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Una proposta filosofica per la santificazione del lavoro: il “negozio contemplativo”

Maria Pia Chirinos

Pontificia Università della Santa Croce

La chiamata universale alla santità attraverso il lavoro professionale e le circostanze personali di un cristiano in mezzo al mondo è una verità sempre più diffusa, più accettata e anche più sperimentata. A differenza del XX secolo, il secolo XXI inizia il suo percorso con una percezione del tutto diversa della responsabilità che ha il fedele laico nel suo ruolo specifico di redimere le realtà umane. Il Magistero di Giovanni Paolo II ha confermato questo messaggio, esplicitamente presente nel Concilio Vaticano II e annunciato in modo particolare da san Josemaría Escrivá.

In uno dei suoi scritti fondazionali, un testo risalente al 1934, san Josemaría dimostra di essere cosciente della novità: “Unire il lavoro professionale alla lotta ascetica e alla contemplazione — cosa che potrebbe sembrare impossibile, ma che è indispensabile per contribuire a riconciliare il mondo con Dio — e trasformare il lavoro ordinario in uno strumento di santificazione personale e di apostolato. Non è, questo, un ideale nobile e grande, per il quale vale la pena dare la vita?”[1]. Un primo sguardo al testo lascia intravedere la difficoltà che san Josemaría prevede nell’esporre questo cammino di santità che Dio gli chiede di sostenere, ma la sua “tattica” non consisterà nel tentare di convincere mediante un corpus teorico di verità. La vita — il fenomeno ascetico, pastorale — precederà tutto; e a questo “ideale nobile”, a dargli impulso e a diffonderlo tra le persone di tutti gli ambiti sociali e culturali, dedicherà la sua esistenza, con lo scopo che quanto sembrava impossibile si spogli delle sue ancora apparenti contraddizioni e, confermato dai fatti, si faccia strada nella vita della Chiesa e del mondo.

Anche se la novità del messaggio è stata oggetto di studi particolarmente approfonditi, non apparirà ripetitivo chiedersi nuovamente quali parametri culturali impedivano in quei decenni del XX secolo la comprensione dell’unità fra lavoro, virtù e contemplazione. Una prima risposta deve provenire dalla storia della teologia spirituale cattolica, perché è in quest’ambito che la separazione (e in certi casi la contrapposizione) tra vita contemplativa e vita attiva ha rappresentato un forte impedimento a cogliere la novità del messaggio. Nello stesso tempo, è innegabile che il tema del lavoro aveva già trovato eco nel Magistero della Chiesa, preoccupato della questione sociale; tuttavia, pur essendo ovvia la sua attualità, anche i parametri culturali erano influenzati da schemi filosofici, economici e sociali che impedivano un avvicinamento positivo e antropologicamente più adeguato al tema del lavoro[2].

Lo studio che ora presento ha come fine proprio quello di portare alla luce questi pregiudizi filosofici, molti dei quali ancora presenti nella nostra cultura, e offrire una soluzione antropologica che li superi. In sostanza, se, d’accordo col messaggio del Fondatore dell’Opus Dei, la persona è chiamata a una felicità eterna che si può raggiungere mediante il lavoro professionale, nelle sue più diverse versioni secolari; se l’ardua novità da difendere consiste nell’unire la vita attiva, il lavoro intellettuale o manuale, alla lotta ascetica e alla contemplazione, non si dovrebbe sviluppare una teoria antropologica capace di sostenere queste tesi? Esiste una riflessione del genere? Quali soluzioni prospetta il pensiero filosofico dai greci fino ad oggi?

Il lavoro in base alla prospettiva aristotelica

Per ciò che riguarda la filosofia sul lavoro, ho individuato ben tre tradizioni o correnti di pensiero: quella aristotelica, quella protestante e quella marxista. Le denomino così — tradizioni — perché, pur essendo proposte sul lavoro che nascono in un momento e in un luogo concreti, tutt’e tre riappaiono nel XX secolo con pensatori di rilievo e con opere che hanno segnato profondamente la disputa filosofica. Sono, dunque, tradizioni vive, che in qualche modo cercano di dare ragione dell’attività lavorativa e che indubbiamente apportano chiavi ermeneutiche capaci di illuminare lo sviluppo storico e sociologico del mondo contemporaneo. Per questioni di spazio, ma soprattutto per la posizione critica che adotto, in queste righe mi riferirò soltanto alla tradizione aristotelica[3].

Come premessa, vale la pena ricordare che nella filosofia classica in generale, e in quella aristotelica in particolare, il lavoro occupa un posto chiaramente secondario. Nella Politica, pur avendo corretto alcune posizioni platoniche per dare spazio a tesi di grande spessore come la libertà e l’uguaglianza nella polis, Aristotele rispetta la separazione tra arti liberali e arti servili[4], che equivale pienamente a un’altra distinzione capitale per il nostro tema: quella che si fa tra l’uomo politico (vale a dire, colui che fa parte della polis o città) e il non politico (la donna e lo schiavo che fanno parte dell’ambito della oikia o casa, si dedicano al lavoro manuale e non posseggono appieno la natura umana[5]). Essere cittadino significa poter raggiungere nella polis la “vita buona”, vale a dire, una vita perfetta, razionale, libera, virtuosa e autosufficiente[6]. Per partecipare nella polis, tuttavia, l’uomo ha bisogno di essere assistito nelle sue necessità fisiche e quotidiane; un’assistenza che gli eviti proprio di doversi dedicare a lavori che appannino o riducano la sua capacità razionale[7].

Nella oikia, pertanto, si fanno tutte quelle attività che giovano alla “vita” quotidiana, che a loro volta sono deputate ad alimentare la “vita buona” del cittadino. La oikia è un ambito con una serie di norme, dove non c’è uguaglianza tra i suoi membri, sottoposti al “governo di uno solo”[8], del “despota”[9] o capo famiglia, che riunisce in sé e rappresenta tutti quelli che fanno parte della casa. In questo ambito l’attività per eccellenza è il lavoro manuale, ma il suo soggetto per eccellenza è lo schiavo o strumento animato. Ci troviamo nel settore dell’economia, nel senso più originario del termine: le norme della casa, luogo della produzione e della riproduzione, senza libertà, senza contemplazione della verità e senza virtù propriamente umane.

La proposta dell’Etica Nicomachea sulla ragione completa questa prima spiegazione filosofica del lavoro[10]. L’anima presenta tre tipi di “ragioni”, o meglio di “usi della ragione”[11], con oggetti propri: la teoria, che si rivolge a oggetti universali e necessari e li possiede immanentemente e intenzionalmente; la prassi, che perfeziona moralmente il soggetto mediante l’azione e dà luogo all’abito virtuoso o vizioso (tradotto in latino con la parola agere, actio); la poíesis, che rappresenta il fare o produrre, soprattutto manuale e materiale (in latino: facere o factio), in base al quale si acquisisce l’abito della téchne[12]. “Né l’azione è produzione, né la produzione è azione”, distingue lo Stagirita[13]. È proprio dell’atto poietico — imperfetto e transitivo — finire di esistere quando il prodotto è ottenuto. A differenza della teoria e della prassi etica, la tecnica non perfeziona il soggetto in quanto uomo. Il manufatto prodotto è misura dell’azione di produrre: è la sua verità e il suo bene e, quindi, è il paradigma del lavoro.

L’uomo, invece, si dedica alla contemplazione e alla virtù, secondo la nota attività che i greci chiamano schole e i latini otium in contrapposizione alla a-schole e al nec-otium, che sono i termini per il lavoro. Ci troviamo davanti a una proposta di umanesimo aristocratico: solo chi possiede pienamente la natura umana è capace della “vita buona”, di sviluppare la teoria e la prassi-etica nella polis, e proprio per questo non occorre che lavori.

Perché il pensiero aristotelico sul lavoro può essere considerato una tradizione? Perché l’hanno trattato molti autori contemporanei di diversa origine, come Hannah Arendt o Dominique Méda o anche Joseph Pieper. Questo interesse di taglio neo-aristotelico per il tema del lavoro, assente come tale nella filosofia greca, appare quando il lavoro comincia a occupare un posto preminente nella cultura. Non si tratta, dunque, di una semplice coincidenza di interesse per la filosofia antica, ma di una risorsa che questi autori scoprono per denunciare una civiltà incentrata nel lavoro, nella quale è necessario superare l’onnipresenza del lavoro. In concreto, nel caso di Pieper, la sua difesa dell’ozio è una chiara reazione anti-marxista e anche anti-weberiana, che vuole restituire alle attività spirituali e intellettuali dell’uomo e della donna l’egemonia perduta con il materialismo dialettico e con l’esaltazione del lavoro come burocrazia.

Hannah Arendt e la distinzione tra lavoro manuale e lavoro creativo

Tra gli autori menzionati, la posizione forse più conosciuta e più influente è quella di Hannah Arendt nella sua opera The Human Condition[14]. In essa si distinguono tre tipi di attività dell’essere umano: il lavoro manuale, il lavoro creativo e l’azione. La nostra esistenza — commento quel che scrive questa autrice verso la fine degli anni ’50 — si manifesta, da un lato, in azioni ordinarie, metaboliche, inesorabilmente ripetitive, che terminano in prodotti di immediato consumo. È il lavoro manuale (the labour of our body) che comporta una vita di tipo più che altro animale, e il cui soggetto del resto riceve il nome di animal laborans. Il lavoro manuale soddisfa le necessità quotidiane del nostro corpo e poco o nulla ha in comune con l’azione eroica o con il prodotto culturale. Infatti il lavoro creativo (the work of our hands), proprio dell’homo faber, contribuisce direttamente a creare un mondo artificiale di cose e manifesta la libertà del lavoratore, che è autore della civiltà perché è capace di inventare macchine, costruire edifici, aiutare l’animal laborans con strumenti o “muti robots”[15], ecc. Gli ideali dell’homo faber sono la stabilità, la durata, in contrapposizione con il consumismo e l’edonismo presenti nell’animal laborans, in cui il corpo e le sue necessità comandano e schiavizzano l’uomo.

Il lavoro manuale non richiede particolari abilità, e il suo valore è dovuto soltanto alla quantità che produce; una quantità che, secondo Arendt, sarà consumata per le necessità vitali e non lascerà traccia nella cultura. Il lavoro creativo, al contrario, esige particolari abilità e perciò si distingue dal lavoro manuale per le sue qualità: rivela l’uomo libero e intelligente, che trasforma il mondo anche con la violenza, ma senza atti ripetitivi o metabolici. Tuttavia, solo a livello dell’azione — il terzo tipo di attività — la condizione umana raggiunge la perfezione perché è capace di dedicarsi al raziocinio e alla virtù, con fatti eroici che dovrebbero caratterizzare la vita pubblica e che sono la condizione di ricchezza della storia. Ci troviamo nuovamente di fronte a una esaltazione di ciò che è straordinario come conseguenza di un umanesimo aristocratico, di chiare radici aristoteliche.

È vero, Arendt formula una grande denuncia: viviamo in una società che ha emancipato lo schiavo dell’epoca classica, collocandolo nella sfera pubblica, ma conservandolo nella sua identità. L’animal laborans e il suo consumismo hanno trasformato l’economia domestica in una economia pubblica dello spreco, dell’abbondanza, che fa dipendere la felicità dal piacere. Nello stesso tempo la nostra società ha perduto la nozione di virtù, di libertà, a scapito di una più rigorosa produttività materiale, che prima era circoscritta alla sfera privata.

Seguendo questa denuncia, alla fine degli anni ’90, la sociologa francese Dominique Méda riprende la distinzione di Arendt e propone di “disilludere il lavoro”[16]. La sua onnipresenza nel mondo contemporaneo implica un significato predominantemente materialista o economicista, e con esso l’egemonia del ripetitivo e di ciò che è strettamente fisico o metabolico. Méda tende a reintrodurre nella vita umana i valori di autonomia e di tempo libero, che permettano all’uomo e alla donna di svolgere atti virtuosi ed eroici, e con essi di coltivare nuovamente l’otium[17].

Indipendentemente dalla discutibile distinzione proposta da Arendt tra lavoro manuale e lavoro creativo[18], è evidente che dietro a queste posizioni si trova una definizione di lavoro manuale e di lavoro creativo strettamente dipendente dal prodotto. Nel caso del lavoro manuale, il prodotto è perituro, si consuma e scompare. Nel lavoro creativo esso permane, e questa permanenza gli conferisce un valore culturale. Eppure nessuna di queste attività può definirsi senza il “paradigma del prodotto”, già presente in Aristotele. Inoltre, entrambe si trovano come in compartimenti stagni tra loro e anche rispetto all’azione. Soltanto l’azione è capace di aprirsi verso la virtù e l’ozio, e, in questa misura, soltanto essa può concedere all’essere umano la felicità.

Il lavoro come nozione oscillante e la sua relazione con l’antropologia

Nell’avvicinamento di Arendt alle nozioni di lavoro manuale e di lavoro creativo, c’è quella che si potrebbe chiamare un’oscillazione intrinseca che cerca di prendere le distanze da un’altra definizione fondamentale: quella di essere umano. Infatti, nel pensiero classico, il lavoro creativo o il lavoro manuale si contrappone prima di ogni cosa all’otium e alle arti liberali come attività escludenti. Più tardi, con l’apparizione della vita monastica intesa come un appartarsi dal mondo, anche la vita contemplativa e la vita attiva rispecchiano una certa contrapposizione[19]. Il lavoro mostra una difficoltà inerente ad essere definito: non solo le sue oscillazioni dipendono dall’attività alla quale si oppone e rispetto alla quale in genere si trova subordinato, ma anche, in questa contrapposizione, non si trova dal lato dell’eccellenza o della perfezione. Nella filosofia greca, a lavorare sarà lo schiavo, incapace di raggiungere la felicità della “vita buona”; nella tradizione monastica cristiana la contemplazione del monaco farà sì che l’ideale di vita perfetta si identifichi — tendenzialmente o implicitamente — con quell’atteggiamento contemplativo che è “la parte migliore”, propria di Maria e non di Marta (Lc 10,42); nell’era moderna, poi, benché con lo sviluppo della tecnica la vita attiva o il lavoro raggiunga una certa preminenza, il lavoro manuale sarà sostituito poco per volta dalla macchina e il tipo di lavoro veramente umano che comincerà a occupare il posto egemonico sarà quello intellettuale. È questo ciò che denomino “nozione oscillante” o nozione senza una propria identità: il lavoro — e più in particolare la sua prima manifestazione, cioè il lavoro manuale — è ciò che è “opposto a”, ciò che è “subordinato a”. Il suo punto di contrapposizione sarà in tutti i casi la perfezione umana, la felicità, la piena realizzazione razionale.

Allora, se rimangono contrapposti il lavoro e l’eccellenza umana, da quale ideale di uomo o di donna si parte? Ovviamente, non esiste una teoria antropologica comune a tutte le nozioni oscillanti, in quanto la definizione di uomo e di donna varia a seconda dell’attività che meglio li rispecchia. Ad ogni modo, nel XX secolo la tradizione che ho chiamato aristotelica continua a considerare il lavoro intellettuale chiaramente superiore. Per tutto ciò che è propriamente umano, scriverà Joseph Pieper, “è essenziale trascendere i limiti dell’umano e aspirare al regno degli angeli, dei puri spiriti”[20]. Il lavoro come fatica, il lavoro come attività meccanica e produttiva di “un piano quinquennale” (sul fronte del marxismo) o come attività semplicemente burocratica (sul fronte della posizione di Max Weber), non permette la contemplazione, né la virtù, né quindi la felicità dell’essere umano. Ecco perché Pieper difende l’ozio intellettuale come libero sapere, come origine della cultura, come un’attività preziosa per la sua inutilità e colloca l’ozio a un livello superiore, accettando a malapena e con molti distinguo il termine “lavoro dello spirito”[21].

Ciò nonostante, sia in questa corrente neo-aristotelica, che del resto coincide col meglio della tradizione platonica, sia nelle altre teorie che si occupano del lavoro, è possibile scoprire un accordo antropologico tacito e quasi dogmatico: il valore insignificante del corpo, della materia, e con ciò dell’essere umano vulnerabile e dipendente, oltre che delle azioni che costituiscono la vita quotidiana. Una conseguenza diretta di questo approccio sarà che questa sottovalutazione riguarda le opere manuali, perché il progresso le ha rese obsolete e carenti di razionalità. Dovranno essere sostituite a poco a poco dalla macchina.

Nel corso della storia della filosofia, vale a dire, da venticinque secoli, si è passati da un evidente e scarso interesse per il tema del lavoro (prima in un modo generale e, in tempi moderni, nella sua versione più specifica di lavoro manuale) a una esaltazione dell’uomo (e, recentemente, della donna) nella sua dimensione di eroe, di nous o intelletto, di anima contemplativa, di ragione scientifica e pura, di libertà autonoma o di superuomo o superdonna. L’enumerazione può sembrare troppo generica o artificiosa, ma è fondamentalmente corretta e implica una esclusione dannosa e pericolosa per l’antropologia: l’erronea comprensione della dimensione corporale dell’uomo.

Le poche voci dei nostri tempi che meglio denunciano questa situazione si trovano, in maggioranza, nell’area anglosassone e in concreto negli Stati Uniti[22]; e si levano per criticare la scarsa comprensione del valore del corpo, delle sue necessità basilari, specialmente nei momenti estremi di una malattia. Queste posizioni, inoltre, si stanno evolvendo verso un interesse per i lavori manuali e soprattutto per quelli che consistono in atti quotidiani privi di un apparente rilievo a livello pubblico, e il cui disprezzo, da parte della rivoluzione industriale, sembrava ineluttabile. Si cerca di recuperare le ricche tradizioni e le culture intorno alle professioni responsabili del “vivere”, come quelle legate all’alimentazione, al vestiario e alla casa; e si mira anche a scoprire la loro influenza positiva sul “buon vivere” all’interno di una società altamente tecnologica e sempre più disumanizzata.

Alcune soluzioni mediante la filosofia: lavoro e virtù

Alla luce di queste ultime idee, una prima critica potrebbe essere la seguente. Se si definisce il lavoro in base al prodotto, allora l’attenzione si posa su beni esterni al lavoro stesso: il loro valore economico, il cosiddetto valore artistico o culturale, la loro valutazione sociale, ecc. Fatta questa premessa — che coincide con il lavoro definito attraverso il “paradigma del prodotto”, che è l’oggetto della critica —, è inevitabile ammettere che vi siano lavori di maggiore o minore importanza ed è più difficile stabilire una relazione fra il lavoro, specialmente quello manuale, e l’autentica perfezione o felicità dell’uomo o della donna. Inoltre, definire il lavoro secondo il prodotto vuol dire gettare le basi per un economicismo alla lunga inevitabile. E qui si incontrano anche le altre due tradizioni filosofiche, che non abbiamo preso in esame, ma che sono sufficientemente conosciute: l’etica del successo calvinista, di origine protestante, che a sua volta è alla base del capitalismo[23], e la filosofia marxista, che vede nel lavoro o prassi la condizione più alienante dell’uomo, proprio perché, secondo la sua concezione materialista, il lavoratore vale quel che vale il prodotto del suo lavoro. La bibliografia al riguardo è abbondante.

Ma se il lavoro non viene definito principalmente in base al suo prodotto, qual è, allora, l’alternativa? È possibile definirlo in base alla sua indole oscillante e dargli una posizione antropologica più importante? La soluzione consisterebbe — secondo me — nel concepire ogni lavoro come un canale di beni interiori per chi lo esercita[24]. In altre parole, il lavoro — ogni lavoro — si definisce come un’attività chiaramente umana, eseguita grazie alla razionalità pratica, che esige dal lavoratore alcune condizioni o inclinazioni precise e favorisce le abilità acquisite mediante l’impegno, la concentrazione e l’esercizio. Esattamente come MacIntyre ha sostenuto[25], ogni lavoro, anche quello intellettuale, si configura come una professione che si basa sui progressi cognitivi teorici e pratici, con errori, rettifiche e successi, che concorrono a creare una tradizione culturale e lavorativa in grado di arricchire la professione che si esercita.

Questo arricchimento non è un bene individuale, come lo sarebbe e in genere lo è il prodotto del lavoro, ma un bene comune, un bene sociale. È l’intera comunità dei lavoratori — ognuno nella sua professione specifica —, e di conseguenza la società, a beneficiare dei successi intrinseci della professione in questione. Questa dimensione sociale riflette un’altra nota di interesse: il lavoro si apprende all’interno di una comunità e richiede da parte di chi insegna obbedienza alle regole e alle tradizioni.

Per tutti questi motivi il lavoro inteso come professione stimola atteggiamenti che in questi ultimi tempi sono stati dimenticati. Da una parte, mette il lavoratore di fronte alla realtà, perché la sua attività parte e si confronta con le cose concrete; chiede di ammettere gli errori nel suo operato per poterli correggere, di riconoscere i successi di quelli che esercitano la sua stessa professione, e questo confrontarsi con la realtà rende difficili le scuse, le giustificazioni o l’elaborazione di una teoria che tenti di spiegare l’errore commesso nel lavorare. Alcuni autori arrivano ad affermare che il lavoro manuale può essere una buona strada per cominciare a dubitare del relativismo culturale imperante[26].

Non fa lo stesso possedere una tecnica o non possederla, lavorare correttamente o fare “pasticci”: questo è incompatibile con un atteggiamento che ammette tutto come buono o tutto come vero. Almeno, incita alla riflessione. D’altra parte, il lavoro come professione stimola l’impegno o la fedeltà di chi lavora, perché lo spirito di un artigiano autentico è quello di migliorare la propria attività e di cercare i beni intrinseci alla professione, senza tirarsi indietro di fronte alle difficoltà[27]. Nel lavoro così concepito manifestiamo il nostro essere e il nostro fare dipendenti: dipendenti dalla nostra condizione corporea, che è la causa dell’impegno che ogni lavoro comporta; dipendenti dalla realtà alla quale la professione si rivolge, che non possiamo inventare o interpretare arbitrariamente, e che esige rispetto, apprendimento, prove e correzioni; dipendenti, infine, dagli altri, con i quali coltiviamo rapporti e che serviamo.

Last but non least, il lavoro è un’attività intrinsecamente aperta a una dimensione morale: pur distinguendosi da essa, rappresenta la sua condizione di possibilità. Non solo, ma il lavoro è il mezzo più comune o abituale a disposizione dell’uomo e della donna di oggi per raggiungere determinate virtù e, attraverso di esse, la perfezione morale che conduce alla felicità. Questa relazione è altrettanto necessaria come lo è la sua distinzione. Infatti, già Aristotele avvertiva che lavoro e dimensione morale non si possono identificare[28], ma non arrivò a sostenere la loro interdipendenza: anzi, la negò esplicitamente riducendo il lavoratore all’ambito della “vita” nella oikia e insegnando la virtù intorno alla “buona vita” della polis. In ciò, però, commise un errore antropologico. Oggi questa separazione è insostenibile; anzi la relazione tra lavoro e morale va affrontata sino alle ultime conseguenze, vale a dire, ammettendo anche la possibilità che il lavoro conduca verso la corruzione.

La condizione umana dipendente: vulnerabilità e diligenza

Alcuni filosofi contemporanei di grande statura — come, ad esempio, Paul Ricoeur o Robert Spaemann — hanno escogitato interessanti soluzioni per arrivare alla nozione di persona umana a partire dalla interdipendenza razionale. Tuttavia manca un riferimento più esplicito alla dimensione corporea della nostra esistenza, che dal razionalismo e dalla res extensa cartesiana è stata concepita soprattutto secondo coordinate astratte e meccaniciste[29]. In uno dei suoi ultimi libri, Animales racionales y dependientes, Alasdair MacIntyre propone una interessante soluzione nei seguenti termini: malgrado la lusinghiera tradizione moderna che concepisce l’uomo in base alla ragione autonoma e malgrado anche le interpretazioni su Aristotele che, nel definire l’essere umano come animale razionale, mettono da parte l’evidente animalità, dobbiamo ammettere che non siamo esseri totalmente autarchici, né angeli o ragioni pure, ma uomini e donne limitati e dipendenti.

Parlare di dipendenza e fragilità come di una condizione umana positiva[30] vuol dire abbandonare l’idea che le necessità fisiche siano segnali esclusivi della nostra animalità o di una parte irrazionale. È vero che se non avessimo corpo non ci sentiremmo pressati da necessità basilari come il mangiare, il vestire, l’abitare, però il modo in cui le sentiamo e il modo di soddisfarle non è una cosa semplicemente materiale o istintiva; soddisfare queste necessità non si riduce, come sosteneva Aristotele, a un semplice “vivere” nel senso di “sopravvivere”. Nell’uomo e nella donna mangiare e bere, vestirsi e abitare sono o possono essere anche azioni aperte, innovative, creatrici di cultura, razionali e libere, ma proprio per questo possono essere nello stesso tempo degradanti e mostruose. Neanche qui troviamo neutralità: non sono atti naturali o biologici, ma sono caratterizzati da una dimensione culturale per cui non sono più esclusivamente animali in quanto sono umani[31].

Alasdair MacIntyre — seguendo san Tommaso d’Aquino — accenna al significato della misericordia, una virtù cristiana che manca nella filosofia aristotelica, nella quale si manifesta in modo particolare la solidarietà davanti alle necessità fisiche di base[32].

Grazie alla misericordia, nelle situazioni urgenti ed estreme — tanto caratteristiche della nostra condizione vulnerabile — nessuno bada alle preferenze delle persone. Al momento di una malattia, di una situazione infraumana, generalmente la misericordia emerge sotto forma di un’attività di solidarietà, di una dedicazione alle necessità più elementari e ordinarie, allo scopo di dare un aiuto per uscire dalla situazione di emergenza.

Eppure, insieme a tanti movimenti di solidarietà che sono sorti e continuano a sorgere, occorre denunciare un pericolo: che — in alcuni casi; sicuramente non in tutti e probabilmente neppure nella maggioranza — si tratti di una velata necessità di tranquillizzare la coscienza mediante impegni straordinari, ma spesso discontinui, a favore di chi ha più bisogno; una solidarietà, dunque, che, senza per questo volerne sminuire il valore di aiuto reale e urgente, risolve più che altro una situazione di emergenza o anche uno stato soggettivo di insoddisfazione. In sostanza, la solidarietà può anche nascondere un ideale di umanesimo incentrato in ciò che è poco comune, che si collega a un certo tipo di vita — a una vita che merita ogni rispetto —, ma che lascia da parte altre manifestazioni, più proprie della vita quotidiana, che per sé stesse hanno poco rilievo e non fanno notizia.

La sfida della nuova società post-moderna radica proprio in questo: nel dare importanza alla dipendenza fisica mediante la rivalutazione di un’altra dimensione, anch’essa umana e positiva: la diligenza nell’ambito quotidiano. Le due realtà — dipendenza fisica e diligenza nel quotidiano — s’incentrano non tanto nell’infraumano, ma piuttosto in ciò che risulta troppo umano, e forse proprio per questo costituisce ciò che è propriamente umano. La sfida che si profila consiste nella necessità di sviluppare una antropologia che rispecchi l’uomo e la donna di carne e ossa, l’essere umano reale e concreto che soffre, si ammala, fa errori e rettifica (o no), e che ha una identità umana da prima della nascita fino alla morte.

Forse non è del tutto sorprendente che una tale immagine antropologica sia meno percepibile o più difficile da accettare nelle società altamente sviluppate, con un benessere economico prospero e una tecnologia di avanguardia. Questo coincide con ciò che Daniel Bell ha denominato le “contraddizioni culturali del capitalismo”[33], perché stranamente, quando si finisce col porre ogni impegno nell’esaltazione della tecnica e del progresso o nel benessere, sorgono esclusivamente ambiti sociali che hanno grandi difficoltà ad affrontare la sofferenza e la morte. In altre parole, più sono le risorse materiali e meno sono le risorse filosofiche, etiche e anche religiose necessarie per accettare l’inevitabile condizione umana con la sua vulnerabilità e la sua dipendenza. Si può anche dire che tanto maggiore è l’economizzazione nel mondo del lavoro e tanto minore sarà la sensibilità nell’apprezzare quelle attività che possono corrispondere professionalmente alla vulnerabilità e alla dipendenza quotidiane.

I lavori manuali e domestici

In questo consiste il grande paradosso dello Stato del Welfare, che — secondo Alejandro Llano — ha “ignorato la principale sorgente umana dell’autentico benessere: la casa, che è il luogo dove meglio ognuno si trova; la famiglia, come sorgente primaria di servizi personalizzati, che sono giustamente quelli che si cominciano a richiedere nella società post-industriale”[34]. Ecco perché la sfida di oggi, specialmente nel primo mondo, consiste nel mettere sul tappeto quel malessere che continua a rimanere nascosto dietro il benessere materiale; un malessere difficile da ammettere e ancor più da nominare, ma che si riflette in varie maniere: la solitudine di chi non ha un focolare domestico, pur avendo apparentemente casa e famiglia; la malattia e la sofferenza che si vuole evitare ad ogni costo, perché sono considerate un peso per gli altri e prive di senso; l’individualismo che non riconosce la dipendenza dagli altri e che finisce nel solipsismo di chi preferisce morire piuttosto che chiedere aiuto.

La dipendenza è una dimensione umana, e la dipendenza fisica è una dimensione non meno umana che richiede di essere soddisfatta in un modo anch’esso umano — l’accuratezza che è la caratteristica di ogni lavoro concepito come impegno morale —, che deve cominciare nell’ambito familiare. Però la famiglia non sorge spontaneamente per il fatto che si fonda sul matrimonio; e neppure è una realtà che si caratterizza esclusivamente per i sentimenti. La famiglia è una realtà viva che si crea, si protegge, si difende e che acquista una propria personalità, con alcune tradizioni e con una storia. Come ogni configurazione umana, ogni famiglia presenta alcune manifestazioni che non si limitano alle cose materiali, ma si esplicitano attraverso la materialità del focolare domestico. “Il focolare domestico — afferma Wendell Berry — è il vincolo primordiale del matrimonio, quello che cresce con esso e gli conferisce una natura sostanziale nel mondo”[35]. Ogni focolare è frutto di un lavoro specifico basato su alcune capacità concrete, soprattutto manuali, e su un insieme di tradizioni e cognizioni scientifiche che trascendono il livello materiale e trasmettono valori permanenti e positivi. La loro apparente materialità e la loro reale quotidianità favoriscono lo sviluppo psichico, fisico e intellettuale di ognuno dei suoi membri. Nessun focolare è statico, e ancor meno è stereotipato.

Perciò il buon vivere non è esclusivo della vita pubblica, ma comincia nell’ambito della famiglia, che si materializza nel focolare domestico come nel suo canovaccio. Pierpaolo Donati descrive l’innegabile relazione della famiglia con la polis come punto di congiunzione tra la vita privata e la vita pubblica[36]. Da parte sua, Alejandro Llano denomina “prima solidarietà” tutto l’insieme dei rapporti familiari e delle attività che essi comportano[37]: vale a dire, un aiuto elementare e indispensabile nell’ambito quotidiano e ordinario per la umanizzazione della persona. Nell’ambito familiare, e grazie alle relazioni che in esso si stabiliscono, si imparano le “virtù della dipendenza riconosciuta”, che MacIntyre descrive come condicio sine qua non delle virtù necessarie per la vita pubblica del cittadino[38].

In definitiva, i lavori domestici non solo rispecchiano in modo eccellente la dimensione di accuratezza che deve avere ogni impegno morale, ma anche un’attività che ha alcuni beni interni a favore della persona che li esegue e che li riceve. Questi lavori creano cultura in base alla tradizione che accumulano e stimolano una serie di virtù sine qua non per il disimpegno delle funzioni sociali della persona adulta. Chi lavora in casa deve perfezionare alcune condizioni umane molto precise — abilità manuale, esperienza e tecniche —; alcune virtù molto concrete, come lo spirito di servizio, la generosità, l’umiltà; e, soprattutto, quella speciale capacità di osservazione per scoprire le necessità di ciascuno che riceve il nome di empatia.

Per tutte queste caratteristiche, possiamo affermare, con una certa dose di provocazione, che questi lavori sono il paradigma di ogni lavoro, anche di quello intellettuale: il loro valore non dipende principalmente dal prodotto che tali attività realizzano (anche se non ne sono completamente dissociate) e riflettono alcuni caratteri che permettono di parlarne in modo positivo e umano senza che sia necessario contrapporle a nessun’altra attività o istanza.

Perfezionano la persona che li esegue, perfezionano le persone alle quali sono rivolti e perfezionano la cultura e la società. In altre parole, la pretesa della società tecnologica di sostituire queste attività con la macchina e/o di negare loro una dimensione umana, razionale e libera, porta inevitabilmente alla situazione di oggi nella quale, come denuncia Matthew Crawford dell’Università della Virginia, si è arrivati a una sorta di presunzione idealista con la quale si “incoraggiano i giovani verso tipi di lavoro sempre più fantasmagorici”, con una retorica sugli impieghi del futuro, per cui neppure il settore detto dei servizi o “white-collar jobs” si salva dalla ghigliottina dell’irrazionalità. Viceversa Crawford propone di “onorare pubblicamente chi acquista reali cognizioni manuali, dalle quali tutti noi dipendiamo ogni giorno”[39].

Il “negozio contemplativo”

Nella nozione di lavoro come impegno morale, e più esattamente nei lavori domestici, appare un binomio importante: accuratezza ed empatia. Con empatia, nel linguaggio filosofico, si fa riferimento a un modo meno astratto di percepire la realtà, capace di cogliere anche i sentimenti, le emozioni, ecc., e che è stato sviluppato e coniato da Edith Stein. Conoscendo attraverso il corpo — o meglio, in esso — raggiungo il centro personale dell’altro, posseggo una esperienza della sua azione, dei suoi sentimenti: posso mettermi al suo posto e riconoscere ciò che sta sentendo, ma non come una inferenza o come una conoscenza che ricevo perché qualcuno me ne dà notizia. Non solo, ma attraverso una sola espressione del corpo — un gesto, un tipo di sguardo o un sorriso — scandaglio il nucleo della persona, le sue necessità, e cerco di risolverle[40]. È, come si vede, un modo di conoscere attraverso ciò che è materiale, per connaturalità, e che non è troppo distante dal conoscere che si esercita attraverso quelle attività che sono dirette a soddisfare le necessità fisiche.

In uno studio relativamente recente, Simon Baron-Cohen, direttore dell’Autism Research Centre dell’Università di Cambridge, fornisce la seguente spiegazione: la conoscenza empatica avviene soprattutto (anche se non esclusivamente) nella donna; concretamente, in chi possiede le condizioni neurologiche che caratterizzano una percezione che egli chiama empatica, distinta da quella sistematica (più presente nell’uomo). La sua tesi si basa su un rigoroso esame delle condizioni fisiologiche del cervello. Una conseguenza rilevante, alla quale porta lo stesso Baron-Cohen, è che l’empatia è in stretta relazione con il desiderio naturale di avere cura degli altri, e perciò il suo buon esercizio richiede determinate capacità di intendere le relazioni umane, e dunque anche i buoni comunicatori percepiscono rapidamente le necessità altrui e, in base ad esse, sono capaci di corrispondere con efficacia[41]. Ovviamente, la capacità empatica non è una questione esclusivamente biologica, ma è influenzata anche da fattori culturali e di educazione: neppure in questo tema si può cadere nei riduzionismi.

La domanda che a questo punto si dovrebbe formulare è la seguente: questa capacità di conoscere la realtà potremmo chiamarla “contemplazione”? Forse la risposta dovrebbe essere preceduta da una premessa storica e anche terminologica. La filosofia ha interpretato la contemplazione in base al paradigma greco: l’uomo raggiunge la sua più alta felicità mediante atti teorici o contemplativi del nous, che ci rendono simili agli dei. L’umano, secondo Aristotele e i neo-aristotelici, è esaltato nell’otium. Questo atteggiamento, nella modernità, cambia di segno: anche se mediante il cogito cartesiano il nostro intelletto intuisce idee chiare e distinte, il nostro nous o intellectus perde l’attività che gli è propria. Più che nous è una ratio che non ammira più: lavora. Rappresenta una istanza dominante, tecnica e trasformatrice della materia. Ciò che la ragione scopre va applicato per assicurare il progresso: sapere è potere, proclamerà Francis Bacon anche prima di Descartes. Eppure, in entrambi i casi — in quello della ragione classica e contemplativa e in quello della ragione moderna e tecnica — si ha una spiegazione univoca del conoscere: è la razionalità di tipo teorico o scientifico, presente ed esaltata oggi nelle élites che si dedicano all’alta tecnologia, alle finanze, alle scienze astratte e a quelle esatte.

Una prima critica a questa posizione può essere ancora una volta quella di Matthew Crawford: “Navigare nell’astratto non significa necessariamente lo stesso che pensare”[42]; in altre parole, conoscere il quid della realtà non è esclusivo della ragione teorica né del lavoro intellettuale, scientifico, analitico o dei sistemi[43]. Viceversa, può esserci contemplazione anche nella conoscenza pratica e in quella empatica, proprio attraverso il lavoro interpretato come un impegno morale, che si caratterizza per la predisposizione all’accuratezza. Parafrasando Aristotele, possiamo affermare che “theorein pollaxos legetai”, la contemplazione si può esprimere in molti modi. Non è sufficiente, dunque, che gli uomini e le donne conoscano teoricamente ciò che è l’essere umano, ma devono arrivare a questa conoscenza anche nella pratica. Solo così, praticamente — o, con una frase ancora più precisa, solo se arrivano ad essere “esperti in umanità”[44] —, potranno restituire un volto umano a tutte quelle persone, istituzioni, culture, ecc., che lo hanno perduto.

E qui ci imbattiamo ancora una volta nella vulnerabilità della vita umana di ogni giorno. Grazie all’empatia è più facile individuare proprio questi momenti di dipendenza fisica presenti nell’uomo e nella donna nella loro più radicale intimità, nelle loro necessità spirituali, psichiche, corporali. A questa individuazione si unisce inoltre la capacità di eliminarli o di indirizzarli verso un fine adeguato, mediante un conoscere e un fare pratici, spesso manuali, che hanno bisogno di un esercizio continuo e anche dell’apprendimento. Per questa ragione, sebbene sia tecnicamente possibile soddisfare la vulnerabilità fisica, una sua maggiore efficacia richiede che siano accompagnati da una risposta in buona parte umana che tenga conto anche della dimensione di dipendenza della persona vulnerabile. Davanti a questo si apre una ricca gamma di attività soprattutto pratiche, che né la tecnica né la speculazione possono sostituire.

Chi lavora con le proprie mani sa che cosa vuol dire fare attenzione alla realtà materiale, anche quando è viva e corporea: non sperpera, non maltratta, non distrugge, perché la sua professionalità include il rispetto della natura[45]. Fare attenzione diventa più difficile quando si vuole applicarla esclusivamente in base alla ragione teorica o alla tecnica. Si fa attenzione all’uomo, si fa attenzione all’essere vivo, si fa attenzione all’organico e all’inorganico, e questo s’impara nella vita di ogni giorno, nella famiglia, anche attraverso i lavori manuali di casa. Sono attività che possono essere contemplative, o — con un’espressione paradigmatica — negozio contemplativo, perché “chi è padrone di una professione possiede una sorta di empatia con la realtà sulla quale opera, di modo che è capace di distinguere immediatamente l’essenziale dall’accidentale e di sapere rapidamente qual è il quid della questione, quello che gli anglosassoni chiamano the point[46].

Questa capacità di discernimento assomiglia a un sapere sapienziale che scopre ciò che è reale in tutta la sua profondità[47]. Perciò una corretta antropologia che si occupi della dimensione corporale e dia spazio alla dipendenza e alla vulnerabilità apre le porte a un altro significato della contemplazione: quello che ci mette in relazione col mistero del dolore. Questo è un percorso umano inevitabile per scoprire, come suggeriva l’allora cardinale Ratzinger, la nostra condizione creaturale e la nostra dipendenza dal Creatore: “Nell’autentico realismo dell’uomo si incontra l’umanesimo e nell’umanesimo si incontra Dio”[48]; riflessione che ha ripreso come Benedetto XVI, quando, nella recente Enciclica Spe Salvi, ha affermato che “la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente”[49]. Affermazioni sorprendenti, ma che ci introducono al legame che tentavamo di stabilire tra lavoro e contemplazione, presente nel già citato testo fondazionale di san Josemaría Escrivá.

Finora, infatti, abbiamo fatto riferimento alla contemplazione nel suo significato teorico o speculativo e nel suo significato naturale o empatico. Comunque, tutto questo può aprirci a un nuovo significato che si allontana dalla filosofia ma che si trova nella sua continuità: il significato cristiano del termine contemplazione. Come ha spiegato José Luis Illanes dell’Università di Navarra, il riferimento alla vita contemplativa (bíos theorethikós) presente nella storia della spiritualità cristiana manca di radici bibliche, vale a dire, proviene direttamente dalla filosofia greca. Però la tradizione cristiana ha contribuito a reinterpretarla e ad arricchirla. Il Dio del giudaismo era totalmente trascendente alla persona, ineffabile e invisibile; per il cristianesimo questo stesso Dio si fa uomo in Gesù Cristo e noi diventiamo figli di Dio Padre nel Figlio. Clemente di Alessandria e Origene saranno i principali responsabili di un nuovo uso del termine “contemplazione”, strettamente legato alla pratica dell’orazione, nella quale il cristiano vive la fede fino a raggiungere un rapporto personale con le Tre Persone della Santissima Trinità[50].

All’interno della tradizione cristiana, il messaggio dell’Opus Dei aggiunge una sfumatura di non poca importanza. La contemplazione era stata concepita soprattutto — per non dire esclusivamente — come una caratteristica della vita separata dal mondo, della vita religiosa e consacrata, come una caratteristica del “tempio”. San Josemaría completerà questa visione affermando che l’unione con Dio è possibile anche attraverso la vita attiva, propria del lavoro professionale e nel mondo. La condizione di possibilità affinché l’esistenza umana si elevi all’ordine soprannaturale è la virtù della carità, che modella tutta l’esistenza del battezzato e pertanto anche tutte le sue azioni, come il lavoro, senza diminuire il loro valore umano[51]. Fin qui, brevemente, abbiamo fatto un excursus teologico che ora ci permette di avviarci alla conclusione.

Il lavoro umano e la santificazione attraverso il lavoro

Questo studio non ha intenzione di attribuire al Fondatore dell’Opus Dei le idee filosofiche esposte, ma di riflettere su come la sua dottrina sulla santificazione della vita ordinaria attraverso il lavoro professionale anticipa una concezione antropologica assente sia nella storia della Chiesa che nel pensiero filosofico contemporaneo. Ora, in quest’ultimo paragrafo, citerò le idee più rilevanti, pur senza illudermi di essere esaustiva.

In primo luogo, la sua dottrina difende la compatibilità tra ozio e negozio, tra vita contemplativa e vita attiva, nel duplice significato di contemplazione, vale a dire, come dimensione cognitiva, ma soprattutto come relazione con Dio nella dimensione di fede e di amore. Una compatibilità che — come abbiamo visto — sin dai primi anni sapeva che sarebbe stato difficile da accettare, ma che non per questo egli smise di esporre come nucleo del suo messaggio[52].

Una seconda tesi che menziono brevemente è la centralità del lavoro per l’acquisizione delle virtù — apertura etica — e per la santità — apertura soprannaturale e contemplativa —, e pertanto una proposta del lavoro come dimensione umana (a fronte dell’aristotelismo e del razionalismo moderno) e positiva (a fronte del lavoro come alienazione nel marxismo), che sfugge ai modelli oscillanti nei quali si trovava.

La terza tesi consiste nella rivalutazione della vita ordinaria come cammino di santità, che si basa proprio sul fatto che non esistono lavori di maggiore o minore rilievo umano. Questo coincide con una definizione del lavoro che non s’impernia in ciò che ho chiamato “il paradigma del prodotto”, ma nei beni interiori che si acquistano, evitando in questo modo il pericolo di considerare alcune attività più importanti di altre. Infatti, per san Josemaría, “nel servizio a Dio non ci sono mestieri di scarsa importanza: sono tutti molto importanti. L’importanza del lavoro dipende dalle qualità di chi lo esercita, dalla serietà umana con cui lo svolge, dall’amore di Dio che ci mette”[53]. Inoltre, riferendosi alle “opere di apostolato corporativo” alle quali l’Opus Dei dà la propria assistenza pastorale, scrive: “Il successo o l’insuccesso reale di queste attività dipende dal fatto che, oltre ad essere umanamente ben fatte, servano o no a far sì che coloro che le realizzano e che coloro che ne beneficiano amino Dio, si sentano fratelli di tutti gli uomini e manifestino questi sentimenti di servizio disinteressato all’umanità”[54].

Pietra di paragone di questa dottrina è la particolare rilevanza che san Josemaría attribuisce alle attività manuali e domestiche, e che si percepisce in molte delle sue affermazioni: costituiscono “una grande funzione umana e cristiana”[55], possiedono una dignità e una funzione sociale di grande rilievo[56], richiedono una preparazione professionale, e creano e tengono vivo il focolare domestico che “è un ambito particolarmente propizio per lo sviluppo della personalità”[57].

L’espressione “pietra di paragone” si giustifica pienamente anche se prendiamo in considerazione un altro testo che, senza tema di esagerare, si potrebbe dire paradigmatico. Si tratta dell’interpretazione del già citato passo del Vangelo su Marta e Maria che in un certo senso non solo supera la maggioranza delle esegesi tradizionali, ma che, nel farlo, riflette il nucleo dello spirito dell’Opus Dei. Scrivendo alle donne che si dedicano ai lavori domestici, inizia una Lettera con queste parole: “A voi, figlie mie, non posso dire ciò che diceva il Signore a Marta (cfr. Lc 10,40-42), perché in tutte le vostre attività, anche quando vi occupate dei lavori di casa, senza preoccupazioni e mire umane, tenete sempre presente — porro unum est necessarium (Lc 10,42) — che una sola è la cosa di cui c’è bisogno e, come Maria, avete scelto la parte migliore, che mai vi sarà tolta: infatti avete la vocazione di anime contemplative nel bel mezzo delle attività del mondo”[58].

Anche se il lettore ha già scoperto l’eccezionale interpretazione del passo di Luca, non sarà superfluo insistervi. La prima cosa che si può affermare è che il messaggio di san Josemaría sulla chiamata alla santità ottiene meritatamente il titolo di universale non solo perché è rivolto a tutti gli uomini e a tutte le donne, ma anche e specialmente perché fa di ogni lavoro — anche dei lavori manuali e quotidiani — l’asse intorno al quale è possibile acquisire le virtù ed essere contemplativi. La qual cosa significa ammettere, in modo puro e semplice, la possibilità di un “negozio contemplativo” e con ciò eliminare la contraddizione che la filosofia ha sempre notato in questa espressione.

Una seconda osservazione potrebbe essere la seguente. Questo “negozio contemplativo” è possibile perché san Josemaría difende l’unità senza confusione dei due tipi di vita — quella attiva di Marta e quella contemplativa di Maria — in contrasto con una corrente della tradizione cristiana che tendeva a separarli. Perciò conia un’espressione ascetica nuova — l’unità di vita — che può trovare fondamento anche in una ragione filosofica (assente nei suoi scritti) e che forse potrebbe apparire un po’ provocatoria. Pur essendo la parte di Maria l’unica necessaria, il Signore si riferisce ad essa chiaramente come una parte. Dal che si deduce che il tutto è sempre migliore, vale a dire, che questa parte necessaria è non solo sempre necessaria, ma anche sempre incompleta: deve avere un punto di riferimento per essere esercitata. La sua proposta è chiara: questo punto di riferimento, questo centro o cardine attorno al quale deve girare, per una grande maggioranza di uomini e donne di oggi e di domani, sarà la realtà del lavoro e delle situazioni ordinarie della vita, incluse, dunque, le professioni manuali nell’ambito domestico.

Fernando Inciarte, ordinario di filosofia all’Università di Münster, in un articolo postumo, nota la rottura che questo messaggio comporta rispetto alle diverse proposte antropologiche offerte al momento: “Secondo lui [secondo Escrivá], ogni lavoro concreto e personale, anche il lavoro manuale — e in un modo, se si vuole, assolutamente non-classico, assolutamente non-aristotelico —, richiede non solo la perfezione dell’opera, ma anche e soprattutto della stessa persona che opera”[59]. Mediante la teologia o, forse meglio, con l’autorità del Magistero della Chiesa, Giovanni Paolo II il giorno della canonizzazione di san Josemaría Escrivá a questa indubbia impresa intellettuale ne aggiunse un’altra ancora più importante: l’aver vissuto in grado eroico quell’unione menzionata all’inizio dello studio, ossia l’unione “del lavoro professionale con la lotta ascetica e con la contemplazione — cosa che può sembrare impossibile, ma che è necessaria per contribuire a riconciliare il mondo con Dio”[60]. Perciò, con una espressione emblematica, il Pontefice definì san Josemaría il “santo della vita ordinaria”[61].

[1] Istruzione, 19-III-1934, n. 33.

[2] Su questa linea, la riflessione sul lavoro raggiunge un punto culminante con l’Enciclica Laborem Exercens di Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1981. In essa, il Pontefice polacco sviluppa la distinzione fra lavoro oggettivo e soggettivo, già presente nell’opera del Card. STEFAN WYSZYNSKI, Lo spirito del lavoro, del 1958, con la quale fu affrontata questa nozione chiave dell’ideologia marxista.

[3] Sto affrontando più estesamente questo tema in uno studio intitolato Labor. The Basis of Culture che ho cominciato nel Notre Dame Center for Ethics and Culture, nella Università di Notre Dame, Indiana, USA, sotto la guida del Prof. Alasdair MacIntyre.

[4] Politica, Laterza, Bari 2004 (vol. 9 delle Opere), 1337 b 5-10.

[5] So che questa affermazione può essere messa in discussione. Nella Etica Nicomachea (cfr. edizione italiana Laterza, Bari 1999), 1161 b 1-10, Aristotele afferma che è possibile l’amicizia con lo schiavo in quanto uomo; inoltre, la mancanza di una nozione adeguata di persona umana e la rigidità della società del mondo antico rendono difficile una interpretazione corretta e ancor meno definitiva di quel che lo Stagirita scrisse in diverse opere. Ciò nonostante, proprio sul punto del lavoro e della schiavitù, la posizione aristotelica tende a separare la dimensione umana, razionale e libera nella città, dove tutti sono uguali, dal lavoratore o strumento animato nella casa, dove vi sono disuguaglianze e i lavori materiali “privano dell’ozio la mente e la degradano” (Politica, 1337 b 12-14). Inoltre, il fatto che il momento storico e la cultura dominante non consentissero un maggior approfondimento della nozione di natura umana, avvalora la posizione che mantengo sull’errore aristotelico che, come molte delle sue tesi, è possibile superare con altre sue affermazioni.

[6] Cfr. ARISTOTELE, Politica, 1280 b 35.

[7] Cfr. ibidem, 1337 b 5-20.

[8] ARISTOTELE, L’amministrazione della casa, a cura di C. Natali, Laterza, Bari 1995, 1343 a 1-5. Ringrazio il Prof. Iñaki Yarza per avermi segnalato quest’opera.

[9] Per una corretta interpretazione di questa parola nella cultura greca, cfr. E. BENVENISTE, Indo-european Language and Society (trad. Elizabeth Palmer), Faber and Faber Limited, Londra 1973, pagg. 73 ss.

[10] Cfr. Libro VI, capitoli 1-4.

[11] Qui seguo Enrico Berti, il quale spiega che più che “forme di razionalità”, è preferibile parlare di “usi”: cfr. Le ragioni di Aristotele, Laterza, Bari 1989, p. VIII. Un ampio studio della razionalità pratica in Aristotele è quello di I. YARZA, La razionalità dell’Etica di Aristotele. Uno studio su Etica Nicomachea I, Armando Editore, Roma 2001.

[12] Il termine greco téchne è stato tradotto con ars in latino e corrisponde senza distinzione alla tecnica e all’arte. La distinzione fra arte e tecnica è relativamente recente. Appare in tempi moderni quando la ragione si impone come ragione strumentale per dominare la natura con l’invenzione della macchina. È in quel momento che l’arte non segue il nuovo uso della ragione, e comincia a essere intesa esclusivamente come una attività creativa della bellezza, propria del genio.

[13] Etica Nicomachea, 1140 a 5-6.

[14] Cfr. Vita Activa. La condizione umana, Garzanti, Milano 1999 (originale del 1958). L’intero libro è dedicato alla spiegazione di questa tesi.

[15] Cfr. ibidem, pag. 130.

[16] Cfr. Società senza lavoro. Per una filosofia dell’occupazione, Feltrinelli, Milano 1997, cap. 10. Méda cita e segue esplicitamente Arendt nella focalizzazione negativa del lavoro e, soprattutto, nell’esaltazione dell’ozio come ciò che è propriamente umano: cfr., per esempio, pagg. 117, 136-137, 185-186.

[17] Cfr. ibidem, pagg. 232-233.

[18] Anche se ogni tanto farò qualche citazione, non è mia intenzione in queste pagine formulare una critica alla posizione di Arendt, anche perché la espongo con la necessaria estensione in Claves para una antropología del trabajo, Eunsa, Pamplona 2006, cap. IV.

[19] Del motto ora et labora si possono dare varie interpretazioni. In ogni caso, nonostante il lavoro acquisti un significato positivo — assomiglia più a una disposizione virtuosa per combattere l’ozio —, la egemonia della contemplazione in questo nuovo stato della vita cristiana è continua e va crescendo.

[20] El ocio y la vida intelectual, Rialp, Madrid 1962, pag. 22.

[21] È la tesi di tutto il libro e segue anche J.H. Newman: cfr. ibidem, pagg. 34-39.

[22] Con il loro stile mordace e poco accademico, i saggi di Wendell Berry meritano una prima menzione: The Art of the Commonplace. The Agrarian Essays of Wendell Berry, Shoemaker & Hoard, Washington D.C. 2002; Home Economics. Fourteen Essays by Wendell Berry, North Point Press, San Francisco 1987 e The Unsettling of America. Culture & Agriculture, Sierra Book Editor, San Francisco 1986. Invece, nel campo della filosofia, l’autore che sta ponendo le fondamenta teoriche di avanguardia è Alasdair MacIntyre, specialmente nelle sue ultime pubblicazioni: Dependent Rational Animals, Carus Publisher Company, 1999; Edith Stein: a Philosophical Prologue, A. Sheed & Ward Book, Rowman & Littlefield Publishers, Inc., Londra 2006 e il recente saggio sul corpo pubblicato in The Tasks of Philosophy. Selected Essays, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pagg. 86-103. Su un altro livello, troviamo l’opera di Leon Kass, The Hungry Soul, University of Chicago Press, Chicago 1999 o l’interesse suscitato dall’articolo di Matthew Crawford, “Shop Class as Soulcraft”, in The New Atlantis, Summer n. 13 (2006). Invece, per iniziativa del femminismo, si va profilando un nuovo campo di ricerca denominato Ethics of Care, che si propone di contrastare l’etica dell’Homo œconomicus che è la traduzione neo-liberale dell’animal laborans arendtiano, la cui teoria del lavoro e, concretamente, degli affari s’incentra nel prodotto e nel consumo. Cfr. V. HELD, The Ethics of Care, Oxford University, Oxford 2005 e M. SLOTE, The Ethics of Care and Empathy, Routledge, Londra - New York 2007.

[23] Cfr. M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991. Per una critica delle reazioni che quest’opera ebbe durante il XX secolo, cfr. J.M. BURGOS, “Weber e lo spirito del capitalismo. Storia di un problema e nuove prospettive”, in Acta Philosophica, vol. 5 (1996), pagg. 197-220.

[24] Una parte della spiegazione che sto per dare è debitrice della teoria di Alasdair MacIntyre sulle practices, svolta principalmente nella sua opera più conosciuta After Virtue: A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Ind.) 1984, 2ª ed. (tr. it.: Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando, Roma 2007). Nello studio che ho compiuto sotto la sua direzione (cfr. nota n. 3), mi soffermo sulla proposta di MacIntyre e segnalo più attentamente le differenze con il lavoro in quanto tale. Essendo un lavoro troppo specialistico, non ne parlo in questo contesto.

[25] È una tesi presente in molte sue opere: cfr., per esempio, Three Rival Versions of Moral Inquiry: Encyclopaedia, Genealogy and Tradition, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Ind.) 1990, pagg. 61-66 (tr. it.: Enciclopedia, genealogia, tradizione, Massimo, Milano 1993).

[26] Cfr. M. CRAWFORD, “Shop Class as Soulcraft”, pagg. 9-10.

[27] Richard Sennet si riferisce a questa idea in The Culture of the New Capitalism, Yale University Press, New Haven & London, 2006, pagg. 195-196.

[28] Cfr. Etica Nicomachea, 1139 b 38; 1140 a 5-7.

[29] Questi due aggettivi meriterebbero una spiegazione più approfondita, perché rimandano a una idea determinista della natura materiale assente nella filosofia classica. Ho studiato una proposta per superare queste tesi in “Ens per accidens: una perspectiva metafísica para la cotidianidad”, Acta Philosophica, II, vol. 13, 2004, pagg. 277-292.

[30] Alcuni affermano che questa posizione può presentare come negativo il termine di indipendenza umana, specialmente quando esso è riferito alla libertà della persona. Inoltre si aggiunge che la relazione di dipendenza assoluta da Dio rende la persona indipendente da ogni cosa creata. Non è questo il luogo per affrontare questa obiezione, ma è importante lasciare una traccia di essa e aggiungere che sia gli sviluppi delle teorie filosofiche che di quelle teologiche mirano sempre più a una comprensione dell’esistenza umana come essenzialmente razionale, vale a dire, dipendente, senza che tale aggettivo debba essere inteso come una cosa che contraddica la nostra condizione libera: semplicemente, la limita.

[31] È una tesi di fondo anche in L. KASS, The Hungry Soul.

[32] Cfr. Dependent Rational Animals, cap. 10. Per la dottrina di san Tommaso, ved. Summa Theologiae, 2-2, qq. 30 e 31.

[33] Cfr. D. BELL, The Cultural Contradictions of Capitalism, Harper Torchbooks, New York 1996.

[34] El diablo es conservador, EUNSA, Pamplona 2001, pag. 124.

[35] The Art of the Commonplace, pag. 126.

[36] “Famiglia” in Nuovo lessico familiare (ed. E. SCABINI - P. DONATI), Vita e Pensiero, Milano 1995, pag. 29.

[37] Questa espressione appare nel libro di Alejandro Llano, La nueva sensibilidad, Espasa-Calpe, Madrid 1988 (tr. it.: La nuova sensibilità, Ares, Milano 1995), ripresa poi ne El diablo es conservador, cap. 7: La familia ante la nueva sensibilidad.

[38] Cfr. Dependent Rational Animals, cap. 10. MacIntyre parla anche di altri ambiti dove si imparano queste virtù: la scuola, il vicinato, ecc.

[39] “Shop Class as Soulcraft”, pagg. 9, 18 e 22. Sono le tesi di tutto il saggio, che il New York Times ha giudicato fra i tre migliori del 2006.

[40] Cfr. E. STEIN, Zum Problem der Einfühlung, Kaffke, Munich 1980.

[41] Cfr. The Essential Difference: The Truth about the Male and Female Brain, Basic Books, New York, NY 2003, pagg. 126-127. In quest’opera tutte le tesi hanno una validità scientifica. All’inizio l’autore spiega che fu costretto a rinviare la pubblicazione della sua ricerca su esplicito consiglio di alcune femministe che lo avvertirono dell’ambiente avverso che avrebbe trovato. Anni dopo, una volta dissolte le posizioni estremiste al riguardo, Baron-Cohen si decise a pubblicare il suo studio. L’accoglienza è stata positiva.

[42] “Shop Class as Soulcraft”, pag. 22.

[43] Mi attengo qui alla definizione tomista di contemplazione che è piuttosto di indole conoscitiva: “Simplex intuitus veritatis”, cfr. Summa Theologiae, 2-2, q. 180, a. 3 ad 1. Ad ogni modo, non voglio escludere da essa anche una dimensione amorosa, che ho cercato di esprimere nel menzionare la misericordia, caratteristica dell’etica cristiana.

[44] L’espressione, originariamente, è di Paolo VI, che la pronunciò per la prima volta alle Nazioni Unite nella Allocuzione ai Rappresentanti degli Stati il 4.X.1965 a New York. Giovanni Paolo II la riprende in un famoso discorso durante il Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa l’11.X.1985. In entrambi i casi, comunque, i due Pontefici la applicano al cristiano, vale a dire, all’uomo di fede, a colui che pratica veramente la misericordia, una virtù che appare in tutta la sua ricchezza e in tutta la sua novità nel cristianesimo.

[45] Cfr. W. BERRY, The Art of Commonplace, pagg. 46-47.

[46] A. LLANO, El diablo es conservador, pag. 198.

[47] San Tommaso d’Aquino, in una delle questioni della Summa dedicate alla definizione dell’essere umano, scrive anche che “inter ipsos homines, qui sunt melioris tactus, sunt melioris intellectus”. Summa Theologiae, I, q. 76, a. 5, c. Cfr. anche A. ZIMMERMANN, Thomas lesen, Leggenda 2, Frankfurt 2001, pag. 194.

[48] J. RATZINGER, Iglesia, ecumenismo y politica. Nuevos ensayos de eclesiología, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1987, pag. 167 (tr. it.: Chiesa, ecumenismo e politica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1987).

[49] Lettera Enciclica Spe Salvi, 30.XI.2007, n. 38.

[50] 0. Cfr. “La contemplazione di Dio nella tradizione cristiana: visione sintetica”, in La contemplazione cristiana: esperienza e dottrina, Atti del IX Simposio della Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, a cura di L. TOUZE, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pagg. 9-43.

[51] Cfr. M. BELDA, “La contemplazione in mezzo al mondo secondo san Josemaría Escrivá”, in La contemplazione cristiana: esperienza e dottrina, cit. pagg. 151-176.

[52] Cfr. “Lavoro di Dio”, in Amici di Dio, n. 65 e “Nella bottega di Giuseppe”, in È Gesù che passa, n. 48.

[53] Cfr. Lettera 15-X-1948, n. 5, in A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, Leonardo International, Milano 2004, t. III, pag. 75.

[54] “Perché è sorto l’Opus Dei”, in Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 31.

[55] “La donna nella vita sociale e nella Chiesa”, in Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 87.

[56] Cfr. ibidem, n. 89.

[57] Ibidem, n. 87. Il suo primo punto di riferimento è la vita nascosta della Famiglia di Nazaret: cfr. “Nella bottega di Giuseppe”, in È Gesù che passa, n. 22.

[58] Lettera 29-VII-1965, n. 1.

[59] “Jede lautere und sachgerechte Arbeit, auch Handarbeit, resultiert für ihn — wenn man so will, ganz unantikisch, ganz unaristotelisch — nicht nur in der Vollendung des Werkes, sondern auch und vor allem des handelnden Menschen selbst”. “Christentum für die Masse”, in C. ORTIZ (ed.), Josemaría Escrivá. Profile einer Gründergestalt, Adamas, Köln 2002, p. 89.

[60] Istruzione, 19-III-1934, n. 33.

[61] 6.X.2002, in AAS 95 [2003], 745.

Romana, n. 45, Luglio-Dicembre 2007, p. 342-360.

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