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Annus Sacerdotalis (27-VII-2009) Gli insegnamenti di San Josemaría per i sacerdoti: una risposta alle sfide di un mondo secolarizzato.

Rendere presente Dio in tutte le attività umane è la grande sfida dei cristiani in un mondo secolarizzato ed è la meta che San Josemaría ha proposto a migliaia di persone — sacerdoti e laici — durante la sua vita. Il suo messaggio si può riassumere in poche parole: santità personale in mezzo al mondo.

Gesù Cristo si renderà presente e attivo nel mondo: nelle famiglie, nelle fabbriche, nei mezzi di comunicazione, nei campi..., nella misura in cui Cristo vive nel padre e nella madre di famiglia, nell’operaio, nella giornalista, nel contadino...; cioè nella misura in cui l’operaio, il giornalista, il marito o la moglie sono santi. Come affermò Giovanni Paolo II, «occorrono araldi del Vangelo esperti in umanità, che conoscano a fondo il cuore dell’uomo d’oggi, ne partecipino gioie e speranze, angosce e tristezze, e nello stesso tempo siano dei contemplativi innamorati di Dio. Per questo occorrono nuovi santi. I grandi evangelizzatori (...) sono stati i santi. Dobbiamo supplicare il Signore perché accresca lo spirito di santità della Chiesa e ci mandi nuovi santi per evangelizzare il mondo d’oggi»[1].

Questo è il «segreto» di fronte all’indifferenza e all’oblio di Dio: il nostro mondo ha bisogno di santi; qualunque altra «soluzione» è insufficiente. Il mondo attuale, con la sua instabilità e i suoi profondi cambiamenti, reclama la presenza di uomini santi, apostolici, in tutte le attività secolari: «Un segreto. — Un segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi. — Dio vuole un pugno di uomini “suoi” in ogni attività umana. — Poi... “pax Christi in regno Christi” — la pace di Cristo nel regno di Cristo»[2].

L’assenza di Dio nella società secolarizzata si traduce in mancanza di pace; di conseguenza, proliferano le divisioni: tra le nazioni, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nella convivenza quotidiana... Per riempire di pace e di gioia questi ambienti «ognuno di noi dev’essere alter Christus, ipse Christus, un altro Cristo, lo stesso Cristo. Allora potremo intraprendere l’impresa grande, immensa, illimitata, di santificare dal di dentro tutte le strutture temporali portando in esse il fermento della Redenzione»[3]. Siamo tutti chiamati a collaborare a questo compito appassionante, con una visione ottimista di fronte al mondo in cui viviamo: «Per te, che desideri formarti una mentalità cattolica, universale, ne trascrivo alcune caratteristiche: (...) un atteggiamento positivo e aperto di fronte all’odierna trasformazione delle strutture sociali e dei modi di vita»[4].

In questo lavoro di trasformazione del mondo si percepisce anche l’importante ruolo del sacerdote. Ma chi è il sacerdote nella società di oggi? Come può diventare fermento di santità? A questa domanda si può rispondere commentando alcune parole di San Josemaría che definiscono l’identità del sacerdote, anche nel mondo secolarizzato: «Tutti noi sacerdoti siamo Cristo. Io presto al Signore la mia voce, le mie mani, il mio corpo, la mia anima: gli do tutto»[5].

1. «Tutti noi sacerdoti siamo Cristo». Eucaristia e identificazione con Cristo.

Sono certamente i laici coloro che, in modo capillare, rendono presente Cristo nei crocevia del mondo. Al tempo stesso, la vita di Cristo che inizia nel Battesimo ha bisogno del ministero sacerdotale per svilupparsi. La grandezza del sacerdote consiste nel fatto che gli è stato dato il potere di vivificare, di cristificare. Il sacerdote è «strumento immediato e quotidiano della grazia salvifica che Cristo ha meritato per noi». Egli porta Cristo «su questa terra, al nostro corpo, alla nostra anima, tutti i giorni: e Gesù viene, per nutrirci, per vivificarci»[6].

Come pastore di anime e come dispensatore dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1), il sacerdote, specialmente in un mondo indifferente nei confronti della fede, deve incoraggiare tutti affinché progrediscano verso la santità, senza abbassare — per codardia o per mancanza di fede — l’orizzonte del comando divino: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Il sacerdote orienterà altri in questo cammino verso la santità se egli stesso riconosce tale imperativo e se è cosciente del fatto che Dio ha messo nelle sue mani i mezzi per raggiungerlo. La grande sfida per il sacerdote consiste nell’identificarsi con Cristo nell’esercizio del suo ministero sacerdotale affinché molti altri cerchino questa configurazione con il Signore nello svolgimento dei loro compiti abituali.

L’identificazione con Cristo sacerdote si fonda sul dono del sacramento dell’Ordine e si sviluppa nella misura in cui il presbitero mette tutto quanto è suo nelle mani di Cristo. Ciò avviene in modo paradigmatico ed eccellente durante la celebrazione dell’Eucaristia. Nella Messa, il sacerdote presta il proprio essere a Cristo per portare Cristo. San Josemaría esprimeva questa verità con singolare forza: «Arrivo all’altare e la prima cosa che penso è: Josemaría, tu non sei Josemaría Escrivá de Balaguer (...): sei Cristo (...). È Lui che dice: “Questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue”, colui che consacra. Se no, io non potrei farlo. Lì si rinnova in modo incruento il divino sacrificio del Calvario. Di modo che sono lì in persona Christi, facendo le veci di Cristo»[7].

Questa identificazione con il Signore è un tratto essenziale della vita spirituale del sacerdote. Come scrive San Gregorio Magno, «noi che celebriamo i misteri della passione del Signore, dobbiamo imitare quello che facciamo. E dunque l’ostia occuperà il nostro posto davanti a Dio, se noi stessi ci facciamo ostia»[8].

L’intera esistenza sacerdotale si orienta a far sì che il proprio io diminuisca, affinché Cristo cresca nel presbitero: nascondersi, senza cercare nessun tipo di protagonismo, perché appaia solo l’efficacia salvatrice del Signore; scomparire, perché Cristo si renda presente attraverso l’esercizio abnegato e umile del ministero. “Nascondersi e scomparire”[9] è una formula che piaceva molto a San Josemaría. Con essa egli invitava in modo speciale i sacerdoti a preferire il sacrificio nascosto e silenzioso[10] alle manifestazioni appariscenti e vistose.

Paradossalmente, per contrastare l’assenza di Dio in un mondo secolarizzato, San Josemaría propone ai sacerdoti non tanto una forte attività pubblica, con la sua corrispettiva risonanza mediatica, ma semplicemente “nascondersi e scomparire”. In questo modo, con la scomparsa dell’«io» del sacerdote, si propagherà la presenza di Cristo nel mondo, secondo la logica divina che ci viene mostrata nella celebrazione dell’Eucaristia.

«Mi pare che a noi sacerdoti venga chiesta l’umiltà di imparare a non essere di moda; dobbiamo essere veramente servi dei servi di Dio — ricordando il grido di Giovanni Battista: Illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3,30); bisogna che Cristo cresca e che io diminuisca —, per far sì che i comuni cristiani, i laici, rendano presente Cristo in tutti gli ambienti della società (...). Chi ritiene che, per far sentire la voce di Cristo nel mondo di oggi, sia necessario che il clero parli o intervenga sempre, non ha ancora capito bene la dignità della vocazione divina di tutti e di ciascuno dei fedeli»[11].

L’esistenza sacerdotale consiste nel mettere tutto quanto è proprio a disposizione di Dio: prestare la voce al Signore, perché sia Lui a parlare; prestargli le mani, perché sia Lui ad agire; prestargli corpo e anima perché Egli cresca nel sacerdote e, attraverso il suo ministero, in ciascuno dei fedeli cristiani. Davanti alle sfide del nostro mondo, San Josemaría insegna ai sacerdoti umiltà e abnegazione: mettere interamente a disposizione del Signore il proprio io.

2. «Io presto al Signore la mia voce». Familiarità con la Parola e disponibilità per le anime.

L’Eucaristia «riassume in sé tutti i misteri del cristianesimo. Celebriamo, pertanto, l’azione più sacra e trascendente che noi uomini possiamo realizzare, per grazia di Dio, in questa vita»[12]. Il sacerdote presta la propria voce al Signore in modo ineffabile nel pronunciare le parole della consacrazione, che permettono che la forza di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, operi il prodigio della transustanziazione. L’efficacia di queste parole non proviene dal sacerdote, ma da Dio. Il sacerdote, di per sé, non potrebbe dire efficacemente «questo è il mio corpo», «questo è il calice del mio sangue»: non si opererebbe la conversione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Questo, che avviene in modo straordinario durante la celebrazione eucaristica, nel momento più sublime della vita del presbitero, può essere esteso analogamente a tutta la sua vita e al suo ministero.

L’efficacia della parola del sacerdote — nella predicazione, nella celebrazione dei sacramenti, nella direzione spirituale e nel rapporto con le persone — proviene dallo stesso principio: prestare la propria voce al Signore.

a) Familiarità con la voce di Dio

Prestare al Signore la propria voce esige fiducia in Lui; richiede di ascoltare la voce di Dio e di incorporarla alla propria vita. Per acquisire tale familiarità, San Josemaría indica due vie imprescindibili: la vita di orazione e lo studio. Il sacerdote deve dedicare tempo a studiare e a meditare la Sacra Scrittura e ad approfondire la sua formazione teologica affinché risuoni fedelmente la voce di Cristo che parla nella sua Chiesa.

«La predicazione della parola di Dio esige vita interiore: dobbiamo parlare agli altri delle cose sante, ex abundantia cordis, os loquitur (Mt 12,34); la bocca parla dalla pienezza del cuore. E con la vita interiore, lo studio: (...) Studio, dottrina che incorporiamo alla nostra stessa vita, e che solo così sapremo dare agli altri nel modo più opportuno, adattandoci alle loro necessità e alle loro circostanze con dono di lingue»[13].

Il popolo cristiano è assetato della voce di Dio. Il sacerdote non può defraudare questi santi desideri. In questo mondo di oggi, nel quale abbonda la confusione, è necessario che il ministro ordinato sia portavoce fedele della Parola divina: prendersi cura della propria vita spirituale e studiare la dottrina assicura che la propria predicazione non sia eco di voci diverse da quella di Cristo. Seguire fedelmente il Magistero garantisce il fatto che Cristo sia ascoltato nella Chiesa e nel mondo. San Josemaría, inoltre, incoraggiava i sacerdoti a chiedere la luce dello Spirito Santo per saper essere solo suoi strumenti, poiché è il Paraclito che agisce all’interno dell’anima[14]. Prestare la voce a Dio significa inoltre che il presbitero non predica sé stesso, ma Gesù Cristo nostro Signore (cfr. 2 Cor 4,5), facendo eco al Vangelo. In tal modo, l’efficacia della predicazione deriverà dal Signore stesso:

«Dalle parole di Gesù Cristo ben esposte, chiare, dolci e forti, piene di luce, può dipendere la soluzione del problema spirituale di un’anima che vi ascolta, desiderosa di imparare e di prendere decisioni. “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla” (Eb 4,12)»[15].

In qualche modo il sacerdote deve aspirare alla stessa intimità con la Parola di Dio che ebbe la Madonna. Benedetto XVI, a proposito del Magnificat, «interamente tessuto di fili della Sacra Scrittura», descrive questa familiarità della Vergine nei seguenti termini: «Parla e pensa con la Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua, e la sua parola nasce dalla Parola di Dio. Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio»[16].

Il Santo Padre va oltre nel segnalare che la Madonna, «essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, (…) può diventare madre della Parola incarnata»[17]. Qualcosa di analogo avviene nel sacerdote. San Josemaría, riferendosi all’Eucaristia, affermava che, così come Maria portò al mondo Gesù, «i sacerdoti lo portano su questa terra, al nostro corpo, alla nostra anima, tutti i giorni»[18].

Prestare al Signore la voce richiede umiltà: far tacere opinioni personali su questioni di fede, di morale e di disciplina ecclesiastica quando sono dissonanti; essere capaci del giusto distacco dalle proprie idee; operare sempre in favore dell’unione col desiderio di servire. È necessario che il sacerdote parli agli uomini di Cristo, comunichi loro la dottrina di Cristo come frutto della propria vita interiore e dello studio: con santità personale e conoscenza profonda della vita degli uomini e delle donne del suo tempo.

b) Disponibilità per prestare la voce al Signore

Prestare al Signore la voce richiede anche disponibilità. San Josemaría non si stancava di chiedere ai sacerdoti che dedicassero tempo all’amministrazione del perdono divino. Affinché la voce misericordiosa di Dio arrivi alle anime attraverso il sacramento della Riconciliazione, è necessaria una condizione, quasi ovvia ma fondamentale: essere disponibile a ricevere coloro che si avvicinino. Sarebbe un errore pensare che, nel nostro mondo, significherebbe una perdita di tempo. Equivarrebbe a chiudere la bocca di Dio, che desidera perdonare per mezzo dei suoi ministri. San Josemaría sapeva bene per esperienza che, quando il presbitero, con costanza, giorno dopo giorno, dedica del tempo a questo compito, stando fisicamente nel confessionale, questo luogo di misericordia finisce per riempirsi di penitenti, benché all’inizio non si avvicini nessuno. Così descriveva a un gruppo di sacerdoti diocesani in Portogallo nel 1972 il risultato della perseveranza in questo compito:

«Non vi lasceranno vivere, e non potrete pregare nel confessionale, perché le vostre mani unte staranno, come quelle di Cristo — confuse con esse, perché siete Cristo —, dicendo: “Io ti assolvo”. Amate il confessionale. Amatelo, amatelo!»[19].

San Josemaría aveva una fede vivissima nella verità reale che il sacerdote è Cristo, quando pronuncia le parole: «Io ti assolvo». Con grande senso soprannaturale e con molto buon senso, dava consigli pratici affinché la dignità del sacramento non si appannasse, perché esso trasmettesse limpidamente la voce di Gesù Cristo. Per questo amava il confessionale. Comprendeva che, usando tale strumento tradizionale, si favoriscono le disposizioni adeguate — tanto del penitente, quanto del confessore — per facilitare la sincerità e il tono soprannaturale proprio di una realtà sacra.

«Dio Nostro Signore conosce bene la mia debolezza e la vostra: siamo tutti uomini comuni, ma Gesù Cristo ha voluto trasformarci in un canale, che faccia arrivare le acque della sua misericordia e del suo Amore a molte anime»[20].

Parlava dell’amministrazione del sacramento della Penitenza come di un esercizio grato e di una “passione dominante” del sacerdote. Senza dubbio le ore quotidiane dedicate a confessare, «con carità, con molta carità, per ascoltare, per consigliare, per perdonare»[21], sono parte di quel “nascondersi e scomparire”, efficaci per rendere presente Cristo in tante persone e in tanti ambienti.

Quando confessa, il sacerdote — nel suo ruolo di giudice, maestro, medico, padre e pastore — sperimenta la necessità di dare una dottrina chiara, di fronte alle difficoltà che si presentano nella vita dei penitenti. Cosciente di questo, San Josemaría promosse tra i presbiteri un vivo desiderio di conservare e migliorare la scienza ecclesiastica, «specialmente quella necessaria per amministrare il sacramento della Penitenza»[22]. «Fate in modo — scriveva in una occasione ai sacerdoti dell’Opus Dei — di dedicare un po’ di tempo al giorno — anche solo pochi minuti — allo studio della scienza ecclesiastica»[23]. A questo scopo, sollecitò anche incontri, conferenze, riunioni per i presbiteri, ecc.

La rinascita della pratica della confessione sacramentale è una delle grandi sfide del mondo attuale, che ha bisogno di riscoprire il senso del peccato e di sperimentare la gioia della misericordia di Dio. Il sacerdote, rendendosi disponibile per celebrare il sacramento della Riconciliazione e facendo in modo — mediante l’orazione e lo studio — che le sue idee siano in sintonia con la dottrina della Chiesa, risulta assolutamente insostituibile.

Anche i fedeli laici devono sentire la responsabilità di portare i propri colleghi, parenti e amici dal sacerdote perché possano «ascoltare la voce di Dio» e ricevere il suo perdono. La collaborazione tra laici e sacerdoti, in questo campo, è specialmente importante nella società odierna.

San Josemaría riteneva che il sacerdote, anche nel compito di direzione spirituale, è uno strumento per far giungere la voce di Dio alle anime; in questa attività non deve sentirsi né un «proprietario» né un modello: «Il modello è Gesù Cristo; il modellatore lo Spirito Santo, per mezzo della grazia. Il sacerdote è lo strumento e nient’altro»[24]. La direzione spirituale, un’altra delle “passioni dominanti” di San Josemaría, non consiste nel comandare, ma nell’aprire orizzonti, segnalare ostacoli suggerendo come superarli, e nell’incoraggiare a impegnarsi nell’apostolato. Accompagnare, insomma, ciascuno nella scoperta del disegno di santità che Dio ha per lui, e nella risposta generosa a tale progetto divino.

Ciò è possibile se lo stesso sacerdote è convinto che proporre la ricerca della santità significa condurre le persone verso la felicità. Tale persuasione sorge dalla lotta del presbitero per la propria santificazione, ed è frutto del suo amore per la volontà di Dio; inoltre essa è necessaria per contrastare il pensiero laicista che tende a cancellare Dio dall’orizzonte della felicità umana.

3. «Io presto al Signore le mie mani». Amore alla liturgia e obbedienza alla Chiesa.

Nella Santa Messa è Cristo che, attraverso il sacerdote, si offre al Padre per mezzo dello Spirito Santo. Le mani del presbitero, unte durante la cerimonia di ordinazione, sono sempre state venerate dai cristiani, perché portano Cristo, perché dispensano i tesori della redenzione.

San Josemaría aveva una coscienza viva del fatto che la liturgia è azione divina, sacra, e non azione umana. Se un mondo scristianizzato si caratterizza, in buona misura, per l’assenza del sacro, al sacerdote oggi compete la grande sfida di fare del suo meglio per aver cura della liturgia, «prestando a Dio le sue mani» e il suo intero essere.

Ciò significa evitare protagonismi che possono nascondere l’azione divina. Anche nel servizio liturgico vale la formula di San Josemaría: «Nascondersi e scomparire è quanto mi è proprio; solo Gesù risplenda»[25]. Questo principio risponde a una logica di fede e di visione soprannaturale. Solo a partire dalla fede si comprende in profondità l’efficacia soprannaturale che racchiude il principio di «prestare al Signore le mie mani», e si accettano volentieri le conseguenze pratiche alle quali esso porta: fedeltà alla fede e alla dottrina cattolica e obbedienza delicata alle norme liturgiche:

«Mettete sempre un particolare impegno nel seguire con docilità il Magistero della Chiesa Santa; e, di conseguenza, compite, sempre con delicata obbedienza, tutte le indicazioni della Santa Sede in materia liturgica, adattandovi con generosità alle possibili modifiche — che saranno sempre accidentali — che il Romano Pontefice possa introdurre nella lex orandi»[26].

Le mani del sacerdote devono essere quelle di una persona innamorata, che sa trattare con delicatezza tutto ciò che riguarda il Signore e, specialmente, tutto ciò che è in rapporto al culto divino. La trascuratezza delle chiese, degli altari e degli oggetti di culto trasmette inevitabilmente una certa sensazione di assenza di Dio o di indifferenza. Per far fronte al mondo materialista, è necessaria la cura attenta di tutto quanto ha rapporto con la presenza sacramentale del Signore nell’Eucaristia. In una celebrazione liturgica imbevuta di adorazione è racchiusa una sobria bellezza che eleva lo spirito verso Dio e comunica la presenza del sacro. San Josemaría improntò la sua azione all’idea che la dignità del culto non è mai troppa:

«Trattatemi bene gli oggetti di culto: è manifestazione di fede, di pietà e di quella benedetta povertà nostra che, se ci porta a destinare al culto il meglio di cui possiamo disporre, ci obbliga per questo stesso motivo a trattarlo con la più squisita delicatezza: sancta sancte tractanda! Sono gioielli di Dio. “I calici sacri e le sante tele e tutto il resto che appartiene alla Passione del Signore... per la loro associazione al Corpo e al Sangue del Signore devono essere venerati con la stessa riverenza che il suo Corpo e il suo Sangue” (San Girolamo, Epist. 114, 2)»[27].

4. «Io presto al Signore il mio corpo e la mia anima: gli do tutto». Sacerdote al cento per cento.

Dopo aver considerato come il sacerdote presta al Signore la sua voce e le sue mani, arriviamo, come in un crescendo di identificazione con Cristo, a una formulazione onnicomprensiva dell’identità sacerdotale: «Io presto al Signore il mio corpo e la mia anima: gli do tutto». Questa formula, riferita alla celebrazione eucaristica, nella quale il sacerdote agisce in persona Christi Capitis, può essere estesa analogamente all’intera vita del sacerdote, costituendo la sua più intima aspirazione: essere, sempre e in tutto, ipse Christus, lo stesso Cristo.

San Josemaría descriveva con forza questo senso di totalità proprio del sacerdozio. Riferendosi a un gruppo di sacerdoti appena ordinati, lo esprimeva nel seguente modo: «Hanno ricevuto il Sacramento dell’Ordine per essere, né più né meno, “sacerdoti-sacerdoti”, sacerdoti al cento per cento»[28].

Al tempo stesso è evidente che risulta sempre indispensabile la collaborazione tra sacerdoti e laici, ciascuno secondo la missione che gli è propria. Come scriveva San Josemaría, «questa collaborazione apostolica è oggi importantissima, vitale, urgente»[29]. Da una parte perché i presbiteri, come tali, non hanno accesso a molti ambienti professionali o sociali. Dall’altra perché i laici, per essere veramente «altri Cristi», hanno bisogno della vita sacramentale e, pertanto, del ricorso al ministero sacerdotale. Senza vita interiore il laico finirebbe per mondanizzarsi, invece di cristianizzare il mondo: è necessaria una intensa vita soprannaturale per influire cristianamente negli ambienti ove sembra essere scomparsa l’impronta di Dio.

«Nell’esercizio dell’apostolato, i laici hanno assoluta necessità del sacerdote, quando arrivano a quello che sono solito chiamare “muro sacramentale”, come i sacerdoti — specialmente in mezzo all’indifferenza religiosa, quando non si tratta anche di un brutale attacco alla Religione — hanno bisogno dei laici, per l’apostolato»[30].

Questa collaborazione è efficace nella misura in cui si rispetti la natura stessa della vocazione di ciascuno: il laico deve essere «Cristo» nel bel mezzo della strada, nelle normali circostanze della sua vita: nella convivenza con tanti altri uomini, dei quali condivide progetti e desideri. Allo stesso tempo, il sacerdote deve essere sempre e interamente sacerdote, vivendo per sostenere e incoraggiare il desiderio di santità dei fedeli cristiani, con un’abnegata donazione al suo ministero. Difficilmente ci saranno laici che perseverino nell’impegno di cercare la santità nella vita ordinaria senza presbiteri «dedicati integralmente al loro servizio, che si dimentichino abitualmente di sé stessi, per occuparsi soltanto delle anime»[31].

San Josemaría ripeteva con frequenza che aveva “una sola zuppiera” per tutti, il cui contenuto è, in sintesi, la ricerca della santità in mezzo alle occupazioni ordinarie. Da questa “zuppiera” si possono alimentare il padre e la madre di famiglia, l’ingegnere, l’avvocato, il medico, l’operaio e anche il sacerdote. Quest’ultimo esercita un ruolo insostituibile per aiutare i fedeli a essere santi: deve servire tutti, è sacerdote per gli altri. A causa della missione che ha ricevuto da Dio, ha uno speciale obbligo di cercare la santità. «Molte cose grandi dipendono dal sacerdote: abbiamo Dio, portiamo Dio, diamo Dio»[32].

Per questo il fondatore dell’Opus Dei dichiarava che c’è bisogno di essere “sacerdote al cento per cento”: ciò è la conseguenza del fatto di riprodurre in tutta la propria vita quello che il ministro ordinato compie nella Santa Messa: prestare al Signore il corpo e l’anima; dargli tutto. Questo significa anche che il sacerdozio non è una professione, né un compito che occupa parzialmente la giornata, insieme con altre occupazioni. Per San Josemaría non ci sono ambiti dell’esistenza personale che non siano sacerdotali: perfino nelle situazioni apparentemente meno importanti, o nelle occupazioni profane, il sacerdote è sempre sacerdote, scelto fra gli uomini, costituito per gli uomini (cfr. Eb 5,1).

Pienamente coerente con questo «prestare al Signore il mio corpo» è il dono del celibato sacerdotale. In mezzo a un mondo che tende facilmente a banalizzare la dignità del corpo, acquista speciale significato il donare totalmente il corpo a Nostro Signore Gesù Cristo nella celebrazione eucaristica. Il celibato di Gesù Cristo illumina con tutta la sua forza e il suo splendore il celibato del sacerdote. Cristo, nei suoi anni di esistenza terrena e nella vita della sua Chiesa, ha dimostrato a quale grado straordinario di paternità e maternità, di carità senza limiti, si arriva per mezzo di questo dono.

Lungo la sua vasta esperienza pastorale, San Josemaría sperimentò continuamente la necessità di un’identità sacerdotale forte: non è vero che i cristiani vogliono vedere nel sacerdote un uomo tra gli altri; ciò che il popolo cristiano vuole dal sacerdote è che sia sacerdote. Nella società attuale, dove non pochi pretendono di sfumare Dio, i cristiani hanno bisogno di percepire a maggior ragione la presenza di Cristo nel sacerdote; hanno bisogno e sperano «che risalti chiaramente il carattere sacerdotale: si aspettano dal sacerdote che preghi, che non rifiuti l’amministrazione dei Sacramenti, che sia disposto ad accogliere tutti senza porsi alla testa o militare in fazioni umane, quali che siano; che metta amore e devozione nella celebrazione della Santa Messa, segga in confessionale, consoli i malati e gli afflitti; che con la catechesi dia dottrina ai bambini e agli adulti, che predichi la parola di Dio e non l’una o l’altra delle scienze umane — ancorché le conosca perfettamente —, perché quella non sarebbe la scienza che salva e che conduce alla vita eterna; che abbia dono di consiglio e carità verso i bisognosi. In breve, si chiede al sacerdote che impari a non porre ostacolo alla presenza di Cristo in lui»[33].


Quest’ultima frase può forse riassumere la sfida che il mondo attuale lancia ai ministri sacri. Il sacerdote deve rendere presente Dio agli uomini di tutti i tempi; per questo deve imparare a prestare a Cristo la propria voce, le proprie mani, la propria anima e il proprio corpo: tutto ciò che ha. Così avviene principalmente quando amministra i sacramenti o quando predica, ma non solo in questi momenti. La dinamica propria del sacramento dell’Ordine, il cui centro e culmine è l’Eucaristia, porta a donarsi interamente, lungo la giornata, in anima e corpo, a Cristo.

La vita terrena di Santa Maria, Madre di Cristo Sacerdote Eterno e Madre dei sacerdoti, fu un «fiat sincero, pieno di dedizione, portato a compimento fino alle ultime conseguenze, che non si sarebbe manifestato in gesti spettacolari, ma nel sacrificio nascosto e silenzioso di ogni giorno»[34]. Nella vita della Madonna si dimostra l’efficacia di questo atteggiamento. Per questo Maria continua permanentemente a rendere presente Dio nelle case, nelle strade. La Madre di Dio è, spesso, l’ultimo baluardo della fede, dal quale non poche volte sgorga di nuovo la conversione e la scoperta della gioia della vita cristiana in mezzo al mondo.

[1] GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Simposio dei Vescovi Europei, 11-X-1985.

[2] SAN JOSEMARÍA, Cammino, n. 301.

[3] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 183.

[4] SAN JOSEMARÍA, Solco, n. 428.

[5] SAN JOSEMARÍA, Appunti presi durante una riunione familiare, 10-V-1974, citato in J. ECHEVARRÍA, Por Cristo, con Él y en Él, Ed. Palabra, Madrid 2007, p. 167.

[6] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973, n. 39.

[7] SAN JOSEMARÍA, Appunti presi..., cit.

[8] SAN GREGORIO MAGNO, Lib. Dialogorum, 4, 59, citato in SAN JOSEMARÍA, Lettera 8-VIII-1956, n. 17.

[9] Cfr. SAN JOSEMARÍA, Camino, edizione storico-critica preparata da P. RODRÍGUEZ, 3ª edizione, Rialp, Madrid 2004, p. 945.

[10] Cfr. SAN JOSEMARÍA, Cammino, n. 185.

[11] SAN JOSEMARÍA, Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 59.

[12] Ibid., n. 113.

[13] SAN JOSEMARÍA, Lettera 8-VIII-1956, n. 25.

[14] Cfr. SAN TOMMASO, S. Th. II-II, q. 177, a. 1 c.

[15] SAN JOSEMARÍA, Lettera 8-VIII-1956, n. 26.

[16] BENEDETTO XVI, Lett. enc. Deus caritas est, n. 41.

[17] Ibid.

[18] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973, n. 39.

[19] SAN JOSEMARÍA, Appunti presi durante una riunione con sacerdoti diocesani a Enxomil (Oporto), 10-V-1974.

[20] SAN JOSEMARÍA, Lettera 8-VIII-1956, n. 1.

[21] Ibid., n. 30.

[22] Ibid., n. 15.

[23] Ibid.

[24] Ibid., n. 37.

[25] SAN JOSEMARÍA, Lettera in occasione delle nozze d’oro sacerdotali, 28-I-1975.

[26] SAN JOSEMARÍA, Lettera 8-VIII-1956, n. 22.

[27] Ibid., n. 23.

[28] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973.

[29] SAN JOSEMARÍA, Lettera 8-VIII-1956, n. 3.

[30] Ibid.

[31] Ibid.

[32] Ibid., n. 17.

[33] SAN JOSEMARÍA, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13-IV-1973, nn. 42-43.

[34] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 172.

Romana, n. 49, Luglio-Dicembre 2009, p. 283-292.

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