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Bilbao, Spagna (21-III-2009) Conferenza al IV Congresso “Cattolici e vita pubblica” “Convertirsi a Cristo”.

La conversione a Cristo mediante la santificazione del lavoro

È possibile costruire il verbo “convertirsi” con le preposizioni “a” e “in”: esso acquista così, di volta in volta, sfumature particolari.

“Convertirsi a” indica un cambio di disposizioni d’animo, con un particolare riferimento alle convinzioni religiose. In un senso più ampio, vuol dire rivolgere l’attenzione verso un luogo, una persona o una meta diversi da quelli che prima si consideravano o si perseguivano. Il signifi-cato di questo cambiamento nella persona, dunque, è molto vicino a quello della metanoia biblica: l’invito a iniziare una nuova vita come conseguenza dell’annuncio della venuta del Regno di Dio, con cui Giovanni Battista si rivolge alla moltitudine e con cui più tardi Gesù dà inizio alla sua predicazione.[1] La tradizione cristiana, già in epoca apostolica, parlava di conversione in questo stesso senso, ma sottolineando che il Regno, il potere e l’amore di Dio si sono fatti presenti in Cristo. Pertanto, “convertirsi” esprime un volgere lo sguardo verso Gesù, aver fede in Lui, orientare la propria condotta in accordo con la sua parola e la sua persona.

Anche l’altra espressione che abbiamo menzionato, “convertirsi in”, fa riferimento a un cambiamento di vita, indicando però esplicitamente, non solo una nuova direzione dello sguardo e un nuovo orientamento nel comportamento, ma anche un’autentica trasformazione del soggetto, che diventa diverso da quello che era prima. In un contesto cristiano, indica che la conversione ha in sé più, molto di più, che l’accettazione di un messaggio connesso con Gesù o un semplice adeguare il proprio modo di comportarsi ad alcuni ideali proclamati in nome di Gesù. La conversione cristiana si riferisce a una persona: alla persona concreta, reale e viva di Gesù Cristo. Convertirsi significa identificarsi con Gesù, diventare una cosa sola con Lui.

La distinzione fra “convertirsi a” e “convertirsi in” mette in evidenza che il cristiano, ogni cristiano, è chiamato a identificarsi sempre più profondamente con il Maestro, a imprimere al suo modo di camminare un dinamismo in virtù del quale riesca a fare pienamente propri i sentimenti di Cristo[2] e possa pronunciare anch’egli le parole che, riferendosi alla propria persona, scriveva San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.[3]

La considerazione paolina appena citata, e come questa tante altre espressioni simili dell’Apostolo, può raggiungere risonanze di esperienza e di mistica. Questo, del resto, hanno affermato numerosi autori spirituali, cominciando da quella grande figura della Chiesa primitiva che fu Origene,[4] anche se gli esegeti contemporanei si mostrano spesso più cauti.[5] Non è mia intenzione soffermarmi su questa diatriba; desidero invece far notare che l’esperienza spirituale cristiana non rinchiude l’uomo in sé stesso, ma, nell’identificarlo con Cristo, lo spinge — con Cristo e in Cristo — ad aprirsi a tutta l’umanità.

Non solo — e vale la pena sottolinearlo in una giornata come quelle che stiamo celebrando —, ma la fede in Cristo ci spinge a sentire in maniera vigorosa e concreta la responsabilità per quanto ci circonda: per la società alla quale apparteniamo, per l’evoluzione del mondo e per il futuro della storia. In ognuno di questi ambiti, infatti, si deve ripercuotere l’unione con Cristo alla quale ogni cristiano è chiamato. Penso che questo sia messo bene in evidenza dalle parole di San Josemaría Escrivá: «Un segreto. — Un segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi. — Dio vuole un pugno di uomini “suoi” in ogni attività umana. — Poi... “pax Christi in regno Christi” — la pace di Cristo nel regno di Cristo».[6]

Il processo di identificazione con Cristo ha la sua origine e il suo fondamento in Cristo stes-so. È Lui che attrae a sé, mediante l’invio dello Spirito Santo e il ministero della Chiesa; mediante la predicazione del Vangelo, che ci trasmette la memoria e gli insegnamenti di Gesù, e mediante i sacramenti nei quali il Signore si fa presente con la sua forza santificante. Tuttavia, questa iniziativa divina non esclude la cooperazione umana. Richiede, inoltre, la nostra risposta libera, e allo stesso tempo la rende possibile. «La vita di Cristo — insegna San Josemaría Escrivá — è vita nostra, secondo quanto Egli promise ai suoi Apostoli il giorno dell’Ultima Cena: “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Perciò il cristiano deve vivere imitando la vita di Cristo, facen-do propri i sentimenti di Cristo, in modo da poter esclamare con San Paolo: Non vivo ego, vivit vero in me Christus (Gal 2,20), non sono io che vivo, è Cristo che vive in me».[7]

L’esistenza di ogni persona, con tutti gli eventi che la compongono, entra così a far parte del processo di identificazione con il Signore. Il cristiano singolo e concreto, con i caratteri che definiscono la sua personalità, con le sue qualità e i suoi limiti, con il suo modo d’essere e di agire, è chiamato a questa identificazione e, in tal modo, a dare testimonianza di Cristo, a renderlo presente negli ambienti e nelle situazioni dove ognuno si dà da fare. «Salveranno questo nostro mondo — insiste San Josemaría — [...], non quelli che pretendono di narcotizzare la vita dello spirito, riducendo tutto a questioni economiche o di benessere materiale, ma quelli che hanno fede in Dio e nel destino eterno dell’uomo, e sanno ricevere la verità di Cristo come luce che orienta l’azione e il comportamento».[8] In ogni momento — ci ricorda il Romano Pontefice — dobbiamo lasciarci «raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall’amore “folle” di Dio per noi».[9] Niente e nessuno «potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù»,[10] ha scritto San Paolo. Ecco perché il Santo Padre concludeva in modo trasparente: «In questa certezza viviamo. È questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell’amore».[11]

Identificazione con Cristo e santificazione del lavoro

Sono stato invitato a parlare della conversione a Cristo, della identificazione con Lui, non in generale, ma con un riferimento alla santificazione del lavoro. È stato — è — un punto centrale del messaggio di San Josemaría Escrivá, Fondatore dell’Opus Dei, che ha ricordato con insistenza la necessità di situare Cristo sulla vetta di tutte le attività umane.[12]

Mi riferirò al lavoro dando al termine la sua straordinaria forza genuina. In altre parole, con questo termine non solo indico l’occupazione occasionale in una determinata attività, ma anche il lavoro professionale, la dedizione impegnativa in un’attività stabile, grazie alla quale l’uomo si guadagna il sostentamento, mantiene la propria famiglia e contribuisce al progresso sociale. Per-tanto, anche l’insostituibile attività della padrona di casa o quella di chi collabora con lei nell’accudire le famiglie. Così concepito, il lavoro richiede a una persona la decisione di affrontare seriamente e responsabilmente gli obblighi e le attenzioni che la vita comporta. Induce altresì a prendere coscienza delle questioni che si dibattono nella società alla quale ognuno appartiene, a porsi i problemi che attraversano l’esistenza di un essere umano, e ad affrontare le prospettive del futuro.

Il lavoro si configura così come elemento decisivo nel processo di maturazione di ogni per-sona; e si presenta anche come fattore determinante nella maturazione personale come seguace di Cristo e nella ripercussione che possono avere gli ideali cristiani nella società. A una condizione, naturalmente: che, superando ogni tendenza alla frivolezza o alla leggerezza, l’uomo — la donna — prenda coscienza seriamente e interamente delle proprie responsabilità. Un atteggiamento che richiede al cristiano di operare in modo tale che l’intera potenzialità della fede che egli professa dia l’impronta al suo lavoro professionale.

San Josemaría ne ha parlato instancabilmente con una frase che poi è stata costantemente ripetuta: un cristiano deve non solo santificarsi nel lavoro e santificare gli altri per mezzo del lavoro, ma anche, e inseparabilmente, santificare il lavoro in quanto tale.[13] In altre parole, egli è sicuramente chiamato a santificarsi disimpegnando le sue diverse occupazioni e a prendere occasione da queste attività per far scoprire al prossimo orizzonti di comportamento cristiano; ma deve anche — e inseparabilmente, ripeto — santificare queste attività, vivificarle da dentro, secondo la natura propria di ognuna di esse, con la luce e l’impulso che provengono dal Vangelo.[14]

Il lavoro come atto di dominio, di libertà e di amore

Identificarsi con Cristo nel lavoro richiede, da una parte, cogliere a fondo ciò che implica ogni occupazione professionale; e, su questa base, affrontarla e viverla secondo Cristo e in Cristo, in unità di vita. Parliamone più in dettaglio, considerando alcuni caratteri fondamentali dell’azione lavorativa per rilevare, sia pur brevemente, come possano dar luogo a una conversio-ne a Cristo sempre più profonda, con l’aiuto della grazia.

Il racconto biblico sulla creazione presenta il lavoro come la capacità conferita da Dio all’uomo per soggiogare e dominare la terra.[15] Lo sviluppo delle scienze sperimentali e della tecnica ha reso possibile, soprattutto negli ultimi secoli, che tale dominio sia cresciuto e continui a crescere in estensione e in profondità. Una crescita che — come ha indicato Giovanni Paolo II — è in totale coerenza con il mandato biblico; non solo, ma può essere considerata, sul piano storico, come frutto o effetto di questo mandato.[16] È vero, allo stesso tempo, che — già agli inizi dell’era moderna — diverse correnti di pensiero hanno indotto, non solo a una legittima valorizzazione della tecnica, ma a presentarla come l’unica forza dalla quale dipenderebbero la prosperità e il futuro dell’umanità.[17] Le dimensioni etiche e religiose restavano in tal modo relegate in secondo piano, fino a perdere — in un passo successivo — ogni rilevanza.

Contemplando il mistero dell’amore divino verso di noi, rivelato al massimo grado in Cristo, superiamo decisamente ogni falsa divinizzazione della scienza e dello stesso universo, e, allo stesso tempo, spezziamo il cerchio in cui si è chiusa una parte della cultura moderna. Benedetto XVI lo ha esposto con una singolare bellezza nell’omelia pronunciata nella passata celebrazione dell’Epifania. In Cristo, Dio incarnato, ci vien fatto sapere che «l’amore divino è la legge fondamentale e universale della creazione». «Questo — prosegue — non deve intendersi in senso poe-tico, ma reale [...]. Significa che le stelle, i pianeti, l’universo intero non sono governati da una forza cieca, né obbediscono solo alle dinamiche proprie della materia. Gli elementi cosmici non debbono essere divinizzati, giacché, al contrario, in tutto e al di sopra di tutto c’è una volontà personale, lo Spirito di Dio, che in Cristo si è rivelato come Amore». Ecco perché gli uomini non sono schiavi degli «elementi del mondo» (Col 2,8), ma esseri liberi, «capaci di entrare in relazione con la libertà creatrice di Dio».[18]

Cristo — che ci porta la luce, la verità e la pace — libera sia dalla paura che dall’egoismo. Cosciente della sua condizione di figlio di Dio in Cristo, l’uomo può collocarsi davanti al mondo materiale con signorilità e uscire da sé stesso, aprire gli occhi e il cuore alla realtà di un amore infinito. Così è capace di partecipare di questo amore, riversando nel suo lavoro la libertà che Cristo ci ha conquistato,[19] il cui paradigma e modello scopriamo nella vita del Signore stesso.

«Il Padre mio opera sempre e anch’io opero», affermò Gesù, replicando a chi lo criticava per aver compiuto un miracolo nel giorno di sabato.[20] Possiamo applicare queste parole, senza travisarle, anche alle occupazioni di Gesù durante gli anni nascosti a Nazaret. Il Signore spendeva le giornate in obbedienza al Padre, corrispondendo con la sua libera volontà umana all’amore del Padre; un amore infinito che, in Lui, si manifestava all’umanità intera.

Non dobbiamo stancarci di ripetere che il lavoro, ogni attività umana onesta, dà la possibilità di unirsi a Cristo, di partecipare alla piena libertà e al profondo amore con cui Gesù compiva il proprio lavoro. Unito a Cristo, ogni cristiano può così affrontare il suo compito quotidiano con la coscienza della vicinanza divina che lo induce a fare di ognuna delle sue azioni — anche delle più piccole e consuete — un atto di culto a Dio, nella cui paternità confida, e di servizio agli uomini, dei quali si riconosce fratello e che sa di essere chiamato ad amare con un amore che sia l’eco — o meglio, la partecipazione — dell’amore di Cristo.

Il lavoro come servizio

Questo tipo di concezione ci porta a un altro dei punti che desideravo commentare: il lavoro come servizio; e al conseguente aspetto della sua condizione di mezzo per la identificazione con il Maestro. Per questo può essere utile evocare prima un altro aspetto che definisce il lavoro umano: il suo carattere sociale. Più esattamente, la conseguenza della dimensione sociale che ap-pare nella divisione del lavoro. Si tratta di una realtà presente nel corso di tutta la storia, dalla strutturazione elementare delle società primitive fino alla complessità attuale, frutto della crescita tecnologica, della rapidità delle comunicazioni, della moltiplicazione degli scambi commerciali; in una parola, dell’espansione della tecnologia e della globalizzazione.

La divisione del lavoro richiede due atteggiamenti fondamentali: la solidarietà e la fiducia. L’essere umano spera di provvedere alle proprie necessità non solo con l’impegno personale, ma anche con il contributo degli altri, così come egli stesso contribuisce a soddisfare i bisogni degli altri. L’effettivo incremento del bene comune, grazie alla divisione del lavoro, non si ottiene au-tomaticamente — nulla è automatico quando ci si riferisce al libero agire dell’uomo —, ma richiede l’esercizio della volontà.

Il lavoro come atto di dominio richiede l’esercizio di virtù come la laboriosità, l’ordine, la pazienza, l’impegno per superare la stanchezza o le difficoltà che sorgono in una determinata attività ecc. La divisione del lavoro richiede, inoltre, l’onestà, la lealtà, la fedeltà alla parola data, la veracità e la sincerità nelle transazioni...; in una parola, la giustizia e tutte le disposizioni spirituali che la preparano o la costituiscono. Se la virtù cede il passo all’egoismo, la retta divisione del lavoro non produce più i suoi frutti, sorge l’ingiustizia e anche lo sfruttamento umano e s’instaurano strutture di peccato, vale a dire strutture o modalità di funzionamento che, essendo nate dall’ingiustizia, contribuiscono a perpetuarla.[21]

A questa realtà — purtroppo non soltanto possibile, ma effettiva — si contrappone agli occhi del cristiano l’esempio di Cristo, che non è venuto a essere servito ma a servire,[22] e che del comandamento dell’amore — di un amore che sia imitazione e partecipazione del suo — fece il segno distintivo dei suoi discepoli.[23] Il lavoro, nella sua realtà concreta ed effettiva, pone il cristiano davanti a un gran numero di situazioni che invitano a guardare Cristo, a convertirsi a Cristo, per lasciarsi penetrare dalla sua parola e dal suo esempio; in sostanza, per fare personalmente propria l’attenzione e la donazione agli altri, che Gesù Cristo predicò e praticò. In tal modo, ogni cristiano si potrà identificare con Lui, rendendolo presente fra gli uomini.

Nel disimpegno degli obblighi quotidiani, nella convivenza con i compagni o i colleghi, nell’incontro con quelli che entrano in relazione con noi per motivi di lavoro o di ogni altro tipo, la disposizione di servizio comporta sempre un uscire da sé stessi per prestare attenzione agli altri. Certe volte può anche richiedere atti di autentico eroismo. Così avviene anche per quel che riguarda le grandi questioni che coinvolgono l’umanità nei differenti momenti, e che non possono lasciare indifferente un cristiano. Come afferma San Josemaría Escrivá, «un uomo o una società che non reagiscano davanti alle tribolazioni e alle ingiustizie, e che non cerchino di alleviarle, non sono un uomo o una società all’altezza dell’amore del Cuore di Cristo». Una considerazione che completava aggiungendo: «I cristiani — pur conservando sempre la più ampia libertà di studiare e di mettere in pratica soluzioni diverse, e godendo pertanto di un logico pluralismo — devono coincidere nel comune desiderio di servire l’umanità. Altrimenti il loro cristianesimo non sarà la Parola e la Vita di Gesù; sarà un travestimento, un inganno, di fronte a Dio e di fronte agli uomini».[24]

Non è questo il luogo per enumerare le questioni cruciali del nostro tempo, né per analizzare da quale fonte provengono e come affrontarle alla radice. Desidero tuttavia menzionare le parole di Benedetto XVI all’inizio di quest’anno 2009. Dopo aver ricordato alcuni di questi grandi problemi — l’esistenza di territori che subiscono situazioni di estrema povertà, la crisi economica e finanziaria, le disuguaglianze che in più di un caso accompagnano il fenomeno della globalizzazione, la guerra, il terrorismo... —, invitava a un impegno effettivo per contribuire a risolverli e rimandava, come modello decisivo, alla vita di Cristo. «La povertà che circondò la nascita di Cristo a Betlemme — affermava —, oltre che essere oggetto di adorazione per i cristiani, è scuola di vita per ogni uomo. Ci insegna, infatti, che per combattere la miseria, sia quella materiale che quella spirituale, si deve percorrere quella via della solidarietà che portò Gesù a condividere la condizione umana».[25]

Il lavoro umano, con le possibilità che apre e le questioni che pone, offre molte e varie oc-casioni per assimilare sino in fondo questa dimenticanza di sé, questo desiderio di servizio, questo amore che si manifesta in opere, che hanno caratterizzato di continuo, ora dopo ora, il passaggio di Gesù sulla nostra terra. E, di conseguenza, per identificarci con Lui. Non dimentichiamo che Cristo viene incontro a noi anche attraverso quelli che stanno attorno a noi: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».[26]

Lavoro e croce

Spesso, quando si parla delle occupazioni professionali, se ne accentuano gli aspetti pesanti e spiacevoli, conseguenze penose del peccato. Una insistenza unilaterale su questo punto deforma la realtà e lascia nella penombra alcuni caratteri cruciali e splendidi dell’esperienza umana: il valore del lavoro come fattore di crescita, l’esperienza della creatività e la gioia che tante volte l’accompagnano ecc. Dimentica, inoltre, che nella Sacra Scrittura si fa riferimento al lavoro prima del peccato, e lo si presenta — lo abbiamo già sottolineato — come frutto della capacità di dominare la terra che Dio concesse all’essere umano fin dall’inizio dei tempi. Secondo quanto afferma San Josemaría, «il lavoro non è in sé stesso una pena, né una maledizione, né un castigo: coloro che parlano così non hanno letto bene la Sacra Scrittura».[27] È vero che l’ordine originario è stato danneggiato e sconvolto dal peccato, ma è anche evidente che le parole con le quali Dio annuncia il meritato castigo non abrogano il potere di dominare la terra: dicono soltanto che, allo stato presente, una volta spezzata la primigenia armonia, la terra produrrà «spine e cardi», e il pane, simbolo dei beni necessari alla creatura, potrà essere ottenuto solo con «il sudore del tuo volto».[28]

È un fatto che, nella realtà concreta della vita, il lavoro è unito non solo all’impegno, ma anche alla fatica e al logoramento delle forze fisiche o psichiche. Il succedersi delle giornate apparentemente uguali può suscitare una sensazione di routine e aprire le porte alla pigrizia. I nostri progetti, anche quando sono pensati con cura e messi in pratica con attenzione e diligenza, non sono esenti dal rischio di un insuccesso. Non raramente sarà necessario affrontare compiti difficili. E può anche accadere che compaia l’ingiustizia, l’incomprensione, la maldicenza, l’arbitrarietà o il sopruso, provocando afflizione, dolore, sconforto, rabbia e anche ripugnanza, angoscia e scoraggiamento.

In una situazione del genere, l’uomo può avvalersi della possibilità di entrare nell’intimità più profonda di sé stesso e trovare, grazie alla capacità di reazione caratteristica della natura u-mana, la forza per affrontare le varie sfide con rinnovata decisione. Un cristiano coerente prende allora coscienza che può fare molto di più se volge lo sguardo a Cristo, Dio fatto Uomo, Figlio eterno di Dio Padre, che ha assunto interamente la nostra condizione, eccetto il peccato; che ha caricato su di sé tutto il dolore e la sofferenza della storia dell’uomo, per trasformarli — mediante il suo amore e la sua donazione — in salvezza e vita.

Nell’ascoltare queste parole, il pensiero corre immediatamente alla felicità eterna, a quei nuovi cieli e a quella nuova terra ai quali Dio indirizza la totalità della storia, e dove non vi sarà né morte, né pianto, né lamento.[29] È assolutamente logico che sia così, perché l’uomo è stato creato per la pienezza, e la pienezza dei cieli ci mette davanti l’oggetto della speranza assoluta che il Vangelo ci annuncia. Allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare — come sottolineava Benedetto XVI nell’Enciclica Spe salvi — che questa speranza, proprio perché as-soluta, dà significato alla totalità della storia degli uomini in tutti e in ognuno dei momenti che la compongono. «Il suo regno [il regno di Dio che si manifesta in Cristo] non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge».[30] L’amore manifestato da Cristo vince l’egoismo e il peccato, e costituisce la garanzia che esiste quella pienezza che ogni persona intuisce e alla quale aspira, anche se spesso la s’intravede solo molto vagamente. E pertanto — prosegue il Romano Pontefice —, questo «ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto».[31] Ci conferisce anche «la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore».[32]

Sulla Croce, Cristo, donandosi alla morte, dimostrò che ci amava sino alla fine.[33] Grazie a questa donazione suprema, ci avviciniamo a tutta la vita del Signore, anche a quei momenti della sua predicazione nei quali — come testimonia il Vangelo — provò la fame,[34] il sonno[35] o la stanchezza;[36] e agli altri momenti dei quali non parlano gli evangelisti, ma che non saranno mancati, in cui — come artigiano a Nazaret — avrà provato lo sforzo e la fatica.

In tutte le situazioni che un’esistenza di lavoro procura, sia quelle caratterizzate dalla creatività e dalla gioia, sia quelle segnate dalla difficoltà, dall’insuccesso o dallo sfinimento, il cristiano può e deve unirsi a Cristo e, in Cristo, a Dio Padre, mediante la grazia dello Spirito Santo. Alcune volte anche per ringraziare dei doni ricevuti o per sollecitare luce e aiuto, o per chiedere perdono quando ci accorgiamo di errori e difetti. Altre volte per offrire — unendoli alla Croce del Signore — il dolore e la sofferenza personale. Un cristiano è in condizioni di trovare — nel proprio lavoro — i quattro fini del sacrificio redentore di Cristo: l’adorazione, il ringraziamento, la richiesta e la riparazione.[37] Così facendo, la conversione a Cristo ci otterrà una vera identificazione con Lui. E il cristiano potrà mostrarsi in qualunque circostanza — pur non mancando limitazioni e difetti — come testimone dell’amore e della speranza che Dio ha fatto presenti nella storia.

Desidero terminare il mio intervento con alcune parole di San Josemaría, che si adattano molto bene al tema di queste giornate: «È la fede in Cristo morto e risorto, presente in tutti i momenti della vita, che illumina le nostre coscienze stimolandoci a partecipare con tutte le forze alle vicissitudini e ai problemi della storia umana.

In questa storia, che iniziò con la creazione del mondo e terminerà alla fine dei secoli, il cristiano non è un apolide. È un cittadino della città degli uomini, che ha l’anima piena del desiderio di Dio e che già in questa tappa del tempo comincia a intravvedere il suo amore, riconoscendo in esso il fine a cui sono chiamati tutti coloro che vivono sulla terra».[38]

[1] Cfr. Mt 3,2 e 4,17.

[2] Cfr. Fil 2,5.

[3] Gal 2,20.

[4] Cfr. ORIGENE, In Lucam homiliae, 22 (PG 13, 1857).

[5] Sulla dottrina paolina riguardo alla presenza di Cristo nel cristiano si può consultare, fra i tanti altri scritti, L. CERFAUX, El cristiano en San Pablo, Bilbao 1965, e più recentemente J. A. FITZMYER, Paolo. Vita, viaggi, teologia, Brescia 2008.

[6] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Cammino, n. 301. Sul significato più profondo di questo punto, vedi Ca-mino. Edición crítico-histórica preparada por Pedro Rodríguez, 3ª ed., Madrid 2004, pp. 483-486.

[7] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 103.

[8] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Discorso in occasione di una laurea honoris causa all’Università di Na-varra, 9-V-1974.

[9] BENEDETTO XVI, Discorso all’Udienza Generale, 26-XI-2008.

[10] Rm 8,39.

[11] BENEDETTO XVI, Discorso all’Udienza Generale, 26-XI-2008.

[12] Cfr. SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, nn. 105 e 183; Colloqui, n. 59.

[13] Cfr. SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Colloqui, nn. 10, 24, 70; È Gesù che passa, n. 46; Amici di Dio, n. 120, ecc.

[14] Sulla nozione di “santificazione del lavoro” vedere F. OCÁRIZ, El concepto de santificación del trabajo, in “Naturaleza, gracia y gloria”, Pamplona 2000, capitolo 12, e J.L. ILLANES, ¿Qué significa “santificar el traba-jo”?, in “Existencia cristiana y mundo”, Pamplona 2003, capitolo 8.

[15] Cfr. Gn 1,28.

[16] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Laborem exercens, 14-IX-1981, n. 4.

[17] Cfr. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe salvi, 30-XI-2007, nn. 16 ss.

[18] BENEDETTO XVI, Omelia nella solennità dell’Epifania, 6-I-2009.

[19] Cfr. Gal 5,1.

[20] Gv 5,17.

[21] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 30-XII-1987, n. 36 e passim; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1869.

[22] Cfr. Mc 10,45.

[23] Cfr. Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-37; Gv 13,33-38 e 15,9-17.

[24] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 167.

[25] BENEDETTO XVI, Omelia nella solennità di Santa Maria, Madre di Dio, 1-I-2009. L’omelia, in diversi passi, riprende una parte del Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace che si celebra quello stesso giorno.

[26] Mt 25,40.

[27] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 47.

[28] Cfr. Gn 3,17-19.

[29] Cfr. Ap 21,1-4.

[30] BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe salvi, 30-XI-2007, n. 31.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem, n. 37.

[33] Cfr. Gv 13,1.

[34] Cfr. Mc 11,12-13.

[35] Cfr. Mt 8,24.

[36] Cfr. Gv 4,6.

[37] Cfr. G. DERVILLE, La liturgia del trabajo. «Levantado de la tierra, atraeré a todos hacia mí» (Jn 12,32) en la experiencia de San Josemaría Escrivá de Balaguer, in “Scripta Theologica”, vol. XXXVIII, fasc. 2 (maggio-agosto 2006), pp. 841-849.

[38] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 99.

Romana, n. 48, Gennaio-Giugno 2009, p. 87-95.

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