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Studi Cattolici (Milano) maggio 2005

Intervista concessa a Cesare Cavalleri

Quattordici encicliche, 15 esortazioni apostoliche, 11 costituzioni apostoliche, 45 lettere apostoliche, innumerevoli discorsi nelle udienze settimanali, omelie... il magistero di Giovanni Paolo II è sterminato in estensione e profondità. Impossibile, dunque, sintetizzarlo nella risposta a un’intervista. Eppure, quali sono, a Suo avviso, le linee portanti del pensiero del compianto Pontefice in campo dogmatico? E in campo morale?

Direi che il pensiero di Giovanni Paolo II è sintetizzabile in meno di una frase, in una sola parola. In una Parola da scrivere in maiuscolo: Cristo, il Verbo di Dio fatto Uomo. Nell’agire, Cristo come unico modello di comportamento. In campo teologico, Cristo come oggetto e fondamento della fede. Ma questa Parola, questa Persona, Cristo, non è soltanto la chiave del pensiero del Papa: è la ragion d’essere della sua vita. Com’è difficile distinguere tra vita e magistero in Giovanni Paolo II!

Lo ha detto chiaramente il Papa stesso nell’enciclica Redemptor hominis, documento programmatico del suo pontificato: “L’unico orientamento dello spirito, l’unico indirizzo dell’intelletto, della volontà e del cuore è per noi questo: verso Cristo, Redentore dell’uomo; verso Cristo, Redentore del mondo. A Lui vogliamo guardare, perché solo in Lui, Figlio di Dio, c’è salvezza” (n. 7).

Nelle scorse settimane, tantissimi uomini e donne, cristiani o no, hanno espresso la loro riconoscenza alla figura di Giovanni Paolo II per motivi apparentemente diversissimi: per la sua santità, la sua denuncia dei totalitarismi, il suo impegno per la pace, la sua fiducia nei giovani, la sua difesa della vita, il sostegno alla famiglia, la preoccupazione per gli emarginati, il suo coraggio di fronte al dolore e alla malattia. A mio avviso, questa varietà di motivazioni, tutte giuste, significa che in Cristo si trovano le vie di soluzione per i grandi problemi dell’uomo. Allo stesso modo, è significativo che molte persone siano tornate a Cristo dopo la morte del Papa.

La solidità dell’impianto teologico del magistero di Giovanni Paolo II si basa su una precisa antropologia. È nota la simpatia con cui il filosofo Wojtyla ha studiato le opere di Husserl e di Edith Stein, ma nel suo ultimo libro, Memoria e identità, il Papa ha ridimensionato esplicitamente l’apporto della fenomenologia, valorizzando il realismo tommasiano. Qual è il rapporto tra ragione e fede, a cui il Pontefice ha dedicato un’apposita enciclica?

Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, è andato in Cielo con la stessa passione intellettuale che l’aveva indotto ad addentrarsi nella fenomenologia, molto colpito dal misticismo di Edith Stein. Nel contempo, tutto il suo Magistero è impregnato della dottrina di Tommaso d’Aquino, come ha espressamente dichiarato in una delle sue visite all’”Angelicum”, la Pontificia università San Tommaso d’Aquino. Penso che il cambiamento a cui lei allude possa essere un oggetto di studio per specialisti. Indipendentemente da queste sfumature, mi sembra evidente che, per la sua capacità di dialogo con le moderne correnti filosofiche, il pensiero di Giovanni Paolo II sia in sé stesso un frutto dell’armonia tra ragione e fede.

In questi tempi di esoterismo e di pessimismo dell’intelligenza, il Papa si è eretto in coraggioso difensore della ragione. Ha dimostrato fiducia nella possibilità della ragione umana di conoscere la verità. E ha presentato la fede come luce, non come limite: la fede cristiana illumina l’intelligenza nel suo sforzo di comprendere la realtà.

In qualche modo, la fede protegge la ragione dalla superstizione e dalla paura, mentre invita a riconoscere l’esistenza del mistero. La fede aiuta la ragione a rendersi conto dei propri limiti, ma anche a ritrovare la fiducia nella grandezza delle sue possibilità.

Nei suoi 104 viaggi apostolici nel mondo, nei 146 pellegrinaggi in Italia, nelle visite a 317 delle 333 parrocchie romane, Giovanni Paolo II ha esercitato in pieno il suo ruolo di Pastore universale, di Primate della Chiesa italiana e di vescovo di Roma. Questo Papa che viene dipinto come “mediatico” per l’uso intelligente e approfondito che ha fatto dei mass media, ha sempre privilegiato il contatto diretto con la realtà. In che misura i mass media sono strumenti di evangelizzazione? E quale sarà la ricaduta apostolica della straordinaria ed efficace copertura mediatica delle esequie di Giovanni Paolo II e dell’elezione di Benedetto XVI?

Il ruolo che i mezzi di comunicazione rivestono nella società spiega l’importanza che la Chiesa attribuisce loro. In senso stretto, non si tratta di una questione strumentale, bensì culturale: i mezzi di comunicazione sono fonti di conoscenza e fattori di educazione; creano modelli di comportamento, al punto di diventare “cattedre di moralità”. È lecito interrogarsi sulla legittimità e i limiti del potere mediatico. Ma, soprattutto, i cattolici devono sentire la responsabilità di essere presenti in questo areopago, luogo privilegiato per esprimere la fede.

Gli avvenimenti di questi giorni offrono un segnale inequivocabile: le televisioni, le radio, la stampa di tutto il mondo hanno raccontato con arte e con rispetto cerimonie liturgiche di grande bellezza, e hanno fatto sì che centinaia di milioni di persone si siano idealmente trasferite a Roma per pregare per il Papa, per prendere congedo da Giovanni Paolo II e per accogliere Benedetto XVI. La massiccia risposta dell’utenza ha confermato negli editori la decisione di dare generosa copertura agli avvenimenti. Il cosiddetto “sistema” dei mezzi di comunicazione si è adeguato come un guanto alla mano della Chiesa, che è universale, spirituale, eterna: non c’è niente di più vero e di più affascinante.

L’accorrere delle moltitudini, specialmente di giovani, durante i viaggi apostolici e la toccante mobilitazione popolare in occasione delle esequie del Pontefice hanno fatto dubitare qualcuno dell’incidenza duratura nelle coscienze di questi pur nobilissimi slanci emotivi. Lei che ne pensa?

Certamente è un errore confondere la religione con il sentimento. Ma sarebbe altrettanto errato sottovalutare le emozioni. Ho già accennato a questo argomento. Commuoversi per la morte di un essere amato, anelare la presenza di un padre, sono reazioni profondamente umane. Pertanto, la risposta commossa di tante persone in queste settimane conferma che la Chiesa è davvero una famiglia, giovane e viva, come ha detto Benedetto XVI il 24 aprile.

Del resto, le profonde emozioni che abbiamo vissuto possono avere importanti conseguenze pratiche: si imprimono nella memoria del cuore, sono difficili da dimenticare; impressionano l’animo dei più giovani e lasciano un’impronta indelebile; rimuovono la freddezza che talvolta ci inonda col passare degli anni; ci salvano dallo scetticismo. La nostra storia personale è formata dalla vita quotidiana e anche da episodi memorabili.

Ritengo che molta gente, passato il momento del sentimento, conserverà il ricordo di aver partecipato a un momento storico, di aver sperimentato una realtà spirituale di grande intensità, un momento di grazia. In definitiva, si ricorderà di aver ascoltato una chiamata di Dio, che è tornato a bussare alla porta del cuore. Sono convinto che in questi giorni sono maturate molte risposte a questa chiamata, molte decisioni di donarsi a Dio, di amore fedele, di impegno, di coerenza cristiana e umana.

A proposito dell’entusiasmo popolare suscitato da Giovanni Paolo II qualcuno ha affermato che la gente accorreva ad applaudire il cantante ma non apprezzava la canzone. Sono note, infatti, le difficoltà con cui il magistero della Chiesa plasma la condotta pratica anche dei cristiani in materia di diritto alla vita, di morale sessuale, di stabilità familiare. Come si configura oggi il problema della coerenza di chi non esita a dichiararsi cattolico?

Quando ci mettiamo in ascolto di una persona con autorità morale, stiamo esprimendo quello che cerchiamo, non quello che possediamo già. Succede in àmbito religioso, ma anche in altri campi, perché l’esistenza è sempre, in qualche modo, ricerca, cammino, desiderio, anelito di qualcosa di meglio, di più bello, di più giusto.

A questo proposito mi vengono in mente le parole di Giovanni Paolo II, a commento della famosa frase di sant’Agostino: “Ci hai fatto, o Signore, per te ed è inquieto il nostro cuore, finché non riposa in te” (Confessioni, I, 1). “In questa inquietudine creativa”, diceva Giovanni Paolo II, “batte e pulsa ciò che è più profondamente umano: la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, la nostalgia del bello, la voce della coscienza” (Redemptor hominis, 18).

Ascoltare il Papa con attenzione — con “inquietudine creativa” — oggigiorno è come un preambolo della fede, un principio di vita cristiana. Dopo questo primo passo viene la decisione personale di coerenza, la ricerca della formazione che illumina, l’anelito di esercitare la carità che conforta, il ricorso ai sacramenti che fortificano.

Arrivo a dire che il Papa svolge una missione importante nell’attrarre gli uomini di buona volontà; poi entra in gioco la responsabilità apostolica dei cattolici, sacerdoti e laici, che danno continuità alla presenza della Chiesa in ogni ambiente. Anziché pensare all’eventuale incoerenza da parte di qualcuno, preferisco pregare affinché gli avvenimenti che abbiamo vissuto ci incoraggino a rinnovare il proposito di essere più coraggiosi nell’annunciare Cristo, perché tante persone ci stanno aspettando, in molti modi, e vogliono conoscerlo, incontrarlo e amarlo.

Lei ha incontrato più volte Giovanni Paolo II anche al di fuori delle udienze “di tabella”. Può darci un Suo ricordo strettamente personale?

Un ricordo per me particolarmente toccante è legato alla morte di mons. Álvaro del Portillo, il mio predecessore come prelato dell’Opus Dei, il 23 marzo 1994. Quel giorno, Giovanni Paolo II venne nella chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace, dove avevamo allestito la camera ardente. Venne a pregare e, certamente, anche per manifestarci il suo affetto paterno in quel momento in cui nell’Opus Dei eravamo rimasti senza padre. Questo episodio mi sembra un simbolo della figura di Giovanni Paolo II: un padre fedele che ti è sempre accanto quando ne hai bisogno, che ti consola con affetto nel momento del dolore.

È innegabile che la storia dell’Opus Dei sia ormai strettamente legata al pontificato di Giovanni Paolo II, che ha eretto l’Opera in Prelatura personale il 28 novembre 1982, ha beatificato il fondatore il 17 maggio 1992 e l’ha canonizzato il 6 ottobre 2002. Dove radica la sintonia di Giovanni Paolo II con lo spirito dell’Opus Dei?

Prima di rispondere, mi consenta di ricordare che tutte le istituzioni e tutti i fedeli della Chiesa si sono sentiti amati da Giovanni Paolo II, che ha sempre rivolto la massima attenzione pastorale a ciò che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa. Inoltre, nell’Opus Dei desideriamo servire tutti i successori di Pietro, seguendo l’esempio di san Josemaría. Infine, non posso fare a meno di ricordare che Paolo VI, di venerata memoria, ha manifestato in diverse occasioni sia a mons. Escrivá, sia al suo primo successore, il suo ardente desiderio di giungere alla soluzione giuridica dell’Opus Dei. Nella prima udienza concessa al mio predecessore, mons. Álvaro del Portillo, Paolo VI commentò, perché lo riferisse a tutti noi, che riteneva mons. Josemaría Escrivá una delle figure del XX secolo che avevano risposto più eroicamente alla chiamata di Dio.

Penso che la radice della sintonia con Giovanni Paolo II, a cui lei allude, sgorghi dalla passione evangelizzatrice del Papa, dal suo amore per il mondo, dalla sua consapevolezza del ruolo dei laici nella missione della Chiesa. Le preoccupazioni pastorali del Santo Padre, il suo amore per l’uomo, la sua elevata visione del lavoro che dignifica la persona, gli facevano apprezzare lo spirito dell’Opus Dei, il suo messaggio di santificazione del lavoro e della vita quotidiana. Quanto alla Prelatura, abbiamo cercato di corrispondere a questo affetto, a questo incoraggiamento di fedeltà alla Chiesa, col desiderio di non deludere le aspettative del Santo Padre e di assecondare lealmente i suoi insegnamenti. In questi momenti, tutti i ricordi di questi anni diventano motivo di gratitudine.

1.338 beati e 482 santi proclamati da Giovanni Paolo II. È un aspetto dell’applicazione del Concilio Vaticano II il cui nucleo consiste nella riproposizione della chiamata universale alla santità?

Sì, certamente. Qualcuno, inoltre, ha visto in questi grandi numeri di beatificazioni e canonizzazioni uno sforzo del Papa per mettere il messaggio di Cristo alla portata di ogni uomo e di ogni donna. In effetti, in una società secolarizzata come la nostra, bisogna aprire tutte le vie di accesso alle anime, ai cuori. E la vita dei santi è uno straordinario veicolo di comunicazione della fede: modelli vivi, attraenti, comprensibili alle persone di ogni razza e di ogni cultura.

San Paolo chiamava “santi” i primi cristiani. Il santo è, in certo modo, “uno di noi”. I santi dimostrano che è possibile seguire Gesù Cristo. Il loro esempio alimenta la nostra speranza. Ritengo che Giovanni Paolo II, anche in questo, abbia voluto mettere in rilievo la realtà che Cristo, il Buon Pastore, non fa discriminazioni, rivolge a tutti la grande chiamata alla santità, scopo — non dimentichiamolo — per cui è stato creato l’uomo, ogni uomo, ogni donna. Secondo me, infine, Giovanni Paolo II ha voluto anche dire che il Signore non è lontano da nessuno, che si interessa di tutti.

Giovanni Paolo II, il Papa del Totus tuus, ha intriso di devozione mariana la sua vita. Senza cadere nella gematria, è innegabile l’intreccio tra la vita del Papa e le apparizioni della Madonna a Fatima: l’attentato avvenuto il 13 maggio, il terzo segreto in cui il Papa si è riconosciuto, la morte di suor Lucia (13 febbraio) poco prima di quella della Papa... Non Le chiedo profezie, ma il tono apocalittico di alcune interpretazioni delle apparizioni mariane, quasi che fossimo alla fine dei tempi, lascia pensosi.

Sono molto devoto della Madonna di Fatima, ho pregato più volte davanti alla sua immagine semplice e materna, mi commuove la storia dei pastorelli. Ma non saprei esprimere opinioni su tali interpretazioni apocalittiche: non mi sento portato, né preparato. Soltanto Dio riesce a leggere tra le righe del libro della Storia. Io vivo la pagina di oggi: ho fiducia nel Divino Scrittore e mi aggrappo con forza alla realtà dei suoi disegni che invitano a una vita piena di speranza, basata sul fatto che il Figlio di Dio ha voluto dare la sua vita per noi.

La brevità del conclave che ha eletto Benedetto XVI dà l’immagine di una Chiesa molto unita, unanime. Ritiene che sia passata la bufera postconciliare e che sia definitivamente superata la distinzione spesso artificiosa tra “progressisti” e “conservatori”?

Il conclave si è innalzato agli occhi di tutti come una lezione magistrale di unità, che senza dubbio segnerà il futuro. È stato come un’eco dell’” ubi Petrus, ibi Ecclesia” di sant’Ambrogio. Si è realizzata ancora una volta l’aspirazione che san Josemaría Escrivá formulava con le parole “omnes cum Petro ad Iesum per Mariam”: tutti, con Pietro, a Gesù per mezzo di Maria. Abbiamo visto come i cardinali, persone molto diverse fra loro, provenienti da zone geografiche, con mentalità ed esperienze molto dissimili, hanno saputo accantonare le loro differenze e si sono immediatamente stretti in unione con Pietro.

La distinzione tra “conservatori” e “progressisti” è un a priori che deriva dall’applicazione di uno schema politico semplicistico a una realtà ricca e profonda. Interpretare il conclave in questo modo è come vedere la realtà in bianco e nero. Penso che anche in questo si osserva un notevole progresso, man mano che molti commentatori conoscono meglio la natura della Chiesa.

Dall’inizio della riunione, non ho smesso di considerare che tutta la Chiesa, con la sua preghiera e la sua mortificazione, era entrata nella Cappella Sistina, e che il Signore ha promesso di ascoltare sempre chi prega nel suo nome.

Le chiedo un ritratto di Benedetto XVI come Lei l’ha conosciuto.

Lo vedo come una persona che spicca per la sua intelligenza teologica, la sua nitida visione dei problemi della Chiesa e della cultura, e la sua ampiezza di orizzonti. A questo si sommano la sua esperienza di lunghi anni di servizio alla Chiesa e la sua profonda vita spirituale. Della sua delicatezza e della sua capacità di ascolto può testimoniare chiunque abbia avuto occasione di frequentarlo anche poco.

Di fronte a un mondo contratto e conflittuale, il Santo Padre si presenta lucido e sereno, preparato a rendere ragione della speranza della Chiesa, della fede nel suo Maestro. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che l’ha scelto lo Spirito Santo, mi sembra che sia in sommo grado la persona adatta per il nostro tempo.

Che cosa le suggerisce la scelta del nome del nuovo Papa?

Personalmente, la decisione di riferirsi sia a san Benedetto, sia a Benedetto XV, mi ricorda l’importanza che la Chiesa attribuisce alla cultura e all’impegno per la pace. Penso che in questi anni noi cattolici abbiamo la responsabilità di rendere comprensibile la fede davanti ai nostri simili, appunto andando alle radici cristiane della cultura, soprattutto europea. Mi riferisco alla cultura in senso ampio: il clima che le famiglie cristiane sanno creare intorno a sé; la diffusione delle opere di misericordia; e anche la ricerca scientifica, il cinema e la letteratura. I cattolici di oggi devono essere artefici di pace e di culture di vita.

Nella maggior parte di noi cattolici la scelta di quel nome ha suscitato sorpresa, accanto a una sana curiosità di conoscerne i motivi. La novità del nome è dunque un altro promemoria per unirci ancora di più alla persona e alle intenzioni del Papa, come egli stesso non si stanca di chiederci.

Che cosa l’ha maggiormente colpita del ruolo del card. Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede?

La capacità di armonizzare la carità con il servizio alla verità. È stato un bell’esempio del veritatem facientes in caritate (Ef 4,15) raccomandato da san Paolo. Nel libro Rapporto sulla fede si legge: “La definizione dogmatica è un servizio alla verità, un dono offerto ai credenti dall’autorità voluta da Dio. I dogmi — ha detto qualcuno — non sono muraglie che ci impediscano di vedere; ma, al contrario, sono finestre aperte sull’infinito” (p. 72). Sono parole che il cardinal Ratzinger ha scritto pochi anni dopo essere stato nominato al vertice della Congregazione per la dottrina della fede. Ritengo che siano una chiave della sua azione in quel dicastero.

Nel primo articolo pubblicato dal prof. Joseph Ratzinger, non ancora cardinale, su Studi cattolici (n. 69, dicembre 1966) si legge una strenua difesa della riforma liturgica e anche una messa in guardia contro alcune frettolose applicazioni. Ritiene questo tema fra le priorità del nuovo pontificato?

Questa preoccupazione è spiegata da altre parole del card. Ratzinger, pubblicate qualche anno fa: “L’inesauribile realtà della liturgia cattolica mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita: per questo, non posso non parlarne continuamente” (La mia vita, p. 18).

Se prendiamo coscienza che la liturgia è azione di Dio, aperta alla partecipazione dell’uomo, ne comprendiamo meglio la centralità nella vita cristiana. Penso che Benedetto XVI sia molto sensibile alla sacralità della liturgia, dove cielo e terra si uniscono in così meravigliosa bellezza, e che viva quotidianamente la forza del detto lex orandi, lex credendi.

Il programma pastorale della Chiesa per il terzo Millennio è stato tracciato da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio ineunte. Avrà un compito facile il nuovo Papa?

Mi sembra molto importante sottolineare che, oggi e sempre, l’applicazione di questo programma è responsabilità di tutta la Chiesa, non solo del Papa: abdicare da questo compito da parte dei fedeli — sacerdoti e laici — denoterebbe un’indolenza con gravi conseguenze. Nell’enciclica Redemptoris missio, Giovanni Paolo II affermava: “Sento venuto il momento di impegnare tutte le forze ecclesiali per la nuova evangelizzazione e per la missione ad gentes. Nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della Chiesa può sottrarsi a questo dovere supremo: annunziare Cristo a tutti i popoli” (n. 3).

Il lavoro di Benedetto XVI sarà meno difficile quanto più noi cattolici sapremo sostenerlo con la nostra preghiera e il nostro lavoro, dando testimonianza di Cristo nel posto che ciascuno occupa nella società. Anche sotto questo profilo risultano assai appropriate le parole di san Leone Magno: “Agnosce, christiane, dignitatem tuam!”. Tutti siamo chiamati a fare la Chiesa, in piena adesione al Santo Padre e al suo Magistero.

Nell’omelia della messa pro eligendo pontifice, il cardinale decano, Joseph Ratzinger, ha parlato di una “dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”: quali sono i principali problemi morali che i cristiani devono affrontare?

Non è semplice rispondere a una domanda così vasta. Potremmo parlare di molti temi, ma preferisco ricordare soltanto due virtù: la carità e la castità.

In primo luogo, penso che noi cristiani dobbiamo ravvivare la convinzione che la carità è il culmine del messaggio evangelico. Carità in senso pieno, vale a dire, non soltanto il gesto straordinario, occasionale, bensì la carità costante, in famiglia, con gli amici, fra i colleghi; preoccuparsi dei malati, dei poveri, delle persone sole, tristi, dei bisognosi; la carità nel lavoro, in politica, nell’economia. In realtà stiamo parlando di una virtù personale, di uno dei doni più grandi che la Chiesa può offrire al mondo. E stiamo parlando anche dello Spirito Santo, che è l’Amore increato, e della sua azione nelle anime.

In molti ambienti la castità — se mi consente l’espressione — è una virtù assente, esiliata, il che provoca un danno devastante per la persona. Paradossalmente, si nota una certa vergogna di nominarla, mentre si è persa la vergogna di parlare in pubblico delle perversioni più contorte, dando così parvenza di normalità a qualunque disordine. La purezza cristiana ci riporta immediatamente a Cristo che chiede ai suoi discepoli limpidezza di sguardo, di cuore e di comportamento. Purtroppo, viviamo in una società erotizzata, in cui il sesso è diventato una merce che si compra e che si vende: stiamo vivendo le terribili conseguenze di questo penoso meccanismo, che animalizza la creatura razionale. I cattolici devono restituire al mondo l’apprezzamento per la castità, che è più unita alla carità di quanto a prima vista può sembrare. In certa misura, la castità è una forma della carità: dell’amore verso Dio, del rispetto verso sé stessi e verso gli altri.

San Leone IX, che gli storici considerano il miglior Papa germanico del Medioevo, nel Sinodo di Vercelli (1050) condannò Berengario di Tours per le sue erronee teorie sull’Eucaristia. Forse non è un caso che Benedetto XVI, eletto il 19 aprile, festa liturgica di san Leone IX, abbia sottolineato che la sua elezione avviene durante l’Anno dell’Eucaristia voluto da Giovanni Paolo II.

Uno dei primi documenti di Giovanni Paolo II — la lettera Dominicae Cenae, del 1980 — riguardava appunto l’Eucaristia. La sua ultima decisione pastorale, altamente simbolica, è stata di centrare quest’anno, che è stato l’ultimo del suo pontificato, sull’Eucaristia. E così il primo sinodo dei vescovi che il nuovo Papa presiederà, sarà dedicato all’Eucaristia, “centro della vita della Chiesa” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1343) e fonte della sua missione evangelizzatrice. Davvero, tutto fa pensare alla Provvidenza ordinaria di Dio, che trova sempre il modo di aiutarci a guardare “verso il centro”, verso l’Eucaristia.

In una delle messe di ringraziamento per la beatificazione di Josemaría Escrivá, il card. Ratzinger, il 19 maggio 1992 lo definì “un grande uomo d’azione, un uomo che ha attraversato continenti per infondere questo coraggio, il coraggio della normalità cristiana, che è la santità, la vita che ci è stata donata nel battesimo”...

Ho notato che a Benedetto XVI piace considerare la vita cristiana come un seme deposto nell’anima al momento del battesimo. Dapprima sembra insignificante, eppure si rivela efficace di fronte al male e, soprattutto, porta il bene al mondo, offre acqua limpida, per così dire: acqua che feconda tutti i deserti. Si tratta, in fondo, della parabola evangelica del granello di senapa, che sintetizza l’aspirazione di tutti i cristiani, e dunque dei fedeli dell’Opus Dei, inseriti nel mondo come noi siamo. La missione dei cattolici nella società può esser vista così: di portatori di un piccolo — e grande! — seme di pace e di gioia che matura nell’anima e si diffonde nel mondo.

In quali campi l’Opus Dei svolge oggi prioritariamente il suo servizio alla Chiesa?

Il servizio che la Prelatura presta può essere riassunto in un compito formativo, aperto a sacerdoti e laici, uomini e donne, di ogni cultura e professione. La formazione offerta dall’Opus Dei tende a ricordare una verità essenziale: che noi cristiani siamo chiamati a imitare Cristo nella nostra vita quotidiana, che la nostra vocazione è servire gli altri, voler loro bene, proprio attraverso la nostra professione e la nostra vita di relazione. Servire gli altri nella vita quotidiana, scoprire la dimensione di servizio di tutti i lavori, è un modo eccellente di annunciare Cristo.

Vorrei anche precisare che il lavoro dell’Opus Dei si rivolge a chiunque, non si limita a un settore della società. Mira a che ogni cristiano si sforzi di portare la luce di Cristo alle persone del suo ambiente. Ciò significa sia trasmettere il tesoro della fede, sia imparare dagli altri, che sono stati amati e redenti da Cristo. Mi riempie di gioia affermare anche che un fedele dell’Opus Dei — uomo o donna — cerca di guardare Maria, la donna eucaristica, che ha saputo fare di tutta la sua vita un’oblazione, in unione al sacrificio di Cristo per tutte le creature.

Romana, n. 40, Gennaio-Giugno 2005, p. 68-77.

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