affidata al sacerdote affinché mantenga accesa nel mondo, sino alla fine dei tempi, l’insostituibile fiaccola dell’orazione.

C’è una considerazione di San Josemaría intorno alla necessità di impegnarsi nell’orazione anche quando pregare costa, che è particolarmente valida nel contesto della Liturgia delle Ore: «Vi potete unire all’orazione di tutti i cristiani di qualunque epoca: quelli che ci hanno preceduti, quelli che ora sono in vita, quelli che verranno nei secoli futuri. Così, rendendovi conto di quanto sia meravigliosa la Comunione dei Santi — un canto senza fine di lode a Dio —, anche se non avete voglia o vi sentite in difficoltà — aridi! —, pregherete con un certo sforzo, ma con più familiarità»[24].

La preoccupazione per i sacerdoti

In questi rapidi cenni non è possibile esporre tanti altri aspetti che l’Anno Sacerdotale suggerisce. Mi sono limitato a ricordare alcuni punti che mi sembrano particolarmente importanti, perché fanno parte del ministero che ci è stato affidato e concorrono profondamente alla ricerca della santità; però non vorrei terminare senza fare riferimento a un altro punto di capitale importanza per i sacerdoti: la preoccupazione degli uni per gli altri, del bene spirituale e materiale dei nostri fratelli nel sacerdozio e, in fin dei conti, della loro santità.

“Il fratello aiutato dal fratello è simile a una roccaforte” (Prv 18,19, Vulgata). Il Signore ha posto i ministri nella Chiesa perché diano ai fedeli la forza salvifica del Vangelo — la Parola di Dio e i sacramenti — e li guidino così nella via della santificazione. E devono cercare di precedere tutti: essere luce che risplende per illuminare tutti, sale che insaporisca la vita cristiana (cfr. Mt 5,13-14); però ogni sacerdote sa che egli stesso è rivestito di debolezza (cfr. Eb 5,2) e ha bisogno dell’aiuto degli altri. «Pertanto è assai necessario che tutti i presbiteri, sia diocesani che religiosi, si aiutino a vicenda, in modo da essere sempre cooperatori della verità»[25]. Così si esprime il decreto Presbyterorum ordinis del Concilio Vaticano II. I rapporti fraterni tra i sacerdoti sono considerati un mezzo indispensabile per progredire nel cammino, superando i momenti di debolezza o di stanchezza che si presentino.

San Josemaría ha dedicato per molti anni le sue migliori energie ai fratelli nel sacerdozio, come hanno sempre messo in evidenza i suoi biografi. Il suo amore alla Chiesa lo portava, inoltre, a stimolare in ogni momento le vocazioni sacerdotali. L’aveva ben impresso nell’anima, perché era perfettamente consapevole che il futuro della Chiesa richiede sacerdoti ben formati, molto desiderosi di santità e di zelo per le anime. Questa sollecitudine fu particolarmente evidente negli anni dell’immediato post-Concilio, quando in quasi tutto il mondo si cominciò ad avvertire una considerevole diminuzione del numero delle vocazioni sacerdotali. Tale preoccupazione a un dato momento fu così forte da togliergli letteralmente il sonno, mentre lo spingeva a pregare e far pregare senza sosta per questa intenzione.

Purtroppo nella maggior parte dei Paesi — soprattutto nelle Nazioni sviluppate dell’Occidente — continua la scarsezza delle vocazioni sacerdotali, con inevitabili ripercussioni nella cura pastorale dei fedeli. Tutti quanti noi dobbiamo ottenere che il Signore delle messi invii molti più lavoratori nel suo campo (cfr. Mt 9,37-38). Non si deve pensare che questo sia un compito esclusivo dei Vescovi e degli incaricati della pastorale vocazionale: è un compito congiunto dei pastori e dei fedeli, uniti dallo stesso amore alla Chiesa, che ha urgente bisogno di molti e santi sacerdoti. Pertanto, è una responsabilità che riguarda tutti i cristiani implorare Gesù Cristo, Sommo Sacerdote, per questa intenzione, mettendo i mezzi pratici, concreti, che sono alla portata di ciascuno.

Tutti noi dobbiamo parlare di questo tema nella predicazione e nella catechesi, anche per stimolare nei padri e nelle madri di famiglia il santo desiderio che il Signore chiami uno dei loro figli alla via del sacerdozio; utilizziamo i mezzi che ci sono stati affidati — dall’amministrazione del sacramento della Penitenza fino alle occasioni più comuni che ci possano capitare — per aprire orizzonti di donazione a Dio, perché oggi questo è un compito apostolico prioritario. Spargiamo incessantemente la semente delle possibili vocazioni; il divino Seminatore penserà Lui a favorire l’auspicato incremento.

Rafforzare la comunione con i Vescovi

Non posso fare a meno di segnalare la necessità che i sacerdoti, tutti, siano molto uniti al loro Vescovo. Il Signore ce lo ripete in molte maniere, affermando che ogni città o famiglia discorde finirà con l’autodistruggersi (cfr. Mt 12,25); o anche quando dice che i tralci devono restare uniti alla vite (cfr. Gv 15,5) perché diano frutti saporiti e abbondanti. Pensiamo che l’unità fra il clero e il suo Prelato, tra l’Ordinario e i suoi sacerdoti, è stata accolta con una sentenza molto significativa dal Concilio Vaticano II, che cita Sant’Ignazio di Antiochia, paragonando questa stretta unione a quella che esiste fra Cristo e la Chiesa o tra Cristo e Dio Padre[26].

La comunione del clero di ogni Diocesi con il proprio Pastore è uno degli obiettivi concreti indicati dal Papa per questo Anno Sacerdotale. «In linea con l’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni Paolo II — ha scritto Benedetto XVI —, vorrei aggiungere che il ministero ordinato ha una radicale “forma comunitaria” e può essere svolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo. È necessario che questa comunione tra i sacerdoti e con il proprio Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca in diverse forme concrete di fraternità sacerdotale effettiva e affettiva (cfr. Pastores dabo vobis, 74). Solo così i sacerdoti sapranno vivere pienamente il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire le comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo»[27].

Aiutiamo i Vescovi anche per aiutare i sacerdoti. Occorre che tutti noi ci rallegriamo di questa chiara e reciproca interdipendenza che tante magnifiche conseguenze arrecherà a tutto il Popolo di Dio. Sempre, e ancor più nei momenti storici che attraversiamo, questa totale unione si configura come un elemento indispensabile per fare la Chiesa come Gesù Cristo la vuole. Desideriamo dare compimento al mandatum novum (Gv 13,34) con quel carattere che ha un contenuto di obbligazione: perché la Chiesa di Cristo si possa riconoscere, noi pastori dobbiamo amarci come Egli ha amato noi (cfr. ibid. ).

Termino citando ancora una volta San Josemaría, con la speranza di ravvivare sempre più in tutti i presbiteri la santa ansia di stimolare vocazioni sacerdotali. Durante un viaggio nell’America del Sud, quasi alla fine della sua vita terrena, egli si rivolgeva a un gruppo di sacerdoti diocesani incitandoli a preoccuparsi della formazione di quelli che danno speranza di ricevere la chiamata al sacerdozio; e dava consigli concreti: «Cercate aiuti economici e mandate [in Seminario] le anime che state preparando sin da bambini. Date loro vita interiore, insegnate loro ad amare Dio, a trovarlo nella propria anima, ad avere una pietà filiale per la Santissima Vergine, a pensare che la cosa più grande del mondo è essere un altro Cristo e lo stesso Cristo.

«Un proposito fermo: almeno un successore! E, siccome ora sono pochi, almeno due [...]. Se ve lo proponete, cambierete tutto. Basterà volerlo»[28].

La Vergine Santissima, Madre del Sommo ed Eterno Sacerdote e Madre nostra, otterrà per noi da suo Figlio — col nostro impegno concreto — il dono della santità nell’esercizio della nostra attività sacerdotale, in modo da essere strumenti efficaci nella santificazione delle anime che la Trinità Beatissima vuole realizzare col nostro ministero.


Mons. Asenjo presenta il Prelato dell’Opus Dei

nell’incontro con i sacerdoti della sua Diocesi.

È per me un grande onore accogliere nella nostra Diocesi Mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, e presentarlo questa mattina ai sacerdoti. Come ben sapete, la genesi della sua visita è molto semplice. Nei primi mesi di quest’anno alcuni fedeli della Prelatura mi hanno chiesto di invitare il Prelato per poterlo salutare e ascoltare la sua parola, e perché possa benedire la piccola pala d’altare di San Josemaría, che è stata posta nella parrocchia di San Nicolás. Ho accolto subito calorosamente questa proposta e ho scritto una lettera a don Javier nei primi giorni di luglio, invitandolo a venire a Cordova per benedire la pala d’altare, presiedere una riunione con i fedeli dell’Opus Dei e anche per pronunciare una conferenza rivolta ai sacerdoti della Diocesi nel quadro dell’Anno Sacerdotale.

Mons. Javier Echevarría ha accettato con generosità il mio invito e oggi, grazie a Dio, è tra noi. A nome di tutti, gli do il più cordiale e fraterno benvenuto e gli auguro che la sua permanenza a Cordova sia felice e procuri all’Opera e alla Diocesi molti frutti soprannaturali e apostolici.

Monsignor Javier Echevarría Rodríguez è nato a Madrid il 14 giugno 1932. Ha chiesto l’ammissione all’Opus Dei l’8 settembre 1948, a Madrid, e due anni dopo si è trasferito a Roma, dove ha ottenuto il Dottorato in Diritto Civile e in Diritto Canonico.

Ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 7 agosto 1955. È stato uno stretto collaboratore di San Josemaría, del quale è stato segretario dal 1953 sino alla sua morte, nel 1975. Nel 1975, quando Mons. Álvaro del Portillo è succeduto a San Josemaría a capo dell’Opus Dei, Mons. Javier Echevarría è stato nominato segretario generale dell’Opus Dei. Nel 1982, con l’erezione dell’Opus Dei in prelatura personale, è diventato il Vicario Generale della Prelatura.

Dopo la morte di Monsignor Del Portillo, Giovanni Paolo II lo ha nominato Prelato dell’Opus Dei il 20 aprile 1994; poi, il 6 gennaio 1995, nella Basilica di San Pietro, ha ricevuto dalle mani del Papa l’ordinazione episcopale.

Mons. Javier Echevarría risiede a Roma dal 1950 e lì ha vissuto gli avvenimenti più decisivi della storia della Chiesa nel secolo XX: il Concilio Vaticano II e i pontificati di Pio XII, del Beato Giovanni XXIII, e poi di Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Attualmente è membro della Congregazione per le Cause dei Santi e del Supremo Tribunale della Signatura Apostolica. D’altro canto, è Gran Cancelliere di varie Università di tutto il mondo. Come membro di designazione pontificia, ha partecipato a varie Assemblee Generali del Sinodo dei Vescovi. Per confermare nella fede i fedeli dell’Opera ha viaggiato e continua a viaggiare nei cinque continenti. È autore di libri come Memoria del beato Josemaría; Itinerari di vita cristiana; Per servire la Chiesa; Getsemani; Eucaristia e vita cristiana; Per Cristo, con Lui e in Lui.

È una vera grazia di Dio averlo oggi nella nostra Diocesi. Viene a parlarci di un grande tema per noi sacerdoti, indubbiamente il più decisivo e importante: la santità alla quale siamo chiamati per compiere fedelmente il nostro ministero di santificazione. Rinnovo a don Javier il più cordiale benvenuto a Cordova e con molto piacere gli cedo la parola.

+ Juan José Asenjo Pelegrina

Arcivescovo di Siviglia e Amministratore Apostolico di Cordova

[1] BENEDETTO XVI, Lettera ai sacerdoti, 16-VI-2009.

[2] BENEDETTO XVI, Omelia nella Messa crismale, 13-IV-2006.

[3] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.

[4] Cfr. A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, vol. II, pp. 612-613.

[5] SAN JOSEMARÍA, cit.

[6] BENEDETTO XVI, Omelia nella Messa crismale, 13-IV-2006.

[7] Ibid.

[8] MONS. ÁLVARO DEL PORTILLO, “Sacerdoti per una nuova evangelizzazione”, in Consacrazione e missione del Sacerdote, ed. Ares, Milano 2009, p. 125.

[9] BENEDETTO XVI, Lettera ai sacerdoti, 16-VI-2009. Cfr. B. NODET, Le Curè d’Ars. Sa pensée - Son coeur, ed. Xavier Mappus, 1966, pp. 104-105.

[10] CONCILIO VATICANO II, decr. Presbyterorum ordinis, n. 14.

[11] GIOVANNI PAOLO II, Testimonianza a conclusione dell’incontro in occasione del XXX anniversario del Decreto conciliare Presbyterorum ordinis, 27-X-1995.

[12] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia, 7-IV-2003, n. 5.

[13] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.

[14] SAN JOSEMARÍA, Appunti presi in una conversazione familiare, 10-V-1974 (AGP, P01 X-1974, p. 64).

[15] BENEDETTO XVI, Omelia nella Messa crismale, 5-IV-2007.

[16] BENEDETTO XVI, Lettera ai sacerdoti, 16-VI-2009.

[17] Cit. da Benedetto XVI nella sua Lettera ai sacerdoti, 16-VI-2009.

[18] SAN JOSEMARÍA, Appunti di una riunione con sacerdoti a Oporto, 31-X-1972 (AGP, P04, vol. II, p. 758).

[19] BENEDETTO XVI, Omelia nella Messa crismale, 13-IV-2006.

[20] Ibid.

[21] BENEDETTO XVI, Colloquio con i sacerdoti della Diocesi di Albano, 31-VIII-2006.

[22] Ibid.

[23] SANT’AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, 85, 1.

[24] SAN JOSEMARÍA, Appunti presi in una riunione di famiglia, 6-IX-1973 (AGP, P01 X-1973, p. 31).

[25] CONCILIO VATICANO II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 8.

[26] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 27.

[27] BENEDETTO XVI, Lettera ai sacerdoti, 16-VI-2009.

[28] SAN JOSEMARÍA, Appunti presi in una riunione con sacerdoti a Lima, 26-VII-1974 (AGP, P04 1974, vol. II, p. 401).

Romana, n. 49, Luglio-Dicembre 2009, p. 300-312.

Invia ad un amico