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Lettera Enciclica «Fides et ratio» ai vescovi della Chiesa Cattolica sulle relazioni tra fede e ragione (14-IX-1998)

Venerati Fratelli nell’Episcopato, salute e Apostolica Benedizione!

La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr. Es 33, 18; Sal 27 [26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14, 8; 1 Gv 3, 2).

INTRODUZIONE

«CONOSCI TE STESSO»

1. Sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l’umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. E un cammino che s’è svolto — né poteva essere altrimenti — entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale: più l’uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza. Quanto viene a porsi come oggetto della nostra conoscenza diventa per ciò stesso parte della nostra vita. Il monito Conosci te stesso era scolpito sull’architrave del tempio di Delfi, a testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il creato, qualificandosi come «uomo» appunto in quanto «conoscitore di se stesso».

Un semplice sguardo alla storia antica, d’altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza.

2. La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell’uomo, essa s’è fatta pellegrina per le strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). Tra i diversi servizi che essa deve offrire all’umanità, uno ve n’è che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia alla verità.[1] Questa missione, da una parte, rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che l’umanità compie per raggiungere la verità;[2] dall’altra, la obbliga a farsi carico dell’annuncio delle certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente» (1 Cor 13, 12).

3. Molteplici sono le risorse che l’uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell’umanità. Il termine filosofia, secondo l’etimologia greca, significa «amore per la saggezza». Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l’uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell’uomo. È una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose, anche se le risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende evidente la complementarità delle differenti culture in cui l’uomo vive.

La forte incidenza che la filosofia ha avuto nella formazione e nello sviluppo delle culture in Occidente non deve farci dimenticare l’influsso che essa ha esercitato anche nei modi di concepire l’esistenza di cui vive l’Oriente. Ogni popolo, infatti, possiede una sua indigena e originaria saggezza che, quale autentica ricchezza delle culture, tende a esprimersi e a maturare anche in forme prettamente filosofiche. Quanto questo sia vero lo dimostra il fatto che una forma basilare di sapere filosofico, presente fino ai nostri giorni, è verificabile perfino nei postulati a cui le diverse legislazioni nazionali e internazionali si ispirano nel regolare la vita sociale.

4. È, comunque, da rilevare che dietro un unico termine si nascondono significati differenti. Un’esplicitazione preliminare si rende pertanto necessaria. Spinto dal desiderio di scoprire la verità ultima dell’esistenza, l’uomo cerca di acquisire quelle conoscenze universali che gli consentono di comprendersi meglio e di progredire nella realizzazione di sé. Le conoscenze fondamentali scaturiscono dalla meraviglia suscitata in lui dalla contemplazione del creato: l’essere umano è colto dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione con altri suoi simili dei quali condivide il destino. Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi. Senza meraviglia l’uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace di un’esistenza veramente personale.

La capacità speculativa, che è propria dell’intelletto umano, porta ad elaborare, mediante l’attività filosofica, una forma di pensiero rigoroso e a costruire così, con la coerenza logica delle affermazioni e l’organicità dei contenuti, un sapere sistematico. Grazie a questo processo, in differenti contesti culturali e in diverse epoche, si sono raggiunti risultati che hanno portato all’elaborazione di veri sistemi di pensiero. Storicamente ciò ha spesso esposto alla tentazione di identificare una sola corrente con l’intero pensiero filosofico. È però evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa «superbia filosofica» che pretende di erigere la propria visione prospettica e imperfetta a lettura universale. In realtà, ogni sistema filosofico, pur rispettato sempre nella sua interezza senza strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma coerente.

In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell’umanità. È come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali dell’essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio.

5. La Chiesa, da parte sua, non può che apprezzare l’impegno della ragione per il raggiungimento di obiettivi che rendano l’esistenza personale sempre più degna. Essa infatti vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l’esistenza dell’uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile per approfondire l’intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono.

Facendo pertanto seguito ad analoghe iniziative dei miei Predecessori, desidero anch’io rivolgere lo sguardo a questa peculiare attività della ragione. Mi ci spinge il rilievo che, soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso offuscata. Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver concentrato la sua attenzione sull’uomo. A partire da qui, una ragione carica di interrogativi ha sviluppato ulteriormente il suo desiderio di conoscere sempre di più e sempre più a fondo. Sono stati così costruiti sistemi di pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti nei diversi ambiti del sapere, favorendo lo sviluppo della cultura e della storia. L’antropologia, la logica, le scienze della natura, la storia, il linguaggio..., in qualche modo l’intero universo del sapere è stato abbracciato. I positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull’uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta in balia dell’arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell’errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica. È così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti.

Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall’Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l’impressione di un movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all’esistenza umana e alle sue forme espressive, dall’altra, tende a sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale, dell’essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell’uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell’essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. È venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande.

6. Forte della competenza che le deriva dall’essere depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità. È per questo motivo che ho deciso di rivolgermi a voi, Venerati Confratelli nell’Episcopato, con i quali condivido la missione di annunziare «apertamente la verità» (2 Cor 4, 2), come pure ai teologi e ai filosofi a cui spetta il dovere di indagare sui diversi aspetti della verità, ed anche alle persone che sono in ricerca, per partecipare alcune riflessioni sul cammino che conduce alla vera sapienza, affinché chiunque ha nel cuore l’amore per essa possa intraprendere la giusta strada per raggiungerla e trovare in essa riposo alla sua fatica e gaudio spirituale.

Mi spinge a questa iniziativa, anzitutto, la consapevolezza che viene espressa dalle parole del Concilio Vaticano II, quando afferma che i Vescovi sono «testimoni della divina e cattolica verità».[3]Testimoniare la verità è, dunque, un compito che è stato affidato a noi Vescovi; ad esso non possiamo rinunciare senza venir meno al ministero che abbiamo ricevuto. Riaffermando la verità della fede, possiamo ridare all’uomo del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive e offrire alla filosofia una provocazione perché possa recuperare e sviluppare la sua piena dignità.

Un ulteriore motivo mi induce a stendere queste riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor, ho richiamato l’attenzione su «alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell’attuale contesto rischiano di essere deformate o negate».[4]Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione concentrando l’attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento in rapporto alla fede. Non si può negare, infatti, che questo periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento. L’esigenza di un fondamento su cui costruire l’esistenza personale e sociale si fa sentire in maniera pressante soprattutto quando si è costretti a costatare la frammentarietà di proposte che elevano l’effimero al rango di valore, illudendo sulla possibilità di raggiungere il vero senso dell’esistenza. Accade così che molti trascinano la loro vita fin quasi sull’orlo del baratro, senza sapere a che cosa vanno incontro. Ciò dipende anche dal fatto che talvolta chi era chiamato per vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della propria speculazione, ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendo il successo nell’immediato alla fatica di una indagine paziente su ciò che merita di essere vissuto. La filosofia, che ha la grande responsabilità di formare il pensiero e la cultura attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero, deve recuperare con forza la sua vocazione originaria. È per questo che ho sentito non solo l’esigenza, ma anche il dovere di intervenire su questo tema, perché l’umanità, alla soglia del terzo millennio dell’era cristiana, prenda più chiara coscienza delle grandi risorse che le sono state concesse, e s’impegni con rinnovato coraggio nell’attuazione del piano di salvezza nel quale è inserita la sua storia.

CAPITOLO I

LA RIVELAZIONE DELLA

SAPIENZA DI DIO

Gesù rivelatore del Padre

7. Alla base di ogni riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di essere depositaria di un messaggio che ha la sua origine in Dio stesso (cfr. 2 Cor 4, 1-2). La conoscenza che essa propone all’uomo non le proviene da una sua propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall’aver accolto nella fede la parola di Dio (cfr. 1 Tess 2, 13). All’origine del nostro essere credenti vi è un incontro, unico nel suo genere, che segna il dischiudersi di un mistero nascosto nei secoli (cfr. 1 Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma ora rivelato: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura».[5] È, questa, un’iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per raggiungere l’umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l’uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza.

8. Riprendendo quasi alla lettera l’insegnamento offerto dalla Costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I e tenendo conto dei principi proposti dal Concilio Tridentino, la Costituzione Dei Verbum del Vaticano II ha proseguito il secolare cammino di intelligenza della fede, riflettendo sulla Rivelazione alla luce dell’insegnamento biblico e dell’intera tradizione patristica. Nel primo Concilio Vaticano, i Padri avevano sottolineato il carattere soprannaturale della rivelazione di Dio. La critica razionalista, che in quel periodo veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza che non fosse frutto delle capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva obbligato il Concilio a ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né vuole ingannare.[6]

9. Il Concilio Vaticano I, dunque, insegna che la verità raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità della Rivelazione non si confondono, né l’una rende superflua l’altra: «Esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché nell’uno conosciamo con la ragione naturale, nell’altro con la fede divina; per l’oggetto, perché oltre le verità che la ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono rivelati dall’alto».[7] La fede, che si fonda sulla testimonianza di Dio e si avvale dell’aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa, infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull’esperienza e si muove alla luce del solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell’ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la «pienezza di grazia e di verità» (cfr. Gv 1, 14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo (cfr. 1 Gv 5, 9; Gv 5, 31-32).

10. Al Concilio Vaticano II i Padri, puntando lo sguardo su Gesù rivelatore, hanno illustrato il carattere salvifico della rivelazione di Dio nella storia e ne hanno espresso la natura nel modo seguente: «Con questa rivelazione, Dio invisibile (cfr. Col 1, 15; 1 Tm 1, 17) nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3, 38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione».[8]

11. La rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e nella storia. L’incarnazione di Gesù Cristo, anzi, avviene nella «pienezza del tempo» (Gal 4, 4). A duemila anni di distanza da quell’evento, sento il dovere di riaffermare con forza che «nel cristianesimo il tempo ha un’importanza fondamentale».[9] In esso, infatti, viene alla luce l’intera opera della creazione e della salvezza e, soprattutto, emerge il fatto che con l’incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che sarà il compimento del tempo (cfr. Eb 1, 2).

La verità che Dio ha consegnato all’uomo su se stesso e sulla sua vita si inserisce, quindi, nel tempo e nella storia. Certo, essa è stata pronunciata una volta per tutte nel mistero di Gesù di Nazareth. Lo dice con parole eloquenti la Costituzione Dei Verbum: «Dio, dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei Profeti, “alla fine, nei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1, 1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (cfr. Gv 1, 1-18). Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3, 34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5, 36; 17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14, 9), con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione».[10]

La storia, pertanto, costituisce per il Popolo di Dio un cammino da percorrere interamente, così che la verità rivelata esprima in pienezza i suoi contenuti grazie all’azione incessante dello Spirito Santo (cfr. Gv 16, 13). Lo insegna, ancora una volta, la Costituzione Dei Verbum quando afferma che «la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio».[11]

12. La storia, quindi, diventa il luogo in cui possiamo costatare l’agire di Dio a favore dell’umanità. Egli ci raggiunge in ciò che per noi è più familiare e facile da verificare, perché costituisce il nostro contesto quotidiano, senza il quale non riusciremmo a comprenderci.

L’incarnazione del Figlio di Dio permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto immaginare: l’Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell’uomo. La verità espressa nella Rivelazione di Cristo, dunque, non è più rinchiusa in un ristretto ambito territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna che voglia accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso all’esistenza. Ora, tutti hanno in Cristo accesso al Padre; con la sua morte e risurrezione, infatti, Egli ha donato la vita divina che il primo Adamo aveva rifiutato (cfr. Rm 5, 12-15). Con questa Rivelazione viene offerta all’uomo la verità ultima sulla propria vita e sul destino della storia: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo», afferma la Costituzione Gaudium et spes.[12] Al di fuori di questa prospettiva il mistero dell’esistenza personale rimane un enigma insolubile. Dove l’uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell’innocente e della morte, se non nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?

La ragione dinanzi al mistero

13. Non sarà, comunque, da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre, essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio;[13] eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. Solo la fede permette di entrare all’interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza.

Insegna il Concilio che «a Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede».[14] Con questa breve ma densa affermazione, viene indicata una fondamentale verità del cristianesimo. Si dice, anzitutto, che la fede è risposta di obbedienza a Dio. Ciò comporta che Egli venga riconosciuto nella sua divinità, trascendenza e libertà suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell’autorità della sua assoluta trascendenza, porta anche con sé la credibilità dei contenuti che rivela. Con la fede, l’uomo dona il suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò significa che riconosce pienamente e integralmente la verità di quanto rivelato, perché è Dio stesso che se ne fa garante. Questa verità, donata all’uomo e da lui non esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso profondo. È per questo che l’atto con il quale ci si affida a Dio è sempre stato considerato dalla Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui tutta la persona è coinvolta. Intelletto e volontà esercitano al massimo la loro natura spirituale per consentire al soggetto di compiere un atto in cui la libertà personale è vissuta in maniera piena.[15] Nella fede, quindi, la libertà non è semplicemente presente: è esigita. È la fede, anzi, che permette a ciascuno di esprimere al meglio la propria libertà. In altre parole, la libertà non si realizza nelle scelte contro Dio. Come infatti potrebbe essere considerato un uso autentico della libertà il rifiuto di aprirsi verso ciò che permette la realizzazione di se stessi? È nel credere che la persona compie l’atto più significativo della propria esistenza; qui, infatti, la libertà raggiunge la certezza della verità e decide di vivere in essa.

In aiuto alla ragione, che cerca l’intelligenza del mistero, vengono anche i segni presenti nella Rivelazione. Essi servono a condurre più a fondo la ricerca della verità e a permettere che la mente possa autonomamente indagare anche all’interno del mistero. Questi segni, comunque, se da una parte danno maggior forza alla ragione, perché le consentono di ricercare all’interno del mistero con i suoi propri mezzi di cui è giustamente gelosa, dall’altra la spingono a trascendere la loro realtà di segni per raccoglierne il significato ulteriore di cui sono portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità nascosta a cui la mente è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il segno stesso che le viene proposto.

Si è rimandati, in qualche modo, all’orizzonte sacramentale della Rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico dove l’unità inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di cogliere la profondità del mistero. Cristo nell’Eucaristia è veramente presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma, come aveva ben detto san Tommaso, «tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi».[16] Gli fa eco il filosofo Pascal: «Come Gesù Cristo è rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni comuni, senza differenza esteriore. Così resta l’Eucaristia tra il pane comune».[17]

La conoscenza di fede, insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto essenziale per la vita dell’uomo: Cristo Signore «rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»,[18] che è quella di partecipare al mistero della vita trinitaria di Dio.[19]

14. L’insegnamento dei due Concili Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche per il sapere filosofico. La Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall’altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede. All’interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere, senza essere limitata da null’altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito di Dio.

La Rivelazione, pertanto, immette nella nostra storia una verità universale e ultima che provoca la mente dell’uomo a non fermarsi mai; la spinge, anzi, ad allargare continuamente gli spazi del proprio sapere fino a quando non avverte di avere compiuto quanto era in suo potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in aiuto per questa riflessione una delle intelligenze più feconde e significative della storia dell’umanità, a cui fanno doveroso riferimento sia la filosofia che la teologia: sant’Anselmo. Nel suo Proslogion, l’Arcivescovo di Canterbury così si esprime: «Volgendo spesso e con impegno il mio pensiero a questo problema, a volte mi sembrava di poter ormai afferrare ciò che cercavo, altre volte invece sfuggiva completamente al mio pensiero; finché finalmente, disperando di poterlo trovare, volli smettere di ricercare qualcosa che era impossibile trovare. Ma quando volli scacciare da me quel pensiero perché, occupando la mia mente, non mi distogliesse da altri problemi dai quali potevo ricavare qualche profitto, allora cominciò a presentarsi con sempre maggior importunità [...]. Ma povero me, uno dei poveri figli di Eva, lontani da Dio, che cosa ho cominciato a fare e a che cosa sono riuscito? A che cosa tendevo e a che cosa sono giunto? A che cosa aspiravo e di che sospiro? [...]. O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non solum es quo maius cogitari nequit ), ma sei più grande di tutto ciò che si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit ) [...]. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile».[20]

15. La verità della Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di Nazareth, permette a chiunque di accogliere il «mistero» della propria vita. Come verità suprema, essa, mentre rispetta l’autonomia della creatura e la sua libertà, la impegna ad aprirsi alla trascendenza. Qui il rapporto libertà e verità diventa sommo e si comprende in pienezza la parola del Signore: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 32).

La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l’uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l’ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All’uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità. Le parole del Deuteronomio bene si possono applicare a questa situazione: «Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (30,11-14). A questo testo fa eco il famoso pensiero del santo filosofo e teologo Agostino: «Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas».[21]

Alla luce di queste considerazioni, una prima conclusione si impone: la verità che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione. Essa, invece, si presenta con la caratteristica della gratuità, produce pensiero e chiede di essere accolta come espressione di amore. Questa verità rivelata è anticipo, posto nella nostra storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano con cuore sincero. Il fine ultimo dell’esistenza personale, dunque, è oggetto di studio sia della filosofia che della teologia. Ambedue, anche se con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo «sentiero della vita» (Sal 16 [15], 11) che, come la fede ci dice, ha il suo sbocco ultimo nella gioia piena e duratura della contemplazione del Dio Uno e Trino.

CAPITOLO II

CREDO UT INTELLEGAM

«La sapienza tutto conosce e tutto comprende» (Sap 9, 11)

16. Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse. Quasi per un disegno particolare, l’Egitto e la Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle culture dell’antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine ricche di intuizioni singolarmente profonde.

Non è un caso che, nel momento in cui l’autore sacro vuole descrivere l’uomo saggio, lo dipinga come colui che ama e ricerca la verità: «Beato l’uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l’intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i segreti. La insegue come uno che segue una pista, si apposta sui suoi sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla sua porta. Fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti; alza la propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di benessere; mette i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna; da essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all’ombra della sua gloria» (Sir 14, 20-27).

Per l’autore ispirato, come si vede, il desiderio di conoscere è una caratteristica che accomuna tutti gli uomini. Grazie all’intelligenza è data a tutti, sia credenti che non credenti, la possibilità di «attingere alle acque profonde» della conoscenza (cfr. Pro 20, 5). Certo, nell’antico Israele la conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il filosofo ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la conoscenza con i parametri propri dell’epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto originale.

Quale? La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa non interviene per umiliare l’autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all’uomo che in questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la presenza operante della Provvidenza. Un’espressione del libro dei Proverbi è significativa in proposito: «La mente dell’uomo pensa molto alla sua via, ma il Signore dirige i suoi passi» (16, 9). Come dire, l’uomo con la luce della ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca nell’orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l’uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio.

17. Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l’una è nell’altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione. È sempre il libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: «È gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle» (Pro 25, 2). Dio e l’uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. In Dio risiede l’origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e questo costituisce la sua gloria; all’uomo spetta il compito di investigare con la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà. Un’ulteriore tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista quando prega dicendo: «Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora» (139 [138], 17-18). Il desiderio di conoscere è così grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore dell’uomo, pur nell’esperienza del limite invalicabile, sospira verso l’infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta.

18. Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell’uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l’orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel «timore di Dio», del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo.

Quando s’allontana da queste regole, l’uomo s’espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello «stolto». Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr. Pro 1, 7) e di assumere un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e dell’ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare «Dio non esiste» (cfr. Sal 14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla loro origine e sul loro destino.

19. Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel Libro della Sapienza. In essi l’Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che con la sua intelligenza l’uomo è in grado di «comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto delle fiere» (Sap 7, 17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui sembra riferirsi in questo contesto, l’Autore afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: «Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l’autore» (Sap 13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina, costituito dal meraviglioso «libro della natura», leggendo il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore. Se l’uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato, quanto piuttosto all’impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato.

20. La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede: «Dal Signore sono diretti i passi dell’uomo e come può l’uomo comprendere la propria via?» (Pro 20, 24). Per l’Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in quanto le permette di raggiungere coerentemente il suo oggetto di conoscenza e di collocarlo in quell’ordine supremo in cui tutto acquista senso. In una parola, l’uomo con la ragione raggiunge la verità, perché illuminato dalla fede scopre il senso profondo di ogni cosa e, in particolare, della propria esistenza. Giustamente, dunque, l’autore sacro pone l’inizio della vera conoscenza proprio nel timore di Dio: «Il timore del Signore è il principio della scienza» (Pro 1, 7; cfr. Sir 1, 14).

«Acquista la sapienza, acquista l’intelligenza»(Pro 4, 5)

21. La conoscenza, per l’Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta osservazione dell’uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta. Riflettendo su questa sua condizione, l’uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non come «essere in relazione»: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione fino allora insperate.

Lo sforzo della ricerca non era esente, per l’Autore sacro, dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr. 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un «esploratore» (cfr. Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.

22. San Paolo, nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio apprezzare quanto penetrante sia la riflessione dei Libri Sapienziali. Sviluppando un’argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l’Apostolo esprime una profonda verità: attraverso il creato gli «occhi della mente» possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua «potenza» e la sua «divinità» (cfr. Rm 1, 20). Alla ragione dell’uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell’importante testo paolino, viene affermata la capacità metafisica dell’uomo.

Secondo l’Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l’origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l’uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno.

Il Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell’uomo, quando narra che Dio lo pose nel giardino dell’Eden, al cui centro era situato «l’albero della conoscenza del bene e del male» (2, 17). Il simbolo è chiaro: l’uomo non era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell’orgoglio illuse i nostri progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità. Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata dall’avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. È ancora l’Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero diventati «vani» e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr. Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più capaci di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta di Cristo è stata l’evento di salvezza che ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa stessa s’era imprigionata.

23. Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra «la sapienza di questo mondo» e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.

L’inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. «Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l’Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell’uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l’accoglienza di una novità radicale: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell’uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 10). L’uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera «follia» e «scandalo». Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: «Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell’amore rivelato nella croce di Cristo, l’Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza.

La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella «follia» della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare.

CAPITOLO III

INTELLEGO UT CREDAM

In cammino alla ricerca della verità

24. Racconta l’evangelista Luca negli Atti degli Apostoli che, durante i suoi viaggi missionari, Paolo arrivò ad Atene. La città dei filosofi era ricolma di statue rappresentanti diversi idoli. Un altare colpì la sua attenzione ed egli ne trasse prontamente lo spunto per individuare una base comune su cui avviare l’annuncio del kerigma: «Cittadini ateniesi, — disse — vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando, infatti, e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17, 22-23). A partire da qui, san Paolo parla di Dio come creatore, come di Colui che trascende ogni cosa e che a tutto dà vita. Continua poi il suo discorso così: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17, 26-27).

L’Apostolo mette in luce una verità di cui la Chiesa ha sempre fatto tesoro: nel più profondo del cuore dell’uomo è seminato il desiderio e la nostalgia di Dio. Lo ricorda con forza anche la liturgia del Venerdì Santo quando, invitando a pregare per quanti non credono, ci fa dire: «O Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace».[22] Esiste quindi un cammino che l’uomo, se vuole, può percorrere; esso prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al di sopra del contingente per spaziare verso l’infinito.

In differenti modi e in diversi tempi l’uomo ha dimostrato di saper dare voce a questo suo intimo desiderio. La letteratura, la musica, la pittura, la scultura, l’architettura ed ogni altro prodotto della sua intelligenza creatrice sono diventati canali attraverso cui esprimere l’ansia della sua ricerca. La filosofia in modo peculiare ha raccolto in sé questo movimento ed ha espresso, con i suoi mezzi e secondo le modalità scientifiche sue proprie, questo universale desiderio dell’uomo.

25. «Tutti gli uomini desiderano sapere»,[23] e oggetto proprio di questo desiderio è la verità. La stessa vita quotidiana mostra quanto ciascuno sia interessato a scoprire, oltre il semplice sentito dire, come stanno veramente le cose. L’uomo è l’unico essere in tutto il creato visibile che non solo è capace di sapere, ma sa anche di sapere, e per questo si interessa alla verità reale di ciò che gli appare. Nessuno può essere sinceramente indifferente alla verità del suo sapere. Se scopre che è falso, lo rigetta; se può, invece, accertarne la verità, si sente appagato. È la lezione di sant’Agostino quando scrive: «Molti ho incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno».[24] Giustamente si ritiene che una persona abbia raggiunto l’età adulta quando può discernere, con i propri mezzi, tra ciò che è vero e ciò che è falso, formandosi un suo giudizio sulla realtà oggettiva delle cose. Sta qui il motivo di tante ricerche, in particolare nel campo delle scienze, che hanno portato negli ultimi secoli a così significativi risultati, favorendo un autentico progresso dell’umanità intera.

Non meno importante della ricerca in ambito teoretico è quella in ambito pratico: intendo alludere alla ricerca della verità in rapporto al bene da compiere. Con il proprio agire etico, infatti, la persona, operando secondo il suo libero e retto volere, si introduce nella strada della felicità e tende verso la perfezione. Anche in questo caso si tratta di verità. Ho ribadito questa convinzione nella Lettera enciclica Veritatis splendor: «Non si dà morale senza libertà [...]. Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta».[25]

È necessario, dunque, che i valori scelti e perseguiti con la propria vita siano veri, perché soltanto valori veri possono perfezionare la persona realizzandone la natura. Questa verità dei valori, l’uomo la trova non rinchiudendosi in se stesso ma aprendosi ad accoglierla anche nelle dimensioni che lo trascendono. È questa una condizione necessaria perché ognuno diventi se stesso e cresca come persona adulta e matura.

26. La verità inizialmente si presenta all’uomo in forma interrogativa: ha un senso la vita? verso dove è diretta? A prima vista, l’esistenza personale potrebbe presentarsi radicalmente priva di senso. Non è necessario ricorrere ai filosofi dell’assurdo né alle provocatorie domande che si ritrovano nel Libro di Giobbe per dubitare del senso della vita. L’esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come quella sul senso.[26] A ciò si aggiunga che la prima verità assolutamente certa della nostra esistenza, oltre al fatto che esistiamo, è l’inevitabilità della nostra morte. Di fronte a questo dato sconcertante s’impone la ricerca di una risposta esaustiva. Ognuno vuole — e deve — conoscere la verità sulla propria fine. Vuole sapere se la morte sarà il termine definitivo della sua esistenza o se vi è qualcosa che oltrepassa la morte; se gli è consentito sperare in una vita ulteriore oppure no. Non è senza significato che il pensiero filosofico abbia ricevuto un suo decisivo orientamento dalla morte di Socrate e ne sia rimasto segnato da oltre due millenni. Non è affatto casuale, quindi, che i filosofi dinanzi al fatto della morte si siano riproposti sempre di nuovo questo problema insieme con quello sul senso della vita e dell’immortalità.

27. A questi interrogativi nessuno può sfuggire, né il filosofo né l’uomo comune. Dalla risposta ad essi data dipende una tappa decisiva della ricerca: se sia possibile o meno raggiungere una verità universale e assoluta. Di per sé, ogni verità anche parziale, se è realmente verità, si presenta come universale. Ciò che è vero, deve essere vero per tutti e per sempre. Oltre a questa universalità, tuttavia, l’uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza ad una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio.

I filosofi, nel corso dei secoli, hanno cercato di scoprire e di esprimere una simile verità, dando vita a un sistema o una scuola di pensiero. Al di là dei sistemi filosofici, tuttavia, vi sono altre espressioni in cui l’uomo cerca di dare forma a una sua «filosofia»: si tratta di convinzioni o esperienze personali, di tradizioni familiari e culturali o di itinerari esistenziali in cui ci si affida all’autorità di un maestro. In ognuna di queste manifestazioni ciò che permane sempre vivo è il desiderio di raggiungere la certezza della verità e del suo valore assoluto.

I differenti volti della verità dell’uomo

28. Non sempre, è doveroso riconoscerlo, la ricerca della verità si presenta con una simile trasparenza e consequenzialità. La nativa limitatezza della ragione e l’incostanza del cuore oscurano e deviano spesso la ricerca personale. Altri interessi di vario ordine possono sopraffare la verità. Succede anche che l’uomo addirittura la sfugga non appena comincia ad intravederla, perché ne teme le esigenze. Nonostante questo, anche quando la evita, è sempre la verità ad influenzarne l’esistenza. Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria vita sul dubbio, sull’incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza sarebbe minacciata costantemente dalla paura e dall’angoscia. Si può definire, dunque, l’uomo come colui che cerca la verità.

29. Non è pensabile che una ricerca così profondamente radicata nella natura umana possa essere del tutto inutile e vana. La stessa capacità di cercare la verità e di porre domande implica già una prima risposta. L’uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la prospettiva di poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo. Di fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone alla ricerca della spiegazione logica e verificabile di un determinato fenomeno, egli ha fiducia fin dall’inizio di trovare una risposta, e non s’arrende davanti agli insuccessi. Egli non ritiene inutile l’intuizione originaria solo perché non ha raggiunto l’obiettivo; con ragione dirà piuttosto che non ha trovato ancora la risposta adeguata.

La stessa cosa deve valere anche per la ricerca della verità nell’ambito delle questioni ultime. La sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l’esistenza. È sufficiente, insomma, osservare la vita di tutti i giorni per costatare come ciascuno di noi porti in sé l’assillo di alcune domande essenziali ed insieme custodisca nel proprio animo almeno l’abbozzo delle relative risposte. Sono risposte della cui verità si è convinti, anche perché si sperimenta che, nella sostanza, non differiscono dalle risposte a cui sono giunti tanti altri. Certo, non ogni verità che viene acquisita possiede lo stesso valore. Dall’insieme dei risultati raggiunti, tuttavia, viene confermata la capacità che l’essere umano ha di pervenire, in linea di massima, alla verità.

30. Può essere utile, ora, fare un rapido cenno a queste diverse forme di verità. Le più numerose sono quelle che poggiano su evidenze immediate o trovano conferma per via di esperimento. È questo l’ordine di verità proprio della vita quotidiana e della ricerca scientifica. A un altro livello si trovano le verità di carattere filosofico, a cui l’uomo giunge mediante la capacità speculativa del suo intelletto. Infine, vi sono le verità religiose, che in qualche misura affondano le loro radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle risposte che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande ultime.[27]

Quanto alle verità filosofiche, occorre precisare che esse non si limitano alle sole dottrine, talvolta effimere, dei filosofi di professione. Ogni uomo, come già ho detto, è in certo qual modo un filosofo e possiede proprie concezioni filosofiche con le quali orienta la sua vita. In un modo o in un altro, egli si forma una visione globale e una risposta sul senso della propria esistenza: in tale luce egli interpreta la propria vicenda personale e regola il suo comportamento. È qui che dovrebbe porsi la domanda sul rapporto tra le verità filosofico-religiose e la verità rivelata in Gesù Cristo. Prima di rispondere a questo interrogativo è opportuno valutare un ulteriore dato della filosofia.

31. L’uomo non è fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società. Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede. La crescita e la maturazione personale, comunque, implicano che queste stesse verità possano essere messe in dubbio e vagliate attraverso la peculiare attività critica del pensiero. Ciò non toglie che, dopo questo passaggio, quelle stesse verità siano «ricuperate» sulla base dell’esperienza che se ne è fatta, o in forza del ragionamento successivo. Nonostante questo, nella vita di un uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più numerose di quelle che egli acquisisce mediante la personale verifica. Chi, infatti, sarebbe in grado di vagliare criticamente gli innumerevoli risultati delle scienze su cui la vita moderna si fonda? Chi potrebbe controllare per conto proprio il flusso delle informazioni, che giorno per giorno si ricevono da ogni parte del mondo e che pure si accettano, in linea di massima, come vere? Chi, infine, potrebbe rifare i cammini di esperienza e di pensiero per cui si sono accumulati i tesori di saggezza e di religiosità dell’umanità? L’uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza.

32. Nel credere, ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone. È ravvisabile in ciò una tensione significativa: da una parte, la conoscenza per credenza appare come una forma imperfetta di conoscenza, che deve perfezionarsi progressivamente mediante l’evidenza raggiunta personalmente; dall’altra, la credenza risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza, perché include un rapporto interpersonale e mette in gioco non solo le personali capacità conoscitive, ma anche la capacità più radicale di affidarsi ad altre persone, entrando in un rapporto più stabile ed intimo con loro.

È bene sottolineare che le verità ricercate in questa relazione interpersonale non sono primariamente nell’ordine fattuale o in quello filosofico. Ciò che viene richiesto, piuttosto, è la verità stessa della persona: ciò che essa è e ciò che manifesta del proprio intimo. La perfezione dell’uomo, infatti, non sta nella sola acquisizione della conoscenza astratta della verità, ma consiste anche in un rapporto vivo di donazione e di fedeltà verso l’altro. In questa fedeltà che sa donarsi, l’uomo trova piena certezza e sicurezza. Al tempo stesso, però, la conoscenza per credenza, che si fonda sulla fiducia interpersonale, non è senza riferimento alla verità: l’uomo, credendo, si affida alla verità che l’altro gli manifesta.

Quanti esempi si potrebbero portare per illustrare questo dato! Il mio pensiero, però, corre direttamente alla testimonianza dei martiri. Il martire, in effetti, è il più genuino testimone della verità sull’esistenza. Egli sa di avere trovato nell’incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà mai strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall’adesione alla verità che ha scoperto nell’incontro con Cristo. Ecco perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri affascina, genera consenso, trova ascolto e viene seguita. Questa è la ragione per cui ci si fida della loro parola: si scopre in essi l’evidenza di un amore che non ha bisogno di lunghe argomentazioni per essere convincente, dal momento che parla ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce come vero e ricercato da tanto tempo. Il martire, insomma, provoca in noi una profonda fiducia, perché dice ciò che noi già sentiamo e rende evidente ciò che anche noi vorremmo trovare la forza di esprimere.

33. Si può così vedere che i termini del problema vanno progressivamente completandosi. L’uomo, per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell’assoluto.[28] Grazie alle capacità insite nel pensiero, l’uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile verità. In quanto vitale ed essenziale per la sua esistenza, tale verità viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche mediante l’abbandono fiducioso ad altre persone, che possono garantire la certezza e l’autenticità della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se stessi e la propria vita a un’altra persona costituiscono certamente uno degli atti antropologicamente più significativi ed espressivi.

Non si dimentichi che anche la ragione ha bisogno di essere sostenuta nella sua ricerca da un dialogo fiducioso e da un’amicizia sincera. Il clima di sospetto e di diffidenza, che a volte circonda la ricerca speculativa, dimentica l’insegnamento dei filosofi antichi, i quali ponevano l’amicizia come uno dei contesti più adeguati per il retto filosofare.

Da quanto ho fin qui detto, risulta che l’uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice credenza, infatti, essa immette l’uomo in quell’ordine di grazia che gli consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede riconosce l’ultimo appello che viene rivolto all’umanità, perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia.

34. Questa verità, che Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è in contrasto con le verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza. L’unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l’intelligibilità e la ragionevolezza dell’ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi,(29) è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Quest’unità della verità, naturale e rivelata, trova la sua identificazione viva e personale in Cristo, così come ricorda l’Apostolo: «La verità che è in Gesù» (Ef 4, 21; cfr. Col 1, 15-20). Egli è la Parola eterna, in cui tutto è stato creato, ed è insieme la Parola incarnata, che in tutta la sua persona[30] rivela il Padre (cfr. Gv 1, 14.18). Ciò che la ragione umana cerca «senza conoscerlo» (cfr. At 17, 23), può essere trovato soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la «piena verità» (cfr. Gv 1, 14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova compimento (cfr. Col 1, 17).

35. Sullo sfondo di queste considerazioni generali, è necessario ora esaminare in maniera più diretta il rapporto tra la verità rivelata e la filosofia. Questo rapporto impone una duplice considerazione, in quanto la verità che ci proviene dalla Rivelazione è, nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce della ragione. Solo in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare la giusta relazione della verità rivelata con il sapere filosofico. Consideriamo, pertanto, in primo luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel corso della storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi, che costituiscono i punti di riferimento a cui rifarsi per stabilire il corretto rapporto tra i due ordini di conoscenza.

CAPITOLO IV

IL RAPPORTO TRA LA FEDE

E LA RAGIONE

Tappe significative dell’incontro tra fede e ragione

36. Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, l’annuncio cristiano venne a confronto sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro riferisce della discussione che san Paolo ebbe ad Atene con «certi filosofi epicurei e stoici» (17, 18). L’analisi esegetica di quel discorso all’Areopago ha posto in evidenza le ripetute allusioni a convincimenti popolari di provenienza per lo più stoica. Certamente ciò non era casuale. Per farsi comprendere dai pagani, i primi cristiani non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto «a Mosè e ai profeti»; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo (cfr. Rm 1, 19-21; 2, 14-15; At 14, 16-17). Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria (cfr. Rm 1, 21-32), l’Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto ai miti e ai culti misterici concetti più rispettosi della trascendenza divina.

Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. I tentativi dell’uomo di comprendere l’origine degli dei e, in loro, dell’universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le teogonie rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca dell’uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo.

37. Nell’accennare a questo movimento di avvicinamento dei cristiani alla filosofia, è doveroso ricordare anche l’atteggiamento di cautela che in essi suscitavano altri elementi del mondo culturale pagano, quali ad esempio la gnosi. La filosofia, come saggezza pratica e scuola di vita, poteva facilmente essere confusa con una conoscenza di tipo superiore, esoterico, riservato a pochi perfetti. È senza dubbio a questo genere di speculazioni esoteriche che san Paolo pensa, quando mette in guardia i Colossesi: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (2, 8). Quanto mai attuali si presentano le parole dell’Apostolo, se le riferiamo alle diverse forme di esoterismo che dilagano oggi anche presso alcuni credenti, privi del dovuto senso critico. Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli, in particolare sant’Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei confronti di un’impostazione culturale che pretendeva di subordinare la verità della Rivelazione all’interpretazione dei filosofi.

38. L’incontro del cristianesimo con la filosofia, dunque, non fu immediato né facile. La pratica di essa e la frequentazione delle scuole apparve ai primi cristiani più come un disturbo che come un’opportunità. Per loro, primo e urgente dovere era l’annuncio di Cristo risorto da proporre in un incontro personale capace di condurre l’interlocutore alla conversione del cuore e alla richiesta del Battesimo. Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il compito di approfondire l’intelligenza della fede e delle sue motivazioni. Tutt’altro. Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che accusa i cristiani di essere gente «illetterata e rozza».[31] La spiegazione di questo loro iniziale disinteresse va ricercata altrove. In realtà, l’incontro con il Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione, fino a quel momento ancora non risolta, circa il senso della vita, che la frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa lontana e, per alcuni versi, superata.

Ciò appare oggi ancora più chiaro, se si pensa a quell’apporto del cristianesimo che consiste nell’affermazione dell’universale diritto d’accesso alla verità. Abbattute le barriere razziali, sociali e sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin dai suoi inizi l’uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. La prima conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva decisamente superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva presso gli antichi: poiché l’accesso alla verità è un bene che permette di giungere a Dio, tutti devono essere nella condizione di poter percorrere questa strada. Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo.

Quale pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento, va ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo «l’unica sicura e proficua filosofia».[32] Similmente, Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo «la vera filosofia»,[33] e interpretava la filosofia in analogia alla legge mosaica come una istruzione propedeutica alla fede cristiana[34] e una preparazione al Vangelo.[35] Poiché «la filosofia brama quella sapienza che consiste nella rettitudine dell’anima e della parola e nella purezza della vita, essa è ben disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per raggiungerla. Presso di noi si dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice e maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del Figlio di Dio».[36] La filosofia greca, per l’Alessandrino, non ha come primo scopo quello di completare o rafforzare la verità cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della fede: «La dottrina del Salvatore è perfetta in se stessa e non ha bisogno di appoggio, perché essa è la forza e la sapienza di Dio. La filosofia greca, col suo apporto, non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente l’attacco della sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità, la si è chiamata a ragione siepe e muro di cinta della vigna».[37]

39. Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l’assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la divinizzazione dell’uomo e l’origine del male.

40. In quest’opera di cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico, meritano particolare menzione i Padri Cappadoci, Dionigi detto l’Areopagita e soprattutto sant’Agostino. Il grande Dottore occidentale era venuto a contatto con diverse scuole filosofiche, ma tutte lo avevano deluso. Quando davanti a lui si affacciò la verità della fede cristiana, allora ebbe la forza di compiere quella radicale conversione a cui i filosofi precedentemente frequentati non erano riusciti ad indurlo. Il motivo lo racconta lui stesso: «Dal quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per l’insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio d’errore trascurabile in confronto all’insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle».[38] Agli stessi platonici, a cui si faceva riferimento in modo privilegiato, Agostino rimproverava che, pur avendo conosciuto il fine verso cui tendere, avevano ignorato però la via che vi conduce: il Verbo incarnato.[39] Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre la prima grande sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale confluivano correnti del pensiero greco e latino. Anche in lui, la grande unità del sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne ad essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo. La sintesi compiuta da sant’Agostino rimarrà per secoli come la forma più alta della speculazione filosofica e teologica che l’Occidente abbia conosciuto. Forte della sua storia personale e aiutato da una mirabile santità di vita, egli fu anche in grado di introdurre nelle sue opere molteplici dati che, facendo riferimento all’esperienza, preludevano a futuri sviluppi di alcune correnti filosofiche.

41. Diverse, dunque, sono state le forme con cui i Padri d’Oriente e d’Occidente sono entrati in rapporto con le scuole filosofiche. Ciò non significa che essi abbiano identificato il contenuto del loro messaggio con i sistemi a cui facevano riferimento. La domanda di Tertulliano: «Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l’Accademia e la Chiesa?»,[40] è chiaro sintomo della coscienza critica con cui i pensatori cristiani, fin dalle origini, affrontarono il problema del rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo globalmente nei suoi aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori ingenui. Proprio perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi sapevano raggiungere le forme più profonde della speculazione. È pertanto ingiusto e riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle verità di fede in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti, a far emergere in pienezza quanto risultava ancora implicito e propedeutico nel pensiero dei grandi filosofi antichi.[41] Costoro, come ho detto, avevano avuto il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli esterni, potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi in modo più adeguato alla trascendenza. Una ragione purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione dell’essere, del trascendente e dell’assoluto.

Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra; esso avvenne nell’intimo degli animi e fu incontro tra la creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze.

42. Nella teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto la spinta dell’interpretazione anselmiana dell’intellectus fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant’Anselmo sottolinea il fatto che l’intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera conoscere. Chi vive per la verità è proteso verso una forma di conoscenza che si infiamma sempre più di amore per ciò che conosce, pur dovendo ammettere di non aver ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo desiderio: «Ad te videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum».[42] Il desiderio di verità spinge, dunque, la ragione ad andare sempre oltre; essa, anzi, viene come sopraffatta dalla costatazione della sua capacità sempre più grande di ciò che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado di scoprire ove stia il compimento del suo cammino: «Penso infatti che chi investiga una cosa incomprensibile debba accontentarsi di giungere con il ragionamento a riconoscerne con somma certezza la realtà, anche se non è in grado di penetrare con l’intelletto il suo modo di essere [...]. Che cosa c’è peraltro di tanto incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di sopra di ogni cosa? Se dunque ciò di cui finora si è disputato intorno alla somma essenza è stato stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa essere penetrato con l’intelletto in modo da potersi chiarire anche verbalmente, non per questo vacilla minimamente il fondamento della sua certezza. Se, infatti, una precedente riflessione ha compreso in modo razionale che è incomprensibile (rationabiliter comprehendit incomprehensibile esse) il modo in cui la sapienza superna sa ciò che ha fatto [...], chi spiegherà come essa stessa si conosce e si dice, essa di cui l’uomo nulla o pressoché nulla può sapere?».[43]

L’armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l’aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta.

La novità perenne del pensiero di san Tommaso d’Aquino

43. Un posto tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In un’epoca in cui i pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l’armonia che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non possono contraddirsi tra loro.[44]

Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento,[45] così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo «esercizio del pensiero»; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole.[46]

È per questo motivo che, giustamente, san Tommaso è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia. Mi piace ricordare, in questo contesto, quanto ha scritto il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, in occasione del settimo centenario della morte del Dottore Angelico: «Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la libertà di spirito nell’affrontare i nuovi problemi, l’onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò, egli passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della filosofia e della cultura universale. Il punto centrale e quasi il nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello della conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo, sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori, senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili esigenze dell’ordine soprannaturale».[47]

44. Tra le grandi intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che lo Spirito Santo svolge nel far maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa Theologiæ[48] l’Aquinate volle mostrare il primato di quella sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla conoscenza delle realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità della sapienza nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce per connaturalità, presuppone la fede e arriva a formulare il suo retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa: «La sapienza elencata tra i doni dello Spirito Santo è distinta da quella che è posta tra le virtù intellettuali. Infatti quest’ultima si acquista con lo studio: quella invece —viene dall’alto—, come si esprime san Giacomo. Così pure è distinta dalla fede. Poiché la fede accetta la verità divina così com’è, invece è proprio del dono di sapienza giudicare secondo la verità divina».[49]

La priorità riconosciuta a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza di altre due complementari forme di sapienza: quella filosofica, che si fonda sulla capacità che l’intelletto ha, entro i limiti che gli sono connaturali, di indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda sulla Rivelazione ed esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero stesso di Dio.

Intimamente convinto che «omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est»,[50] san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare, evidenziando al massimo la sua universalità. In lui, il Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per la verità; il suo pensiero, proprio perché si mantenne sempre nell’orizzonte della verità universale, oggettiva e trascendente, raggiunse «vette che l’intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare».[51] Con ragione, quindi, egli può essere definito «apostolo della verità».[52] Proprio perché alla verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne l’oggettività. La sua è veramente la filosofia dell’essere e non del semplice apparire.

Il dramma della separazione tra fede e ragione

45. Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.

Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa.

46. Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità.

Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano.

Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.

47. Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili — come «ragione strumentale» al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere.

Quanto sia pericoloso assolutizzare questa strada l’ho fatto osservare fin dalla mia prima Lettera enciclica quando scrivevo: «L’uomo di oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di ‘alienazione’, nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso».[53]

Sulla scia di queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca della verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento della certezza soggettiva o dell’utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato l’offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l’assoluto.

48. Ciò che emerge da questo ultimo scorcio di storia della filosofia è, dunque, la constatazione di una progressiva separazione tra la fede e la ragione filosofica. È ben vero che, ad una attenta osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro che contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano talvolta germi preziosi di pensiero, che, se approfonditi e sviluppati con rettitudine di mente e di cuore, possono far scoprire il cammino della verità. Questi germi di pensiero si trovano, ad esempio, nelle approfondite analisi sulla percezione e l’esperienza, sull’immaginario e l’inconscio, sulla personalità e l’intersoggettività, sulla libertà ed i valori, sul tempo e la storia. Anche il tema della morte può diventare severo richiamo, per ogni pensatore, a ricercare dentro di sé il senso autentico della propria esistenza. Questo tuttavia non toglie che l’attuale rapporto tra fede e ragione richieda un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l’una di fronte all’altra. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere.

Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione.

CAPITOLO V

GLI INTERVENTI DEL

MAGISTERO IN MATERIA

FILOSOFICA

Il discernimento del Magistero come diaconia alla verità

49. La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre.[54] La ragione profonda di questa riservatezza sta nel fatto che la filosofia, anche quando entra in rapporto con la teologia, deve procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti garanzia che essa rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo razionalmente controllabile. Di poco aiuto sarebbe una filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode la filosofia è da individuare nel fatto che la ragione è per sua natura orientata alla verità ed è inoltre in se stessa fornita dei mezzi necessari per raggiungerla. Una filosofia consapevole di questo suo «statuto costitutivo» non può non rispettare anche le esigenze e le evidenze proprie della verità rivelata.

La storia, tuttavia, ha mostrato le deviazioni e gli errori in cui non di rado il pensiero filosofico, soprattutto moderno, è incorso. Non è compito né competenza del Magistero intervenire per colmare le lacune di un discorso filosofico carente. È suo obbligo, invece, reagire in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del dato rivelato e quando si diffondono teorie false e di parte che seminano gravi errori, confondendo la semplicità e la purezza della fede del popolo di Dio.

50. Il Magistero ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana.[55] Al Magistero spetta di indicare, anzitutto, quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò stesso le esigenze che si impongono alla filosofia dal punto di vista della fede. Nello sviluppo del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse scuole di pensiero. Anche questo pluralismo pone il Magistero di fronte alla responsabilità di esprimere il suo giudizio circa la compatibilità o meno delle concezioni di fondo, a cui queste scuole si attengono, con le esigenze proprie della Parola di Dio e della riflessione teologica.

La Chiesa ha il dovere di indicare ciò che in un sistema filosofico può risultare incompatibile con la sua fede. Molti contenuti filosofici, infatti, quali i temi di Dio, dell’uomo, della sua libertà e del suo agire etico, la chiamano in causa direttamente, perché toccano la verità rivelata che essa custodisce. Quando esercitiamo questo discernimento, noi Vescovi abbiamo il compito di essere «testimoni della verità» nell’adempimento di una diaconia umile ma tenace, quale ogni filosofo dovrebbe apprezzare, a vantaggio della recta ratio, ossia della ragione che riflette correttamente sul vero.

51. Questo discernimento, comunque, non deve essere inteso primariamente in forma negativa, come se intenzione del Magistero fosse di eliminare o ridurre ogni possibile mediazione. Al contrario, i suoi interventi sono tesi in primo luogo a provocare, promuovere e incoraggiare il pensiero filosofico. I filosofi per primi, d’altronde, comprendono l’esigenza dell’autocritica, della correzione di eventuali errori e la necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in cui la loro riflessione è concepita. Si deve considerare, in modo particolare, che una è la verità, benché le sue espressioni portino l’impronta della storia e, per di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal peccato. Da ciò risulta che nessuna forma storica della filosofia può legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di essere la spiegazione piena dell’essere umano, del mondo e del rapporto dell’uomo con Dio.

Oggi poi, col moltiplicarsi dei sistemi, dei metodi, dei concetti e argomenti filosofici, spesso estremamente particolareggiati, un discernimento critico alla luce della fede si impone con maggiore urgenza. Discernimento non facile, perché se è già laborioso riconoscere le capacità congenite e inalienabili della ragione, con i suoi limiti costitutivi e storici, ancora più problematico qualche volta può risultare il discernimento, nelle singole proposte filosofiche, di ciò che, dal punto di vista della fede, esse offrono di valido e di fecondo rispetto a ciò che, invece, presentano di erroneo o di pericoloso. La Chiesa, comunque, sa che i «tesori della sapienza e della scienza» sono nascosti in Cristo (Col 2, 3); per questo interviene stimolando la riflessione filosofica, perché non si precluda la strada che conduce al riconoscimento del mistero.

52. Non è solo di recente che il Magistero della Chiesa è intervenuto per manifestare il suo pensiero nei confronti di determinate dottrine filosofiche. A titolo esemplificativo basti ricordare, nel corso dei secoli, i pronunciamenti circa le teorie che sostenevano la preesistenza delle anime,[56] come pure circa le diverse forme di idolatria e di esoterismo superstizioso, contenute in tesi astrologiche;[57] per non dimenticare i testi più sistematici contro alcune tesi dell’averroismo latino, incompatibili con la fede cristiana.[58]

Se la parola del Magistero si è fatta udire più spesso a partire dalla metà del secolo scorso è perché in quel periodo non pochi cattolici sentirono il dovere di opporre una loro filosofia alle varie correnti del pensiero moderno. A questo punto, diventava obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché queste filosofie non deviassero, a loro volta, in forme erronee e negative. Furono così censurati simmetricamente: da una parte, il fideismo[59] e il tradizionalismo radicale,[60] per la loro sfiducia nelle capacità naturali della ragione; dall’altra parte, il razionalismo[61] e l’ontologismo,[62] perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce della fede. I contenuti positivi di questo dibattito furono formalizzati nella Costituzione dogmatica Dei Filius, con la quale per la prima volta un Concilio ecumenico, il Vaticano I, interveniva in maniera solenne sui rapporti tra ragione e fede. L’insegnamento contenuto in quel testo caratterizzò fortemente e in maniera positiva la ricerca filosofica di molti credenti e costituisce ancora oggi un punto di riferimento normativo per una corretta e coerente riflessione cristiana in questo particolare ambito.

53. Più che di singole tesi filosofiche, i pronunciamenti del Magistero si sono occupati della necessità della conoscenza razionale e, dunque, ultimamente filosofica per l’intelligenza della fede. Il Concilio Vaticano I, sintetizzando e riaffermando in modo solenne gli insegnamenti che in maniera ordinaria e costante il Magistero pontificio aveva proposto per i fedeli, mise in evidenza quanto fossero inseparabili e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio e la Rivelazione, la ragione e la fede. Il Concilio partiva dall’esigenza fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità naturale dell’esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa,[63] e concludeva con l’asserzione solenne già citata: «esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto».[64] Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la distinzione dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e la trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi; d’altra parte, contro le tentazioni fideistiche, era necessario che si ribadisse l’unità della verità e, quindi, anche l’apporto positivo che la conoscenza razionale può e deve dare alla conoscenza di fede: «Ma anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito umano il lume della ragione, questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero».[65]

54. Anche nel nostro secolo, il Magistero è ritornato più volte sull’argomento mettendo in guardia contro la tentazione razionalistica. È su questo scenario che si devono collocare gli interventi del Papa san Pio X, il quale rilevava come alla base del modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo fenomenista, agnostico e immanentista.[66] Non si può neppure dimenticare l’importanza che ebbe il rifiuto cattolico della filosofia marxista e del comunismo ateo.[67]

Successivamente, il Papa Pio XII fece sentire la sua voce quando, nella Lettera enciclica Humani generis, mise in guardia contro interpretazioni erronee, collegate con le tesi dell’evoluzionismo, dell’esistenzialismo e dello storicismo. Egli precisava che queste tesi erano state elaborate e venivano proposte non da teologi, avendo la loro origine «fuori dall’ovile di Cristo»;[68] aggiungeva, comunque, che tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare, ma da esaminare criticamente: «Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi o dai teologi cattolici, che hanno il grave compito di difendere la verità divina ed umana e di farla penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po’ di verità, sia, infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche sia teologiche».[69]

Da ultimo, anche la Congregazione per la Dottrina della Fede, in adempimento del suo specifico compito a servizio del magistero universale del Romano Pontefice,[70] ha dovuto intervenire per ribadire il pericolo che comporta l’assunzione acritica, da parte di alcuni teologi della liberazione, di tesi e metodologie derivanti dal marxismo.[71]

Nel passato il Magistero ha dunque esercitato ripetutamente e sotto diverse modalità il discernimento in materia filosofica. Quanto i miei Venerati Predecessori hanno apportato costituisce un prezioso contributo che non può essere dimenticato.

55. Se guardiamo alla nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo ritornano, ma con peculiarità nuove. Non si tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse nell’ambiente al punto da divenire in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di «fine della metafisica»: si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture.

Nella stessa teologia tornano ad affacciarsi le tentazioni di un tempo. In alcune teologie contemporanee, ad esempio, si fa nuovamente strada un certo razionalismo, soprattutto quando asserti ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come normativi per la ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo, per mancanza di competenza filosofica, si lascia condizionare in modo acritico da affermazioni entrate ormai nel linguaggio e nella cultura corrente, ma prive di sufficiente base razionale.[72]

Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un’espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il «biblicismo», che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo. Accade così che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura, vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione Dei Verbum, dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che nella Tradizione,[73] afferma con forza: «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell’insegnamento degli Apostoli».[74] La Sacra Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La «regola suprema della propria fede»,[75] infatti, le proviene dall’unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente.[76]

Non è da sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità della Sacra Scrittura dall’applicazione di una sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre Scritture devono sempre tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche hanno anch’esse alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento prima di applicarla ai testi sacri.

Altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia l’intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di venerata memoria, ha messo in guardia contro tale oblio della tradizione filosofica e contro l’abbandono delle terminologie tradizionali.[77]

56. Si nota, insomma, una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso e non dell’adeguamento dell’intelletto alla realtà oggettiva. È certo comprensibile che, in un mondo suddiviso in molti campi specialistici, diventi difficile riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la filosofia tradizionalmente ha cercato. Nondimeno alla luce della fede che riconosce in Gesù Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l’ansia per la ricerca, unite all’audacia di scoprire nuovi percorsi. È la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione.

L’interesse della Chiesa per la filosofia

57. Il Magistero, comunque, non si è limitato solo a rilevare gli errori e le deviazioni delle dottrine filosofiche. Con altrettanta attenzione ha voluto ribadire i principi fondamentali per un genuino rinnovamento del pensiero filosofico, indicando anche concreti percorsi da seguire. In questo senso, il Papa Leone XIII con la sua Lettera enciclica Æterni Patris compì un passo di autentica portata storica per la vita della Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi, l’unico documento pontificio di quel livello dedicato interamente alla filosofia. Il grande Pontefice riprese e sviluppò l’insegnamento del Concilio Vaticano I sul rapporto tra fede e ragione, mostrando come il pensare filosofico sia un contributo fondamentale per la fede e la scienza teologica.[78] A più di un secolo di distanza, molte indicazioni contenute in quel testo non hanno perduto nulla del loro interesse dal punto di vista sia pratico che pedagogico; primo fra tutti, quello relativo all’incomparabile valore della filosofia di san Tommaso. La riproposizione del pensiero del Dottore Angelico appariva a Papa Leone XIII come la strada migliore per ricuperare un uso della filosofia conforme alle esigenze della fede. San Tommaso, egli scriveva, «nel momento stesso in cui, come conviene, distingue perfettamente la fede dalla ragione, le unisce ambedue con legami di amicizia reciproca: conserva ad ognuna i propri diritti e ne salvaguarda la dignità».[79]

58. Si sa quante felici conseguenze abbia avuto quell’invito pontificio. Gli studi sul pensiero di san Tommaso e di altri autori scolastici ricevettero nuovo slancio. Fu dato vigoroso impulso agli studi storici, con la conseguente riscoperta delle ricchezze del pensiero medievale, fino a quel momento largamente sconosciute, e si costituirono nuove scuole tomistiche. Con l’applicazione della metodologia storica, la conoscenza dell’opera di san Tommaso fece grandi progressi e numerosi furono gli studiosi che con coraggio introdussero la tradizione tomista nelle discussioni sui problemi filosofici e teologici di quel momento. I teologi cattolici più influenti di questo secolo, alla cui riflessione e ricerca molto deve il Concilio Vaticano II, sono figli di tale rinnovamento della filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così disporre, nel corso del XX secolo, di una vigorosa schiera di pensatori formati alla scuola dell’Angelico Dottore.

59. Il rinnovamento tomista e neotomista, comunque, non è stato l’unico segno di ripresa del pensiero filosofico nella cultura di ispirazione cristiana. Già prima, e in parallelo con l’invito leoniano, erano emersi non pochi filosofi cattolici che, ricollegandosi a correnti di pensiero più recenti, secondo una propria metodologia, avevano prodotto opere filosofiche di grande influsso e di valore durevole. Ci fu chi organizzò sintesi di così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai grandi sistemi dell’idealismo; chi, inoltre, pose le basi epistemologiche per una nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata comprensione della coscienza morale; chi, ancora, produsse una filosofia che, partendo dall’analisi dell’immanenza, apriva il cammino verso il trascendente; e chi, infine, tentò di coniugare le esigenze della fede nell’orizzonte della metodologia fenomenologica. Da diverse prospettive, insomma, si è continuato a produrre forme di speculazione filosofica che hanno inteso mantenere viva la grande tradizione del pensiero cristiano nell’unità di fede e ragione.

60. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, per parte sua, presenta un insegnamento molto ricco e fecondo nei confronti della filosofia. Non posso dimenticare, soprattutto nel contesto di questa Lettera enciclica, che un intero capitolo della Costituzione Gaudium et spes costituisce quasi un compendio di antropologia biblica, fonte di ispirazione anche per la filosofia. In quelle pagine si tratta del valore della persona umana creata a immagine di Dio, si motiva la sua dignità e superiorità sul resto del creato e si mostra la capacità trascendente della sua ragione.[80] Anche il problema dell’ateismo viene considerato nella Gaudium et spes e ben si motivano gli errori di quella visione filosofica, soprattutto nei confronti dell’inalienabile dignità della persona e della sua libertà.[81] Certamente possiede anche un profondo significato filosofico l’espressione culminante di quelle pagine, che ho ripreso nella mia prima Lettera enciclica Redemptor hominis e che costituisce uno dei punti di riferimento costante del mio insegnamento: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».[82]

Il Concilio si è occupato anche dello studio della filosofia, a cui devono dedicarsi i candidati al sacerdozio; sono raccomandazioni estensibili più in generale all’insegnamento cristiano nel suo insieme. Afferma il Concilio: «Le discipline filosofiche si insegnino in maniera che gli alunni siano anzitutto guidati all’acquisto di una solida e armonica conoscenza dell’uomo, del mondo e di Dio, basandosi sul patrimonio filosofico perennemente valido, tenuto conto anche delle correnti filosofiche moderne».[83]

Queste direttive sono state a più riprese ribadite e specificate in altri documenti magisteriali con lo scopo di garantire una solida formazione filosofica, soprattutto per coloro che si preparano agli studi teologici. Da parte mia, più volte ho sottolineato l’importanza di questa formazione filosofica per quanti dovranno un giorno, nella vita pastorale, confrontarsi con le istanze del mondo contemporaneo e cogliere le cause di alcuni comportamenti per darvi pronta risposta.[84]

61. Se in diverse circostanze è stato necessario intervenire su questo tema, ribadendo anche il valore delle intuizioni del Dottore Angelico e insistendo per l’acquisizione del suo pensiero, ciò è dipeso dal fatto che le direttive del Magistero non sono state sempre osservate con la desiderabile disponibilità. In molte scuole cattoliche, negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, si è potuto osservare, in materia, un certo decadimento dovuto ad una minore stima, non solo della filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio della filosofia. Con meraviglia e dispiacere devo costatare che non pochi teologi condividono questo disinteresse per lo studio della filosofia.

Diverse sono le ragioni che stanno alla base di questa disaffezione. In primo luogo, è da registrare la sfiducia nella ragione che gran parte della filosofia contemporanea manifesta, abbandonando largamente la ricerca metafisica sulle domande ultime dell’uomo, per concentrare la propria attenzione su problemi particolari e regionali, talvolta anche puramente formali. Si deve aggiungere, inoltre, il fraintendimento che si è creato soprattutto in rapporto alle «scienze umane». Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito il valore positivo della ricerca scientifica in ordine a una conoscenza più profonda del mistero dell’uomo.[85] L’invito fatto ai teologi perché conoscano queste scienze e, all’occorrenza, le applichino correttamente nella loro indagine non deve, tuttavia, essere interpretato come un’implicita autorizzazione ad emarginare la filosofia o a sostituirla nella formazione pastorale e nella præparatio fidei. Non si può dimenticare, infine, il ritrovato interesse per l’inculturazione della fede. In modo particolare la vita delle giovani Chiese ha permesso di scoprire, accanto ad elevate forme di pensiero, la presenza di molteplici espressioni di saggezza popolare. Ciò costituisce un reale patrimonio di cultura e di tradizioni. Lo studio, tuttavia, delle usanze tradizionali deve andare di pari passo con la ricerca filosofica. Sarà questa a permettere di far emergere i tratti positivi della saggezza popolare, creando il necessario collegamento con l’annuncio del Vangelo.[86]

62. Desidero ribadire con vigore che lo studio della filosofia riveste un carattere fondamentale e ineliminabile nella struttura degli studi teologici e nella formazione dei candidati al sacerdozio. Non è un caso che il curriculum di studi teologici sia preceduto da un periodo di tempo nel quale è previsto uno speciale impegno nello studio della filosofia. Questa scelta, confermata dal Concilio Lateranense V,[87] affonda le sue radici nell’esperienza maturata durante il Medio Evo, quando è stata posta in evidenza l’importanza di una costruttiva armonia tra il sapere filosofico e quello teologico. Questo ordinamento degli studi ha influenzato, facilitato e promosso, anche se in maniera indiretta, una buona parte dello sviluppo della filosofia moderna. Un esempio significativo è dato dall’influsso esercitato dalle Disputationes metaphysicæ di Francesco Suárez, le quali trovavano spazio perfino nelle università luterane tedesche. Il venire meno di questa metodologia, invece, fu causa di gravi carenze sia nella formazione sacerdotale che nella ricerca teologica. Si consideri, ad esempio, la disattenzione nei confronti del pensiero e della cultura moderna, che ha portato alla chiusura ad ogni forma di dialogo o alla indiscriminata accoglienza di ogni filosofia.

Confido vivamente che queste difficoltà siano superate da un’intelligente formazione filosofica e teologica, che non deve mai venire meno nella Chiesa.

63. In forza delle ragioni espresse, mi è sembrato urgente ribadire, con questa Lettera enciclica, il forte interesse che la Chiesa dedica alla filosofia; anzi, il legame intimo che unisce il lavoro teologico alla ricerca filosofica della verità. Di qui deriva il dovere che il Magistero ha di discernere e stimolare un pensiero filosofico che non sia in dissonanza con la fede. Mio compito è di proporre alcuni principi e punti di riferimento che ritengo necessari per poter instaurare una relazione armoniosa ed efficace tra la teologia e la filosofia. Alla loro luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se e quale rapporto la teologia debba intraprendere con i diversi sistemi o asserti filosofici, che il mondo attuale presenta.

CAPITOLO VI

INTERAZIONE TRA

TEOLOGIA E FILOSOFIA

La scienza della fede e le esigenze della ragione filosofica

64. La parola di Dio si indirizza a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni parte della terra; e l’uomo è naturalmente filosofo. La teologia, da parte sua, in quanto elaborazione riflessa e scientifica dell’intelligenza di questa parola alla luce della fede, sia per alcuni suoi procedimenti come anche per adempiere a specifici compiti, non può fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie di fatto elaborate nel corso della storia. Senza voler indicare ai teologi particolari metodologie, cosa che non compete al Magistero, desidero piuttosto richiamare alla mente alcuni compiti propri della teologia, nei quali il ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della Parola rivelata.

65. La teologia si organizza come scienza della fede alla luce di un duplice principio metodologico: l’auditus fidei e l’intellectus fidei. Con il primo, essa entra in possesso dei contenuti della Rivelazione così come sono stati esplicitati progressivamente nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della Chiesa.[88] Con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del pensiero mediante la riflessione speculativa.

Per quanto concerne la preparazione ad un corretto auditus fide i, la filosofia reca alla teologia il suo peculiare contributo nel momento in cui considera la struttura della conoscenza e della comunicazione personale e, in particolare, le varie forme e funzioni del linguaggio. Ugualmente importante è l’apporto della filosofia per una più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti del Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della teologia: questi infatti si esprimono spesso in concetti e forme di pensiero mutuati da una determinata tradizione filosofica. In questo caso, è richiesto al teologo non solo di esporre concetti e termini con i quali la Chiesa riflette ed elabora il suo insegnamento, ma anche di conoscere a fondo i sistemi filosofici che hanno eventualmente influito sia sulle nozioni che sulla terminologia, per giungere a interpretazioni corrette e coerenti.

66. Per quanto riguarda l’intellectus fide i, si deve considerare, anzitutto, che la Verità divina, «a noi proposta nelle Sacre Scritture, interpretate rettamente dalla dottrina della Chiesa»,[89] gode di una propria intelligibilità così logicamente coerente da proporsi come un autentico sapere. L’intellectus fidei esplicita questa verità, non solo cogliendo le strutture logiche e concettuali delle proposizioni nelle quali si articola l’insegnamento della Chiesa, ma anche, e primariamente, nel far emergere il significato di salvezza che tali proposizioni contengono per il singolo e per l’umanità. È dall’insieme di queste proposizioni che il credente arriva a conoscere la storia della salvezza, la quale culmina nella persona di Gesù Cristo e nel suo mistero pasquale. A questo mistero egli partecipa con il suo assenso di fede.

La teologia dogmatica, per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del Dio Uno e Trino e dell’economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali, formulate in modo critico e universalmente comunicabile. Senza l’apporto della filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti teologici quali, ad esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali all’interno della Trinità, l’azione creatrice di Dio nel mondo, il rapporto tra Dio e l’uomo, l’identità di Cristo che è vero Dio e vero uomo. Le stesse considerazioni valgono per diversi temi della teologia morale, dove è immediato il ricorso a concetti quali: legge morale, coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una loro definizione a livello di etica filosofica.

È necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e dell’uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell’uomo, del mondo e, più radicalmente, dell’essere, fondata sulla verità oggettiva.

67. La teologia fondamentale, per il suo carattere proprio di disciplina che ha il compito di rendere ragione della fede (cfr. 1 Pt 3, 15), dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare la relazione tra la fede e la riflessione filosofica. Già il Concilio Vaticano I, recuperando l’insegnamento paolino (cfr. Rm 1, 19-20), aveva richiamato l’attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili naturalmente, e quindi filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio. Nello studiare la Rivelazione e la sua credibilità insieme con il corrispondente atto di fede, la teologia fondamentale dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A queste la Rivelazione conferisce pienezza di senso, orientandole verso la ricchezza del mistero rivelato, nel quale trovano il loro ultimo fine. Si pensi, ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di discernere la rivelazione divina da altri fenomeni o al riconoscimento della sua credibilità, all’attitudine del linguaggio umano a parlare in modo significativo e vero anche di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da tutte queste verità, la mente è condotta a riconoscere l’esistenza di una via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare nell’accoglienza della rivelazione, senza in nulla venire meno ai propri principi e alla propria autonomia.[90]

Alla stessa stregua, la teologia fondamentale dovrà mostrare l’intima compatibilità tra la fede e la sua esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione in grado di dare in piena libertà il proprio assenso. La fede saprà così «mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità. In tal modo la fede, dono di Dio, pur non fondandosi sulla ragione, non può certamente fare a meno di essa; al tempo stesso, appare la necessità per la ragione di farsi forte della fede, per scoprire gli orizzonti ai quali da sola non potrebbe giungere».[91]

68. La teologia morale ha forse un bisogno ancor maggiore dell’apporto filosofico. Nella Nuova Alleanza, infatti, la vita umana è molto meno regolamentata da prescrizioni che nell’Antica. La vita nello Spirito conduce i credenti ad una libertà e responsabilità che vanno oltre la Legge stessa. Il Vangelo e gli scritti apostolici, comunque, propongono sia principi generali di condotta cristiana sia insegnamenti e precetti puntuali. Per applicarli alle circostanze particolari della vita individuale e sociale, il cristiano deve essere in grado di impegnare a fondo la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In altre parole, ciò significa che la teologia morale deve ricorrere ad una visione filosofica corretta sia della natura umana e della società che dei principi generali di una decisione etica.

69. Si può forse obiettare che nella situazione attuale il teologo, piuttosto che alla filosofia, dovrebbe ricorrere all’aiuto di altre forme del sapere umano, quali la storia e soprattutto le scienze, di cui tutti ammirano i recenti straordinari sviluppi. Altri poi, a seguito di una cresciuta sensibilità nei confronti della relazione tra fede e culture, sostengono che la teologia dovrebbe rivolgersi, di preferenza, alle saggezze tradizionali, piuttosto che a una filosofia di origine greca ed eurocentrica. Altri ancora, a partire da una concezione errata del pluralismo delle culture, negano semplicemente il valore universale del patrimonio filosofico accolto dalla Chiesa.

Queste sottolineature, tra l’altro già presenti nell’insegnamento conciliare,[92] contengono una parte di verità. Il riferimento alle scienze, utile in molti casi perché permette una conoscenza più completa dell’oggetto di studio, non deve tuttavia far dimenticare la necessaria mediazione di una riflessione tipicamente filosofica, critica e tesa all’universale, richiesta peraltro da uno scambio fecondo tra le culture. Ciò che mi preme sottolineare è il dovere di non fermarsi al solo caso singolo e concreto, tralasciando il compito primario che è quello di manifestare il carattere universale del contenuto di fede. Non si deve, inoltre, dimenticare che l’apporto peculiare del pensiero filosofico permette di discernere, sia nelle diverse concezioni di vita che nelle culture, «non che cosa gli uomini pensino, ma quale sia la verità oggettiva».[93] Non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere di aiuto alla teologia.

70. Il tema, poi, del rapporto con le culture merita una riflessione specifica, anche se necessariamente non esaustiva, per le implicanze che ne derivano sia sul versante filosofico che su quello teologico. Il processo di incontro e confronto con le culture è un’esperienza che la Chiesa ha vissuto fin dagli inizi della predicazione del Vangelo. Il comando di Cristo ai discepoli di andare in ogni luogo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8), per trasmettere la verità da Lui rivelata, ha posto la comunità cristiana nella condizione di verificare ben presto l’universalità dell’annuncio e gli ostacoli derivanti dalla diversità delle culture. Un brano della lettera di san Paolo ai cristiani di Efeso offre un valido aiuto per comprendere come la comunità primitiva abbia affrontato questo problema. Scrive l’Apostolo: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo» (2, 13-14).

Alla luce di questo testo la nostra riflessione s’allarga alla trasformazione che si è venuta a creare nei Gentili una volta arrivati alla fede. Davanti alla ricchezza della salvezza operata da Cristo, cadono le barriere che separano le diverse culture. La promessa di Dio in Cristo diventa, adesso, un’offerta universale: non più limitata alla particolarità di un popolo, della sua lingua e dei suoi costumi, ma estesa a tutti come patrimonio a cui ciascuno può attingere liberamente. Da diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in Cristo a partecipare all’unità della famiglia dei figli di Dio. È Cristo che permette ai due popoli di diventare «uno». Coloro che erano «i lontani» diventano «i vicini» grazie alla novità operata dal mistero pasquale. Gesù abbatte i muri di divisione e realizza l’unificazione in modo originale e supremo mediante la partecipazione al suo mistero. Questa unità è talmente profonda che la Chiesa può dire con san Paolo: «Non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2, 19).

In una così semplice annotazione è descritta una grande verità: l’incontro della fede con le diverse culture ha dato vita di fatto a una realtà nuova. Le culture, quando sono profondamente radicate nell’umano, portano in sé la testimonianza dell’apertura tipica dell’uomo all’universale e alla trascendenza. Esse presentano, pertanto, approcci diversi alla verità, che si rivelano di indubbia utilità per l’uomo, a cui prospettano valori capaci di rendere sempre più umana la sua esistenza.[94] In quanto poi le culture si richiamano ai valori delle tradizioni antiche, portano con sé — anche se in maniera implicita, ma non per questo meno reale — il riferimento al manifestarsi di Dio nella natura, come si è visto precedentemente parlando dei testi sapienziali e dell’insegnamento di san Paolo.

71. Essendo in stretto rapporto con gli uomini e con la loro storia, le culture condividono le stesse dinamiche secondo cui il tempo umano si esprime. Si registrano di conseguenza trasformazioni e progressi dovuti agli incontri che gli uomini sviluppano e alle comunicazioni che reciprocamente si fanno dei loro modelli di vita. Le culture traggono alimento dalla comunicazione di valori, e la loro vitalità e sussistenza è data dalla capacità di rimanere aperte all’accoglienza del nuovo. Qual è la spiegazione di queste dinamiche? Ogni uomo è inserito in una cultura, da essa dipende, su di essa influisce. Egli è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso. In ogni espressione della sua vita, egli porta con sé qualcosa che lo contraddistingue in mezzo al creato: la sua apertura costante al mistero ed il suo inesauribile desiderio di conoscenza. Ogni cultura, di conseguenza, porta impressa in sé e lascia trasparire la tensione verso un compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la possibilità di accogliere la rivelazione divina.

Il modo in cui i cristiani vivono la fede è anch’esso permeato dalla cultura dell’ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche. Ad ogni cultura i cristiani recano la verità immutabile di Dio, da Lui rivelata nella storia e nella cultura di un popolo. Nel corso dei secoli continua così a riprodursi l’evento di cui furono testimoni i pellegrini presenti a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste. Ascoltando gli Apostoli, si domandavano: «Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio» (At 2, 7-11). L’annuncio del Vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli destinatari l’adesione della fede, non impedisce loro di conservare una propria identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna, perché il popolo dei battezzati si distingue per una universalità che sa accogliere ogni cultura, favorendo il progresso di ciò che in essa vi è di implicito verso la sua piena esplicazione nella verità.

Conseguenza di ciò è che una cultura non può mai diventare criterio di giudizio ed ancor meno criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione di Dio. Il Vangelo non è contrario a questa od a quella cultura come se, incontrandosi con essa, volesse privarla di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere forme estrinseche che non le sono conformi. Al contrario, l’annuncio che il credente porta nel mondo e nelle culture è forma reale di liberazione da ogni disordine introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena. In questo incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma sono anzi stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne incentivo verso ulteriori sviluppi.

72. Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree culturali rimaste finora al di fuori dell’ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi compiti si aprono all’inculturazione. Problemi analoghi a quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra generazione.

Il mio pensiero va spontaneamente alle terre d’Oriente, così ricche di tradizioni religiose e filosofiche molto antiche. Tra esse, l’India occupa un posto particolare. Un grande slancio spirituale porta il pensiero indiano alla ricerca di un’esperienza che, liberando lo spirito dai condizionamenti del tempo e dello spazio, abbia valore di assoluto. Nel dinamismo di questa ricerca di liberazione si situano grandi sistemi metafisici.

Spetta ai cristiani di oggi, innanzitutto a quelli dell’India, il compito di estrarre da questo ricco patrimonio gli elementi compatibili con la loro fede così che ne derivi un arricchimento del pensiero cristiano. Per questa opera di discernimento, che trova la sua ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra ætate, essi terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è quello dell’universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal primo, consiste in questo: quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di domani, che si sentirà arricchita dalle acquisizioni realizzate nell’odierno approccio con le culture orientali e troverà in questa eredità nuove indicazioni per entrare fruttuosamente in dialogo con quelle culture che l’umanità saprà far fiorire nel suo cammino incontro al futuro. In terzo luogo, ci si guarderà dal confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell’originalità del pensiero indiano con l’idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni, ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano.

Quanto è qui detto per l’India vale anche per l’eredità delle grandi culture della Cina, del Giappone e degli altri Paesi dell’Asia, come pure delle ricchezze delle culture tradizionali dell’Africa, trasmesse soprattutto per via orale.

73. Alla luce di queste considerazioni, il rapporto che deve opportunamente instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà all’insegna della circolarità. Per la teologia, punto di partenza e fonte originaria dovrà essere sempre la parola di Dio rivelata nella storia, mentre obiettivo finale non potrà che essere l’intelligenza di essa via via approfondita nel susseguirsi delle generazioni. Poiché, d’altra parte, la parola di Dio è Verità (cfr. Gv 17, 17), alla sua migliore comprensione non può non giovare la ricerca umana della verità, ossia il filosofare, sviluppato nel rispetto delle leggi che gli sono proprie. Non si tratta semplicemente di utilizzare, nel discorso teologico, l’uno o l’altro concetto o frammento di un impianto filosofico; decisivo è che la ragione del credente eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca del vero all’interno di un movimento che, partendo dalla parola di Dio, si sforza di raggiungere una migliore comprensione di essa. È chiaro, peraltro, che, muovendosi entro questi due poli — parola di Dio e migliore sua conoscenza —, la ragione è come avvertita, e in qualche modo guidata, ad evitare sentieri che la porterebbero fuori della Verità rivelata e, in definitiva, fuori della verità pura e semplice; essa viene anzi stimolata ad esplorare vie che da sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da questo rapporto di circolarità con la parola di Dio la filosofia esce arricchita, perché la ragione scopre nuovi e insospettati orizzonti.

74. La conferma della fecondità di un simile rapporto è offerta dalla vicenda personale di grandi teologi cristiani che si segnalarono anche come grandi filosofi, lasciando scritti di così alto valore speculativo, da giustificarne l’affiancamento ai maestri della filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri della Chiesa, tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno e sant’Agostino, sia per i Dottori medievali, tra i quali emerge la grande triade di sant’Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino. Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov’ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l’attenzione all’itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti. C’è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell’umanità.

Differenti stati della filosofia

75. Come risulta dalla storia dei rapporti tra fede e filosofia, sopra brevemente accennata, si possono distinguere diversi stati della filosofia rispetto alla fede cristiana. Un primo è quello della filosofia totalmente indipendente dalla Rivelazione evangelica: è lo stato della filosofia quale si è storicamente concretizzata nelle epoche che hanno preceduto la nascita del Redentore e, dopo di essa, nelle regioni non ancora raggiunte dal Vangelo. In questa situazione, la filosofia manifesta la legittima aspirazione ad essere un’impresa autonoma, che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi delle sole forze della ragione. Pur nella consapevolezza dei gravi limiti dovuti alla congenita debolezza dell’umana ragione, questa aspirazione va sostenuta e rafforzata. L’impegno filosofico, infatti, quale ricerca della verità nell’ambito naturale, rimane almeno implicitamente aperto al soprannaturale.

Di più: anche quando è lo stesso discorso teologico ad avvalersi di concetti e argomenti filosofici, l’esigenza di corretta autonomia del pensiero va rispettata. L’argomentazione sviluppata secondo rigorosi criteri razionali, infatti, è garanzia del raggiungimento di risultati universalmente validi. Si verifica anche qui il principio secondo cui la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura: l’assenso di fede, che impegna l’intelletto e la volontà, non distrugge ma perfeziona il libero arbitrio di ogni credente che accoglie in sé il dato rivelato.

Da questa corretta istanza si allontana in modo netto la teoria della cosiddetta filosofia «separata», perseguita da parecchi filosofi moderni. Più che l’affermazione della giusta autonomia del filosofare, essa costituisce la rivendicazione di una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente illegittima: rifiutare gli apporti di verità derivanti dalla rivelazione divina significa infatti precludersi l’accesso a una più profonda conoscenza della verità, a danno della stessa filosofia.

76. Un secondo stato della filosofia è quello che molti designano con l’espressione filosofia cristiana. La denominazione è di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si intende con essa alludere ad una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la fede non è come tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole piuttosto indicare un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in unione vitale con la fede. Non ci si riferisce quindi semplicemente ad una filosofia elaborata da filosofi cristiani, i quali nella loro ricerca non hanno voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana si intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza l’apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana.

Due sono, pertanto, gli aspetti della filosofia cristiana: uno soggettivo, che consiste nella purificazione della ragione da parte della fede. Come virtù teologale, essa libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più vicino a noi, filosofi come Pascal e Kierkegaard l’hanno stigmatizzata. Con l’umiltà, il filosofo acquista anche il coraggio di affrontare alcune questioni che difficilmente potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i dati ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e della sofferenza, all’identità personale di Dio e alla domanda sul senso della vita o, più direttamente, alla domanda metafisica radicale: «Perché vi è qualcosa?».

Vi è poi l’aspetto oggettivo, riguardante i contenuti: la Rivelazione propone chiaramente alcune verità che, pur non essendo naturalmente inaccessibili alla ragione, forse non sarebbero mai state da essa scoperte, se fosse stata abbandonata a sé stessa. In questo orizzonte si situano questioni come il concetto di un Dio personale, libero e creatore, che tanto rilievo ha avuto per lo sviluppo del pensiero filosofico e, in particolare, per la filosofia dell’essere. A quest’ambito appartiene pure la realtà del peccato, così com’essa appare alla luce della fede, la quale aiuta a impostare filosoficamente in modo adeguato il problema del male. Anche la concezione della persona come essere spirituale è una peculiare originalità della fede: l’annuncio cristiano della dignità, dell’uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto. Più vicino a noi, si può menzionare la scoperta dell’importanza che ha anche per la filosofia l’evento storico, centro della Rivelazione cristiana. Non a caso, esso è diventato perno di una filosofia della storia, che si presenta come un nuovo capitolo della ricerca umana della verità.

Tra gli elementi oggettivi della filosofia cristiana rientra anche la necessità di esplorare la razionalità di alcune verità espresse dalla Sacra Scrittura, come la possibilità di una vocazione soprannaturale dell’uomo ed anche lo stesso peccato originale. Sono compiti che provocano la ragione a riconoscere che vi è del vero e del razionale ben oltre gli stretti confini entro i quali essa sarebbe portata a rinchiudersi. Queste tematiche allargano di fatto l’ambito del razionale.

Speculando su questi contenuti, i filosofi non sono diventati teologi, in quanto non hanno cercato di comprendere e di illustrare le verità della fede a partire dalla Rivelazione. Hanno continuato a lavorare sul loro proprio terreno e con la propria metodologia puramente razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi ambiti del vero. Si può dire che, senza questo influsso stimolante della parola di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe. Il dato conserva tutta la sua rilevanza, pur di fronte alla deludente costatazione dell’abbandono dell’ortodossia cristiana da parte di non pochi pensatori di questi ultimi secoli.

77. Un altro stato significativo della filosofia si ha quando è la stessa teologia a chiamare in causa la filosofia. In realtà, la teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno dell’apporto filosofico. Essendo opera della ragione critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo indagare una ragione concettualmente e argomentativamente educata e formata. La teologia, inoltre, ha bisogno della filosofia come interlocutrice per verificare l’intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti. Non a caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte dai Padri della Chiesa e dai teologi medievali a tale funzione esplicativa. Questo fatto storico indica il valore dell’autonomia che la filosofia conserva anche in questo suo terzo stato, ma insieme mostra le trasformazioni necessarie e profonde che essa deve subire.

È proprio nel senso di un apporto indispensabile e nobile che la filosofia fu chiamata fin dall’età patristica ancilla theologiæ. Il titolo non fu applicato per indicare una servile sottomissione o un ruolo puramente funzionale della filosofia nei confronti della teologia. Fu utilizzato piuttosto nel senso in cui Aristotele parlava delle scienze esperienziali quali «ancelle» della «filosofia prima». L’espressione, oggi difficilmente utilizzabile in forza dei principi di autonomia a cui si è fatto cenno, è servita nel corso della storia per indicare la necessità del rapporto tra le due scienze e l’impossibilità di una loro separazione.

Se il teologo si rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far filosofia a sua insaputa e di rinchiudersi in strutture di pensiero poco adatte all’intelligenza della fede. Il filosofo, da parte sua, se escludesse ogni contatto con la teologia, si sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto proprio dei contenuti della fede cristiana, come è avvenuto con alcuni filosofi moderni. In un caso come nell’altro, si profilerebbe il pericolo della distruzione dei principi basilari di autonomia che ogni scienza giustamente vuole garantiti.

Lo stato della filosofia qui considerato, per le implicanze che comporta nell’intelligenza della Rivelazione, si colloca insieme alla teologia più direttamente sotto l’autorità del Magistero e del suo discernimento, come ho precedentemente esposto. Dalle verità di fede, infatti, derivano determinate esigenze che la filosofia deve rispettare nel momento in cui entra in rapporto con la teologia.

78. Alla luce di queste riflessioni, ben si comprende perché il Magistero abbia ripetutamente lodato i meriti del pensiero di san Tommaso e lo abbia posto come guida e modello degli studi teologici. Ciò che interessava non era prendere posizione su questioni propriamente filosofiche, né imporre l’adesione a tesi particolari. L’intento del Magistero era, e continua ad essere, quello di mostrare come san Tommaso sia un autentico modello per quanti ricercano la verità. Nella sua riflessione, infatti, l’esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione.

79. Esplicitando ulteriormente i contenuti del Magistero precedente, intendo in questa ultima parte indicare alcune esigenze che la teologia — anzi, prima ancora la parola di Dio — pone oggi al pensiero filosofico e alle filosofie odierne. Come già ho rilevato, il filosofo deve procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui propri principi; la verità, tuttavia, non può essere che una sola. La Rivelazione, con i suoi contenuti, non potrà mai umiliare la ragione nelle sue scoperte e nella sua legittima autonomia; per parte sua, però, la ragione non dovrà mai perdere la sua capacità d’interrogarsi e di interrogare, nella consapevolezza di non potersi ergere a valore assoluto ed esclusivo. La verità rivelata, offrendo pienezza di luce sull’essere a partire dallo splendore che proviene dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il cammino della riflessione filosofica. La Rivelazione cristiana, insomma, diventa il vero punto di aggancio e di confronto tra il pensare filosofico e quello teologico nel loro reciproco rapportarsi. È auspicabile, quindi, che teologi e filosofi si lascino guidare dall’unica autorità della verità così che venga elaborata una filosofia in consonanza con la parola di Dio. Questa filosofia sarà il terreno d’incontro tra le culture e la fede cristiana, il luogo d’intesa tra credenti e non credenti. Sarà di aiuto perché i credenti si convincano più da vicino che la profondità e genuinità della fede è favorita quando è unita al pensiero e ad esso non rinuncia. Ancora una volta, è la lezione dei Padri che ci guida in questa convinzione: «Lo stesso credere null’altro è che pensare assentendo [...]. Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede [...]. La fede se non è pensata è nulla».[95] Ed ancora: «Se si toglie l’assenso, si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto».[96]

CAPITOLO VII

ESIGENZE E

COMPITI ATTUALI

Le esigenze irrinunciabili della parola di Dio

80. La Sacra Scrittura contiene, in maniera sia esplicita che implicita, una serie di elementi che consentono di raggiungere una visione dell’uomo e del mondo di notevole spessore filosofico. I cristiani hanno preso progressivamente coscienza della ricchezza racchiusa in quelle pagine sacre. Da esse risulta che la realtà di cui facciamo esperienza non è l’assoluto: non è increata, né si è autogenerata. Dio soltanto è l’Assoluto. Dalle pagine della Bibbia emerge inoltre una visione dell’uomo come imago Dei, che contiene precise indicazioni circa il suo essere, la sua libertà e l’immortalità del suo spirito. Non essendo il mondo creato autosufficiente, ogni illusione di autonomia, che ignori la essenziale dipendenza da Dio di ogni creatura — uomo compreso — porta a drammi che distruggono la ricerca razionale dell’armonia e del senso dell’esistenza umana.

Anche il problema del male morale — la forma di male più tragica — è affrontato nella Bibbia, la quale ci dice che esso non è riconducibile ad una qualche deficienza dovuta alla materia, ma è una ferita che proviene dall’esprimersi disordinato della libertà umana. La parola di Dio, infine, prospetta il problema del senso dell’esistenza e rivela la sua risposta indirizzando l’uomo a Gesù Cristo, il Verbo di Dio incarnato, che realizza in pienezza l’esistenza umana. Altri aspetti si potrebbero esplicitare dalla lettura del testo sacro; ciò che emerge, comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di materialismo, di panteismo.

La convinzione fondamentale di questa «filosofia» racchiusa nella Bibbia è che la vita umana e il mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo. Il mistero dell’Incarnazione resterà sempre il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso dell’esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti, l’intima essenza di Dio e dell’uomo: nel mistero del Verbo incarnato, natura divina e natura umana, con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e insieme si manifesta il vincolo unico che le pone in reciproco rapporto senza confusione.[97]

81. È da osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella «crisi del senso». I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all’affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi — cosa anche più drammatica — in questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che sembrano costituire la trama stessa dell’esistenza, non pochi si chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie che si contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di interpretare il mondo e la vita dell’uomo, non fanno che acuire questo dubbio radicale, che facilmente sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse espressioni del nichilismo.

La conseguenza di ciò è che spesso lo spirito umano è occupato da una forma di pensiero ambiguo, che lo porta a rinchiudersi ancora di più in se stesso, entro i limiti della propria immanenza, senza alcun riferimento al trascendente. Una filosofia priva della domanda sul senso dell’esistenza incorrerebbe nel grave pericolo di degradare la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna autentica passione per la ricerca della verità.

Per essere in consonanza con la parola di Dio è necessario, anzitutto, che la filosofia ritrovi la sua dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa non sarà soltanto l’istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell’agire umano, inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi. Questa dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l’immensa crescita del potere tecnico dell’umanità richiede una rinnovata e acuta coscienza dei valori ultimi. Se questi mezzi tecnici dovessero mancare dell’ordinamento ad un fine non meramente utilitaristico, potrebbero presto rivelarsi disumani, ed anzi trasformarsi in potenziali distruttori del genere umano.[98]

La parola di Dio rivela il fine ultimo dell’uomo e dà un senso globale al suo agire nel mondo. È per questo che essa invita la filosofia ad impegnarsi nella ricerca del fondamento naturale di questo senso, che è la religiosità costitutiva di ogni persona. Una filosofia che volesse negare la possibilità di un senso ultimo e globale sarebbe non soltanto inadeguata, ma erronea.

82. Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia che non fosse essa stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi — siano essi funzionali, formali o utili — del reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all’essere stesso dell’oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell’uomo di giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga la verità oggettiva, mediante quella adæquatio rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica.[99] Questa esigenza, propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio Vaticano II: «L’intelligenza, infatti, non si restringe all’ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata».[100]

Una filosofia radicalmente fenomenista o relativista risulterebbe inadeguata a recare questo aiuto nell’approfondimento della ricchezza contenuta nella parola di Dio. La Sacra Scrittura, infatti, presuppone sempre che l’uomo, anche se colpevole di doppiezza e di menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità limpida e semplice. Nei Libri Sacri, e in particolare nel Nuovo Testamento, si trovano testi e affermazioni di portata propriamente ontologica. Gli autori ispirati, infatti, hanno inteso formulare affermazioni vere, tali cioè da esprimere la realtà oggettiva. Non si può dire che la tradizione cattolica abbia commesso un errore quando ha compreso alcuni testi di san Giovanni e di san Paolo come affermazioni sull’essere stesso di Cristo. La teologia, quando si applica a comprendere e spiegare queste affermazioni, ha bisogno pertanto dell’apporto di una filosofia che non rinneghi la possibilità di una conoscenza oggettivamente vera, per quanto sempre perfezionabile. Quanto detto vale anche per i giudizi della coscienza morale, che la Sacra Scrittura suppone poter essere oggettivamente veri.[101]

83. Le due suddette esigenze ne comportano una terza: è necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. È un’esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è un’esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare corrente storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l’empirico, e voglio rivendicare la capacità che l’uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in alternativa all’antropologia, giacché è proprio la metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità della persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato per l’incontro con l’essere e, dunque, con la riflessione metafisica.

Ovunque l’uomo scopre la presenza di un richiamo all’assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell’essere stesso, in Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione.

La parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l’esperienza e persino il pensiero dell’uomo; ma questo «mistero» non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in qualche modo intelligibile,[102] se la conoscenza umana fosse rigorosamente limitata al mondo dell’esperienza sensibile. La metafisica, pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una teologia priva dell’orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l’analisi dell’esperienza religiosa e non permetterebbe all’intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della verità rivelata.

Se tanto insisto sulla componente metafisica, è perché sono convinto che questa è la strada obbligata per superare la situazione di crisi che pervade oggi grandi settori della filosofia e per correggere così alcuni comportamenti erronei diffusi nella nostra società.

84. L’importanza dell’istanza metafisica diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui questi studi giungono possono essere molto utili per l’intelligenza della fede, in quanto rendono manifesti la struttura del nostro pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione di scoprirne l’essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una conferma della crisi di fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa le capacità della ragione? Quando poi, in forza di assunti aprioristici, queste tesi tendono ad offuscare i contenuti della fede o a negarne la validità universale, allora non solo umiliano la ragione, ma si pongono da se stesse fuori gioco. La fede, infatti, presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di esprimere in modo universale — anche se in termini analogici, ma non per questo meno significativi — la realtà divina e trascendente.[103] Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio. L’interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un’affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l’espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi.

85. So bene che queste esigenze, poste alla filosofia dalla parola di Dio, possono sembrare ardue a molti che vivono l’odierna situazione della ricerca filosofica. Proprio per questo, facendo mio ciò che i Sommi Pontefici da qualche generazione non cessano di insegnare e che lo stesso Concilio Vaticano II ha ribadito, voglio esprimere con forza la convinzione che l’uomo è capace di giungere a una visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano dovrà farsi carico nel corso del prossimo millennio dell’era cristiana. La settorialità del sapere, in quanto comporta un approccio parziale alla verità con la conseguente frammentazione del senso, impedisce l’unità interiore dell’uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non preoccuparsene? Questo compito sapienziale deriva ai suoi Pastori direttamente dal Vangelo ed essi non possono sottrarsi al dovere di perseguirlo.

Ritengo che quanti oggi intendono rispondere come filosofi alle esigenze che la parola di Dio pone al pensiero umano dovrebbero elaborare il loro discorso sulla base di questi postulati e in coerente continuità con quella grande tradizione che, iniziando con gli antichi, passa per i Padri della Chiesa e i maestri della scolastica, per giungere fino a comprendere le acquisizioni fondamentali del pensiero moderno e contemporaneo. Se saprà attingere a questa tradizione ed ispirarsi ad essa, il filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all’esigenza di autonomia del pensare filosofico.

In questo senso, è quanto mai significativo che, nel contesto attuale, alcuni filosofi si facciano promotori della riscoperta del ruolo determinante della tradizione per una corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione, infatti, non è un mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un patrimonio culturale che appartiene a tutta l’umanità. Si potrebbe, anzi, dire che siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo e progettuale per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche maggiormente per la teologia. Non solo perché essa possiede la Tradizione viva della Chiesa come fonte originaria,[104] ma anche perché, in forza di questo, deve essere capace di recuperare sia la profonda tradizione teologica che ha segnato le epoche precedenti, sia la tradizione perenne di quella filosofia che ha saputo superare per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo.

86. L’insistenza sulla necessità di uno stretto rapporto di continuità della riflessione filosofica contemporanea con quella elaborata nella tradizione cristiana intende prevenire il pericolo che si nasconde in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente diffuse. Anche se brevemente, ritengo opportuno soffermarmi su di esse per rilevarne gli errori ed i conseguenti rischi per l’attività filosofica.

La prima è quella che va sotto il nome di eclettismo, termine col quale si designa l’atteggiamento di chi, nella ricerca, nell’insegnamento e nell’argomentazione, anche teologica, è solito assumere singole idee derivate da differenti filosofie, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica né al loro inserimento storico. In questo modo, egli si pone in condizione di non poter discernere la parte di verità di un pensiero da quello che vi può essere di erroneo o di inadeguato. Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile anche nell’abuso retorico dei termini filosofici a cui a volte qualche teologo s’abbandona. Una simile strumentalizzazione non serve alla ricerca della verità e non educa la ragione — sia teologica che filosofica — ad argomentare in maniera seria e scientifica. Lo studio rigoroso e approfondito delle dottrine filosofiche, del linguaggio loro peculiare e del contesto in cui sono sorte aiuta a superare i rischi dell’eclettismo e permette una loro adeguata integrazione nell’argomentazione teologica.

87. L’eclettismo è un errore di metodo, ma potrebbe anche nascondere in sé le tesi proprie dello storicismo. Per comprendere in maniera corretta una dottrina del passato, è necessario che questa sia inserita nel suo contesto storico e culturale. La tesi fondamentale dello storicismo, invece, consiste nello stabilire la verità di una filosofia sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad un determinato compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in un’epoca, sostiene lo storicista, può non esserlo più in un’altra. La storia del pensiero, insomma, diventa per lui poco più di un reperto archeologico a cui attingere per evidenziare posizioni del passato ormai in gran parte superate e prive di significato per il presente. Si deve considerare, al contrario, che anche se la formulazione è in certo modo legata al tempo e alla cultura, la verità o l’errore in esse espressi si possono in ogni caso, nonostante la distanza spazio-temporale, riconoscere e come tali valutare.

Nella riflessione teologica, lo storicismo tende a presentarsi per lo più sotto una forma di «modernismo». Con la giusta preoccupazione di rendere il discorso teologico attuale e assimilabile per il contemporaneo, ci si avvale soltanto degli asserti e del gergo filosofico più recenti, trascurando le istanze critiche che, alla luce della tradizione, si dovrebbero eventualmente sollevare. Questa forma di modernismo, per il fatto di scambiare l’attualità per la verità, si rivela incapace di soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è chiamata a dare risposta.

88. Un altro pericolo da considerare è lo scientismo. Questa concezione filosofica si rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel passato, la stessa idea si esprimeva nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di senso le affermazioni di carattere metafisico. La critica epistemologica ha screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce sotto le nuove vesti dello scientismo. In questa prospettiva, i valori sono relegati a semplici prodotti dell’emotività e la nozione di essere è accantonata per fare spazio alla pura e semplice fattualità. La scienza, quindi, si prepara a dominare tutti gli aspetti dell’esistenza umana attraverso il progresso tecnologico. Gli innegabili successi della ricerca scientifica e della tecnologia contemporanea hanno contribuito a diffondere la mentalità scientista, che sembra non avere più confini, visto come è penetrata nelle diverse culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato.

Si deve costatare, purtroppo, che quanto attiene alla domanda circa il senso della vita viene dallo scientismo considerato come appartenente al dominio dell’irrazionale o dell’immaginario. Non meno deludente è l’approccio di questa corrente di pensiero agli altri grandi problemi della filosofia, che, quando non vengono ignorati, sono affrontati con analisi poggianti su analogie superficiali, prive di fondamento razionale. Ciò porta all’impoverimento della riflessione umana, alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che l’animal rationale, fin dagli inizi della sua esistenza sulla terra, costantemente si è posto. Accantonata, in questa prospettiva, la critica proveniente dalla valutazione etica, la mentalità scientista è riuscita a fare accettare da molti l’idea secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile diventa per ciò stesso anche moralmente ammissibile.

89. Foriero di non minori pericoli è il pragmatismo, atteggiamento mentale che è proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi etici. Notevoli sono le conseguenze pratiche derivanti da questa linea di pensiero. In particolare, vi si è venuta affermando una concezione della democrazia che non contempla il riferimento a fondamenti di ordine assiologico e perciò immutabili: la ammissibilità o meno di un determinato comportamento si decide sulla base del voto della maggioranza parlamentare.[105] E chiara la conseguenza di una simile impostazione: le grandi decisioni morali dell’uomo vengono di fatto subordinate alle deliberazioni via via assunte dagli organi istituzionali. Di più: è la stessa antropologia ad essere fortemente condizionata, mediante la proposta di una visione unidimensionale dell’essere umano, dalla quale esulano i grandi dilemmi etici, le analisi esistenziali sul senso della sofferenza e del sacrificio, della vita e della morte.

90. Le tesi fin qui esaminate conducono, a loro volta, a una più generale concezione, che sembra oggi costituire l’orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell’essere. Intendo riferirmi alla lettura nichilista, che è insieme il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva. Il nichilismo, prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i contenuti propri della parola di Dio, è negazione dell’umanità dell’uomo e della sua stessa identità. Non si può dimenticare, infatti, che l’oblio dell’essere comporta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e, conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell’uomo. Si fa così spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell’uomo i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine. Una volta che si è tolta la verità all’uomo, è pura illusione pretendere di renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono.[106]

91. Nel commentare le linee di pensiero appena ricordate non è stata mia intenzione presentare un quadro completo della situazione attuale della filosofia: essa, del resto, sarebbe difficilmente riconducibile ad una visione unitaria. Mi preme sottolineare che l’eredità del sapere e della sapienza si è, di fatto, arricchita in diversi campi. Basti citare la logica, la filosofia del linguaggio, l’epistemologia, la filosofia della natura, l’antropologia, l’analisi approfondita delle vie affettive della conoscenza, l’approccio esistenziale all’analisi della libertà. D’altro canto, l’affermazione del principio d’immanenza, che sta al centro della pretesa razionalista, ha suscitato, a partire dal secolo scorso, reazioni che hanno portato ad una radicale rimessa in questione di postulati ritenuti indiscutibili. Sono nate così correnti irrazionaliste, mentre la critica metteva in evidenza l’inanità dell’esigenza di autofondazione assoluta della ragione.

La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l’epoca della «post-modernità». Questo termine, utilizzato non di rado in contesti tra loro molto distanti, designa l’emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto ad estensione ed efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli. Così il termine è stato dapprima impiegato a proposito di fenomeni d’ordine estetico, sociale, tecnologico. Successivamente è stato trasferito in ambito filosofico, restando però segnato da una certa ambiguità, sia perché il giudizio su ciò che è qualificato come «post-moderno» è a volte positivo ed a volte negativo, sia perché non vi è consenso sul delicato problema della delimitazione delle varie epoche storiche. Una cosa tuttavia è fuori dubbio: le correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità meritano un’adeguata attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato, l’uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all’insegna del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie distinzioni, contestano anche le certezze della fede.

Questo nichilismo trova in qualche modo una conferma nella terribile esperienza del male che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa esperienza, l’ottimismo razionalista che vedeva nella storia l’avanzata vittoriosa della ragione, fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al punto che una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della disperazione.

Resta tuttavia vero che una certa mentalità positivista continua ad accreditare l’illusione che, grazie alle conquiste scientifiche e tecniche, l’uomo, quale demiurgo, possa giungere da solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo destino.

Compiti attuali per la teologia

92. In quanto intelligenza della Rivelazione, la teologia nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie culture per poi mediare in esse, con una concettualizzazione coerente, il contenuto della fede. Anche oggi un duplice compito le spetta. Da una parte, infatti, essa deve sviluppare l’impegno che il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha affidato: rinnovare le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace all’evangelizzazione. Come non pensare, in questa prospettiva, alle parole pronunciate dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio? Egli disse allora: «È necessario che, aderendo alla viva attesa di quanti amano sinceramente la religione cristiana, cattolica, apostolica, questa dottrina sia più largamente e più profondamente conosciuta, e che gli spiriti ne siano più pienamente istruiti e formati; è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo».[107]

Dall’altra parte, la teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. È bene per il teologo ricordare che il suo lavoro corrisponde «al dinamismo insito nella fede stessa» e che oggetto proprio della sua ricerca è «la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo».[108] Questo compito, che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello stesso tempo la filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti, richiede un lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti, perché la verità sia di nuovo conosciuta ed espressa. La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr. Ef 4, 15) sia la teologia che la filosofia.

Credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone. Solamente a questa condizione è possibile superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce.[109] Come l’esigenza di unità si configuri concretamente oggi, in vista dei compiti attuali della teologia, è quanto desidero ora indicare.

93. Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste nel presentare l’intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l’intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l’amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In questa prospettiva si impone come esigenza di fondo ed urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si propongono oggi alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente soluzione non potrà essere trovata prescindendo dall’apporto della filosofia.

94. Un primo aspetto problematico riguarda il rapporto tra il significato e la verità. Come ogni altro testo, così anche le fonti che il teologo interpreta trasmettono innanzitutto un significato, che va rilevato ed esposto. Ora, questo significato si presenta come la verità su Dio, che da Dio stesso viene comunicata mediante il testo sacro. Nel linguaggio umano, quindi, prende corpo il linguaggio di Dio, che comunica la propria verità con la mirabile «condiscendenza» che rispecchia la logica dell’Incarnazione.[110] Nell’interpretare le fonti della Rivelazione, pertanto, è necessario che il teologo si domandi quale sia la verità profonda e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei limiti del linguaggio.

Quanto ai testi biblici, e in particolare ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla narrazione di semplici avvenimenti storici o alla rilevazione di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo storicista.[111] Questi testi, al contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel loro significato nella e per la storia della salvezza. Questa verità trova piena esplicitazione nella lettura perenne che la Chiesa compie di tali testi nel corso dei secoli, mantenendone immutato il significato originario. È urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si interroghi sul rapporto che intercorre tra il fatto e il suo significato; rapporto che costituisce il senso specifico della storia.

95. La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l’assolutezza e l’universalità della verità con l’inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili. L’applicazione di un’ermeneutica aperta all’istanza metafisica, invece, è in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti.

Con il suo linguaggio storico e circoscritto l’uomo può esprimere verità che trascendono l’evento linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa.

96. Questa considerazione permette di intravedere la soluzione di un altro problema: quello della perenne validità del linguaggio concettuale usato nelle definizioni conciliari. Già il mio venerato Predecessore Pio XII nella sua Lettera enciclica Humani generis affrontava la questione.[112]

Riflettere su questo argomento non è facile, perché si deve tenere seriamente conto del senso che le parole acquistano nelle diverse culture e in epoche differenti. La storia del pensiero, comunque, mostra che attraverso l’evoluzione e la varietà delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono.[113] Se così non fosse, la filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle in cui sono state pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è risolvibile. Il valore realistico di molti concetti, d’altronde, non esclude che spesso il loro significato sia imperfetto. La speculazione filosofica molto potrebbe aiutare in questo campo. È auspicabile, pertanto, un suo particolare impegno nell’approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità, e nella proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione.

97. Se compito importante della teologia è l’interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e anche più delicato ed esigente è la comprensione della verità rivelata, o l’elaborazione dell’intellectus fidei. Come già ho accennato, l’intellectus fidei richiede l’apporto di una filosofia dell’essere, che consenta innanzitutto alla teologia dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo secolo, secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato rifiutato e rigettato;[114] ciò nonostante, rimane sempre la tentazione di comprendere queste verità in maniera puramente funzionale. In questo caso, si cadrebbe in uno schema inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell’incisività speculativa necessaria. Una cristologia, ad esempio, che procedesse unilateralmente «dal basso», come oggi si suole dire, o una ecclesiologia, elaborata unicamente sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero evitare il pericolo di tale riduzionismo.

Se l’intellectus fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia dell’essere. Questa dovrà essere in grado di riproporre il problema dell’essere secondo le esigenze e gli apporti di tutta la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in sterili ripetizioni di schemi antiquati. La filosofia dell’essere, nel quadro della tradizione metafisica cristiana, è una filosofia dinamica che vede la realtà nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative. Essa trova la sua forza e perennità nel fatto di fondarsi sull’atto stesso dell’essere, che permette l’apertura piena e globale verso tutta la realtà, oltrepassando ogni limite fino a raggiungere Colui che a tutto dona compimento.[115] Nella teologia, che riceve i suoi principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di conoscenza, questa prospettiva trova conferma secondo l’intimo rapporto tra fede e razionalità metafisica.

98. Considerazioni analoghe si possono fare anche in riferimento alla teologia morale. Il recupero della filosofia è urgente anche nell’ordine della comprensione della fede che riguarda l’agire dei credenti. Di fronte alle sfide contemporanee nel campo sociale, economico, politico e scientifico la coscienza etica dell’uomo è disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor ho rilevato che molti problemi presenti nel mondo contemporaneo derivano da una «crisi intorno alla verità. Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell’intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell’individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt’uno con un’etica individualistica, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri».[116]

Nell’intera Enciclica ho sottolineato chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla verità nel campo della morale. Questa verità, riguardo alla maggior parte dei problemi etici più urgenti, richiede, da parte della teologia morale, un’attenta riflessione che sappia mettere in evidenza le sue radici nella parola di Dio. Per poter adempiere a questa sua missione, la teologia morale deve far ricorso a un’etica filosofica rivolta alla verità del bene; a un’etica, dunque, né soggettivista né utilitarista. L’etica richiesta implica e presuppone un’antropologia filosofica e una metafisica del bene. Avvalendosi di questa visione unitaria, che è necessariamente collegata alla santità cristiana e all’esercizio delle virtù umane e soprannaturali, la teologia morale sarà capace di affrontare i vari problemi di sua competenza — quali la pace, la giustizia sociale, la famiglia, la difesa della vita e dell’ambiente naturale — in maniera più adeguata ed efficace.

99. Il lavoro teologico nella Chiesa è in primo luogo al servizio dell’annuncio della fede e della catechesi.[117] L’annuncio o il kerigma chiama alla conversione, proponendo la verità di Cristo che culmina nel suo Mistero pasquale: solo in Cristo, infatti, è possibile conoscere la pienezza della verità che salva (cfr. At 4, 12; 1 Tm 2, 4-6).

In questo contesto, si capisce bene perché, oltre alla teologia, assuma notevole rilievo anche il riferimento alla catechesi: questa possiede, infatti, delle implicazioni filosofiche che vanno approfondite alla luce della fede. L’insegnamento impartito nella catechesi ha un effetto formativo per la persona. La catechesi, che è anche comunicazione linguistica, deve presentare la dottrina della Chiesa nella sua integrità,[118] mostrandone l’aggancio con la vita dei credenti.[119] Si realizza così una singolare unione tra insegnamento e vita che è impossibile raggiungere altrimenti. Ciò che si comunica nella catechesi, infatti, non è un corpo di verità concettuali, ma il mistero del Dio vivente.[120]

La riflessione filosofica molto può contribuire nel chiarificare il rapporto tra verità e vita, tra evento e verità dottrinale e, soprattutto, la relazione tra verità trascendente e linguaggio umanamente intelligibile.[121] La reciprocità che si crea tra le discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle differenti correnti filosofiche può esprimere, dunque, una reale fecondità in vista della comunicazione della fede e di una sua più profonda comprensione.

CONCLUSIONE

100. A più di cento anni dalla pubblicazione dell’Enciclica Æterni Patris di Leone XIII, a cui mi sono più volte richiamato in queste pagine, mi è sembrato doveroso riprendere di nuovo e in maniera più sistematica il discorso sul tema del rapporto tra la fede e la filosofia. L’importanza che il pensiero filosofico riveste nello sviluppo delle culture e nell’orientamento dei comportamenti personali e sociali è evidente. Esso esercita una forte influenza, non sempre percepita in maniera esplicita, anche sulla teologia e le sue diverse discipline. Per questi motivi, ho ritenuto giusto e necessario sottolineare il valore che la filosofia possiede nei confronti dell’intelligenza della fede e i limiti a cui essa va incontro quando dimentica o rifiuta le verità della Rivelazione. La Chiesa, infatti, permane nella più profonda convinzione che fede e ragione «si recano un aiuto scambievole»,[122] esercitando l’una per l’altra una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a progredire nella ricerca e nell’approfondimento.

101. Se il nostro sguardo si volge alla storia del pensiero, soprattutto nell’Occidente, è facile vedere la ricchezza che è scaturita per il progresso dell’umanità dall’incontro tra filosofia e teologia e dallo scambio delle loro rispettive conquiste. La teologia, che ha ricevuto in dono un’apertura e una originalità che le permettono di esistere come scienza della fede, ha certamente provocato la ragione a rimanere aperta davanti alla novità radicale che la rivelazione di Dio porta con sé. E questo è stato un indubbio vantaggio per la filosofia, che ha visto così schiudersi nuovi orizzonti su ulteriori significati che la ragione è chiamata ad approfondire.

È proprio alla luce di questa costatazione che, come ho ribadito il dovere della teologia di recuperare il suo genuino rapporto con la filosofia, così mi sento in dovere di sottolineare l’opportunità che anche la filosofia, per il bene e il progresso del pensiero, recuperi la sua relazione con la teologia. Troverà in essa non la riflessione del singolo individuo che, anche se profonda e ricca, porta pur sempre con sé i limiti prospettici propri del pensiero di uno solo, ma la ricchezza di una riflessione comune. La teologia, infatti, nell’indagine sulla verità è sostenuta, per sua stessa natura, dalla nota dell’ecclesialità[123] e dalla tradizione del Popolo di Dio con la sua multiformità di saperi e culture nell’unità della fede.

102. Insistendo in tal modo sull’importanza e sulle vere dimensioni del pensiero filosofico, la Chiesa promuove insieme sia la difesa della dignità dell’uomo sia l’annuncio del messaggio evangelico. Per tali compiti non vi è oggi, infatti, preparazione più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro capacità di conoscere il vero[124] e del loro anelito verso un senso ultimo e definitivo dell’esistenza. Nella prospettiva di queste esigenze profonde, iscritte da Dio nella natura umana, appare anche più chiaro il significato umano e umanizzante della parola di Dio. Grazie alla mediazione di una filosofia divenuta anche vera saggezza, l’uomo contemporaneo giungerà così a riconoscere che egli sarà tanto più uomo quanto più, affidandosi al Vangelo, aprirà se stesso a Cristo.

103. La filosofia, inoltre, è come lo specchio in cui si riflette la cultura dei popoli. Una filosofia, che, sotto la provocazione delle esigenze teologiche, si sviluppa in consonanza con la fede, fa parte di quella «evangelizzazione della cultura» che Paolo VI ha proposto come uno degli scopi fondamentali dell’evangelizzazione.[125] Mentre non mi stanco di richiamare l’urgenza di una nuova evangelizzazione, mi appello ai filosofi perché sappiano approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con sé: esse investono in modo particolare le regioni e le culture di antica tradizione cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un apporto fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione.

104. Il pensiero filosofico è spesso l’unico terreno d’intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede. Il movimento filosofico contemporaneo esige l’impegno attento e competente di filosofi credenti capaci di recepire le aspettative, le aperture e le problematiche di questo momento storico. Argomentando alla luce della ragione e secondo le sue regole, il filosofo cristiano, pur sempre guidato dall’intelligenza ulteriore che gli dà la parola di Dio, può sviluppare una riflessione che sarà comprensibile e sensata anche per chi non afferra ancora la verità piena che la Rivelazione divina manifesta. Tale terreno d’intesa e di dialogo è oggi tanto più importante in quanto i problemi che si pongono con più urgenza all’umanità — si pensi al problema ecologico, al problema della pace o della convivenza delle razze e delle culture — trovano una possibile soluzione alla luce di una chiara e onesta collaborazione dei cristiani con i fedeli di altre religioni e con quanti, pur non condividendo una credenza religiosa, hanno a cuore il rinnovamento dell’umanità. Lo ha affermato il Concilio Vaticano II: «Per quanto ci riguarda, il desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora la Sorgente, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere».[126] Una filosofia, nella quale risplenda anche qualcosa della verità di Cristo, unica risposta definitiva ai problemi dell’uomo,[127] sarà un sostegno efficace per quell’etica vera e insieme planetaria di cui oggi l’umanità ha bisogno.

105. Mi preme concludere questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero anzitutto ai teologi, affinché prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di Dio e compiano una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo e pratico della scienza teologica. Desidero ringraziarli per il loro servizio ecclesiale. Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana nell’approfondimento della verità rivelata. Per questo, li esorto a recuperare ed evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o invece in contrapposizione con la parola di Dio. Tengano sempre presente l’indicazione di un grande maestro del pensiero e della spiritualità, san Bonaventura, il quale introducendo il lettore al suo Itinerarium mentis in Deum lo invitava a rendersi conto che «non è sufficiente la lettura senza la compunzione, la conoscenza senza la devozione, la ricerca senza lo slancio della meraviglia, la prudenza senza la capacità di abbandonarsi alla gioia, l’attività disgiunta dalla religiosità, il sapere separato dalla carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio non sorretto dalla grazia divina, la riflessione senza la sapienza ispirata da Dio».[128]

Il mio pensiero è rivolto pure a quanti hanno la responsabilità della formazione sacerdotale, sia accademica che pastorale, perché curino con particolare attenzione la preparazione filosofica di chi dovrà annunciare il Vangelo all’uomo di oggi e, più ancora, di chi dovrà dedicarsi alla ricerca e all’insegnamento della teologia. Si sforzino di condurre il loro lavoro alla luce delle prescrizioni del Concilio Vaticano II[129] e delle disposizioni successive, dalle quali emerge l’inderogabile e urgente compito, a cui tutti siamo chiamati, di contribuire a una genuina e profonda comunicazione delle verità di fede. Non si dimentichi la grave responsabilità di una previa e adeguata preparazione del corpo docente destinato all’insegnamento della filosofia sia nei Seminari che nelle Facoltà ecclesiastiche.[130] È necessario che questa docenza comporti la conveniente preparazione scientifica, si presenti in maniera sistematica proponendo il grande patrimonio della tradizione cristiana e si compia con il dovuto discernimento dinanzi alle esigenze attuali della Chiesa e del mondo.

106. Il mio appello, inoltre, va ai filosofi e a quanti insegnano la filosofia, perché abbiano il coraggio di ricuperare, sulla scia di una tradizione filosofica perennemente valida, le dimensioni di autentica saggezza e di verità, anche metafisica, del pensiero filosofico. Si lascino interpellare dalle esigenze che scaturiscono dalla parola di Dio ed abbiano la forza di condurre il loro discorso razionale ed argomentativo in risposta a tale interpellanza. Siano sempre protesi verso la verità e attenti al bene che il vero contiene. Potranno in questo modo formulare quell’etica genuina di cui l’umanità ha urgente bisogno, particolarmente in questi anni. La Chiesa segue con attenzione e simpatia le loro ricerche; siano pertanto sicuri del rispetto che essa conserva per la giusta autonomia della loro scienza. Vorrei incoraggiare, in particolare, i credenti che operano nel campo della filosofia, perché illuminino i diversi ambiti dell’attività umana con l’esercizio di una ragione che si fa più sicura e acuta per il sostegno che riceve dalla fede.

Non posso non rivolgere, infine, una parola anche agli scienziati, che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell’universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci. Nell’esprimere la mia ammirazione ed il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l’umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell’orizzonte sapienziale, in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s’affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che «la ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell’uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell’immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l’accesso al Mistero».[131]

107. A tutti chiedo di guardare in profondità all’uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell’uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all’ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé.

108. Il mio ultimo pensiero è rivolto a Colei che la preghiera della Chiesa invoca come Sede della Sapienza. La sua stessa vita è una vera parabola capace di irradiare luce sulla riflessione che ho svolto. Si può intravedere, infatti, una profonda consonanza tra la vocazione della Beata Vergine e quella della genuina filosofia. Come la Vergine fu chiamata ad offrire tutta la sua umanità e femminilità affinché il Verbo di Dio potesse prendere carne e farsi uno di noi, così la filosofia è chiamata a prestare la sua opera, razionale e critica, affinché la teologia come comprensione della fede sia feconda ed efficace. E come Maria, nell’assenso dato all’annuncio di Gabriele, nulla perse della sua vera umanità e libertà, così il pensiero filosofico, nell’accogliere l’interpellanza che gli viene dalla verità del Vangelo, nulla perde della sua autonomia, ma vede sospinta ogni sua ricerca alla più alta realizzazione. Questa verità l’avevano ben compresa i santi monaci dell’antichità cristiana, quando chiamavano Maria «la mensa intellettuale della fede».[132] In lei vedevano l’immagine coerente della vera filosofia ed erano convinti di dover philosophari in Maria.

Possa, la Sede della Sapienza, essere il porto sicuro per quanti fanno della loro vita la ricerca della saggezza. Il cammino verso la sapienza, ultimo e autentico fine di ogni vero sapere, possa essere liberato da ogni ostacolo per l’intercessione di Colei che, generando la Verità e conservandola nel suo cuore, l’ha partecipata all’umanità intera per sempre.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, dell’anno 1998, ventesimo del mio Pontificato.

[1] Già lo scrivevo nella mia prima lettera enciclica Redemptor hominis: «Siamo diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta e, in forza della stessa missione, insieme con lui serviamo la verità divina nella Chiesa. La responsabilità per tale verità significa anche amarla e cercarne la più esatta comprensione, in modo da renderla più vicina a noi stessi e agli altri in tutta la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella sua profondità e insieme semplicità». N. 19: AAS 71 [1979], 306.

[2] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 7-XII-1965, 16.

[3] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 21-XI-1964, 25.

[4] N. 4: AAS 85 (1993), 1136.

[5] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 18-XI-1965, 2.

[6] Cfr. CONCILIO VATICANO I, Cost. dogm. Dei Filius, 24-IV-1870, III: DS 3008.

[7] Ibid., IV: DS 3015; citato anche in CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 59.

[8] Cost. dogm. Dei Verbum, 2.

[9] Lett. ap. Tertio millennio adveniente, 10-XI-1994, 10: AAS 87 (1995), 11.

[10] N. 4.

[11] N. 8.

[12] N. 22.

[13] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 4.

[14] Ibid., 5.

[15] Il Concilio Vaticano I, a cui fa riferimento la sentenza sopra richiamata, insegna che l’obbedienza della fede esige l’impegno dell’intelletto e della volontà: «Poiché l’uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e signore e la ragione creata è sottomessa completamente alla verità increata, noi siamo tenuti, quando Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà» (Cost. dogm. Dei Filius, III; DS 3008).

[16] Sequenza nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.

[17] Pensées, 789 (ed. L. Brunschvicg).

[18] CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 22.

[19] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 2.

[20] Prœmio e nn. 1. 15: PL 158, 223-224.226; 235.

[21] De vera religione, XXXIX, 72: CCL 32, 234.

[22] «Ut te semper desiderando quærerent et inveniendo quiescerent»: Missale Romanum.

[23] ARISTOTELE, Metafisica, I, 1.

[24] Confessiones, X, 23, 33: CCL 27, 173.

[25] N. 34: AAS 85 (1993), 1161.

[26] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. ap. Salvifici doloris, 11-II-1984, 9: AAS 76 (1984), 209-210.

[27] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Dich. Nostra ætate, 2.

[28] È questa un’argomentazione che perseguo da molto tempo e che ho espresso in diverse occasioni. «Che è l’uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? (Sir 18, 7) [...]. Queste domande sono nel cuore di ogni uomo, come ben dimostra il genio poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che, quasi profezia dell’umanità, ripropone continuamente la domanda seria che rende l’uomo veramente tale. Esse esprimono l’urgenza di trovare un perché all’esistenza, ad ogni suo istante, alle sue tappe salienti e decisive così come ai suoi momenti più comuni. In tali questioni è testimoniata la ragionevolezza profonda dell’esistere umano, poiché l’intelligenza e la volontà dell’uomo vi sono sollecitate a cercare liberamente la soluzione capace di offrire un senso pieno alla vita. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono l’espressione più alta della natura dell’uomo: di conseguenza la risposta ad esse misura la profondità del suo impegno con la propria esistenza. In particolare, quando il perché delle cose viene indagato con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti, la religiosità rappresenta l’espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall’aspirazione profonda dell’uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e personale che egli compie del divino»: Udienza generale del 19 ottobre 1983, 1-2: Insegnamenti VI, 2 (1983), 814-815.

[30] 29. «[Galileo] ha dichiarato esplicitamente che le due verità, di fede e di scienza, non possono mai contrariarsi «procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio» come scrive nella lettera al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi con parole simili, insegna il Concilio Vaticano II: «La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio» (Gaudium et spes, 36). Galileo sente nella sua ricerca scientifica la presenza del Creatore che lo stimola, che previene e aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito». GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10-XI-1979: Insegnamenti, II, 2 (1979), 1111-1112.

[31] 30. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 4.

[32] 31. ORIGENE, Contro Celso, 3, 55: SC 136, 130.

[33] 32. Dialogo con Trifone, 8,1: PG 6, 492.

[34] 33. Stromati I, 18, 90, 1: SC 30, 115.

[35] 34. Cfr. ibid., I, 16, 80, 5: SC 30, 108.

[36] 35. Cfr. ibid., I, 5, 28, 1: SC 30, 65.

[37] 36. Ibid., VI, 7, 55, 1-2: PG 9, 277.

[38] 37. Ibid., I, 20, 100, 1: SC 30, 124.

[39] 38. S. AGOSTINO, Confessiones VI, 5, 7: CCL 27, 77-78.

[40] 39. Cfr. ibid., VII, 9, 13-14: CCL 27, 101-102.

[41] 40. De præscriptione hæreticorum, VII, 9: SC 46, 98. «Quid ergo Athenis et Hierosolymis? Quid academiæ et ecclesiæ?».

[42] 41. Cfr. CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Istr. sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, 10-XI-1989, 25: AAS 82 (1990), 617-618.

[43] 42. S. ANSELMO, Proslogion, 1: PL 158, 226.

[44] 43. Id., Monologion, 64: PL 158, 210.

[45] 44. Cfr. Summa contra Gentiles, I, VII.

[46] 45. Cfr. Summa Theologiæ, I, 1, 8 ad 2: «cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat».

[47] 46. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al IX Congresso Tomistico Internazionale, 29-IX-1990: Insegnamenti, XIII, 2 (1990), 770-771.

[48] 47. Lett. ap. Lumen Ecclesiæ, 20-XI-1974, 8: AAS 66 (1974), 680.

[49] 48. Cfr. I, 1, 6: «Præterea, hæc doctrina per studium acquiritur. Sapientia autem per infusionem habetur, unde inter septem dona Spiritus Sancti connumeratur».

[50] 49. Ibid., II, II, 45, 1 ad 2; cfr. pure II, II, 45, 2.

[51] 50. Ibid., I, II, 109, 1 ad 1 che riprende la nota frase dell’Ambrosiaster, In prima Cor 12,3: PL 17, 258.

[52] 51. LEONE XIII, Lett. enc. Æterni Patris, 4-VIII-1879: ASS 11 (1878-1879), 109.

[53] 52. PAOLO VI, Lett. ap. Lumen Ecclesiæ, 8: AAS 66 (1974), 683.

[54] 53. Lett. enc. Redemptor hominis, 4-III-1979, 15: AAS 71 (1979), 286.

[55] 54. Cfr. PIO XII, Lett. enc. Humani generis, 12-VIII-1950: AAS 42 (1950), 566.

[56] 55. Cfr. CONCILIO VATICANO I, Cost. dogm. Pastor Æternus, 18-VII-1870, DS 3070; CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 25 c.

[57] 56. Cfr. SINODO DI COSTANTINOPOLI, DS 403.

[58] 57. Cfr. CONCILIO DI TOLEDO I, DS 205; CONCILIO DI BRAGA I, DS 459-460; SISTO V, Bolla Cœli et terræ Creator, 5-I-1586: Bullarium Romanum 4/4, Romæ 1747, 176-179; URBANO VIII, Inscrutabilis iudiciorum, (1-IV-1631): Bullarium Romanum 6/1, Romæ 1758, 268-270.

[59] 58. Cfr. CONCILIO VIENNENSE, Decr. Fidei catholicæ, DS 902; CONCILIO LATERANENSE V, Bolla Apostolici regiminis, DS 1440.

[60] 59. Cfr. Theses a Ludovico Eugenio Bautain iussu sui Episcopi subscriptæ, 8-IX-1840, DS 2751-2756; Theses a Ludovico Eugenio Bautain ex mandato S. Cong. Episcoporum et Religiosorum subscriptæ, 26-IV-1844, DS 2765-2769.

[61] 60. Cfr. S. CONGR. INDICIS, Decr. Theses contra traditionalismum Augustini Bonnetty, 11-VI-1855, DS 2811-2814.

[62] 61. Cfr. PIO IX, Breve Eximiam tuam, 15-VI-1857, DS 2828-2831; Breve Gravissimas inter, 11-XII-1862, DS 2850-2861.

[63] 62. Cfr. S. CONGR. DEL S. OFFICIO, Decr. Errores ontologistarum, 18-IX-1861, DS 2841-2847.

[64] 63. Cfr. CONCILIO VATICANO I, Cost. dogm. Dei Filius, II: DS 3004; e can. 2, 1: DS 3026.

[65] 64. Ibid., IV: DS 3015, citato in CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 59.

[66] 65. CONCILIO VATICANO I, Cost. dogm. Dei Filius, IV: DS 3017.

[67] 66. Cfr. Lett. enc. Pascendi dominici gregis, 8-IX-1907: ASS 40 (1907), 596-597.

[68] 67. Cfr. PIO XI, Lett. enc. Divini Redemptoris, 19-III-1937: AAS 29 (1937), 65-106.

[69] 68. Lett. enc. Humani generis: AAS 42 (1950), 562-563.

[70] 69. Ibid., l.c., 563-564.

[71] 70. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Pastor Bonus, 28-VI-1988, artt. 48-49: AAS 80 (1988), 873; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istr. Donum veritatis, 24-V-1990, 18: AAS 82 (1990), 1558.

[72] 71. Cfr. Istr. Libertatis nuntius, 6-VIII-1984, VII-X: AAS 76 (1984), 890-903.

[73] 72. Il Concilio Vaticano I, con parole tanto chiare quanto autoritative, aveva già condannato questo errore, affermando da una parte che «quanto a questa fede [...], la Chiesa cattolica professa che essa è una virtù soprannaturale, per la quale sotto l’ispirazione divina e con l’aiuto della grazia, noi crediamo vere le cose da lui rivelate, non a causa dell’intrinseca verità delle cose percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell’autorità di Dio stesso, che le rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare»: Cost. dogm. Dei Filius III: DS 3008, e can.3. 2: DS 3032. Dall’altra parte, il Concilio dichiarava che la ragione mai «è resa capace di penetrare [tali misteri] come le verità che formano il suo oggetto proprio»: ibid., IV: DS 3016. Da qui traeva la conclusione pratica: «I fedeli cristiani non solo non hanno il diritto di difendere come legittime conclusioni della scienza le opinioni riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se condannate dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle piuttosto come errori, che hanno solo una ingannevole parvenza di verità»: ibid., IV: DS 3018.

[74] 73. Cfr. nn. 9-10.

[75] 74. Ibid., 10.

[76] 75. Ibid., 21.

[77] 76. Cfr. ibid., 10.

[78] 77. Cfr. Lett. enc. Humani generis: AAS 42 (1950), 565-567; 571-573.

[79] 78. Cfr. Lett. enc. Æterni Patris: ASS 11 (1878-1879), 97-115.

[80] 79. Ibid., l.c., 109.

[81] 80. Cfr. nn. 14-15.

[82] 81. Cfr. ibid., 20-21.

[83] 82. Ibid., 22; cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Redemptor hominis, 8: AAS 71 (1979), 271-272.

[84] 83. Decr. Optatam totius, 28-X-1965, 15.

[85] 84. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Sapientia christiana, 15-IV-1979, art. 79-80: AAS 71 (1979), 495-496; Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis, 25-III-1992, 52: AAS 84 (1992), 750-751. Cfr. pure alcuni commenti sulla filosofia di S. Tommaso: Discorso al Pontificio Ateneo Internazionale Angelicum, 17-XI-1979: Insegnamenti II, 2 (1979), 1177-1189; Discorso ai partecipanti dell’VIII Congresso Tomistico Internazionale, 13-IX-1980: Insegnamenti III, 2 (1980), 604-615; Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale della Società «San Tommaso» sulla dottrina dell’anima in S. Tommaso, 4-I-1986: Insegnamenti IX, 1 (1986), 18-24. Inoltre, S. CONGR. PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 6-I-1970, 70-75: AAS 62 (1970), 366-368; Decr. Sacra Theologia, 20-I-1972: AAS 64 (1972), 583-586.

[86] 85. Cfr. Cost. past. Gaudium et spes, 57; 62.

[87] 86. Cfr. ibid., 44.

[88] 87. Cfr. CONCILIO LATERANENSE V, Bolla Apostolici regimini sollicitudo, Sessione VIII: Conc. Oecum. Decreta, 1991, 605-606.

[89] 88. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 10.

[90] 89. S.TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiæ, II-II, 5, 3 ad 2.

[91] 90. «La ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l’attende dopo la morte, costituisce per la teologia fondamentale il necessario preambolo, affinché, anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità». GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai partecipanti al Congresso internazionale di Teologia Fondamentale a 125 anni dalla «Dei Filius», 30-IX-1995, 4: L’Osservatore Romano, 3-X-1995, p. 8.

[92] 91. Ibid.

[93] 92. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 15; Decr. Ad gentes, 7-XII-1965, 22.

[94] 93. S. TOMMASO D’AQUINO, De Cælo, 1, 22.

[95] 94. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 53-59.

[96] 95. S. AGOSTINO, De prædestinatione sanctorum, 2,5: PL 44, 963.

[97] 96. Id., De fide, spe et caritate, 7: CCL 64, 61.

[98] 97. Cfr. CONCILIO CALCEDONENSE, Symbolum, Definitio: DS 302.

[99] 98. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Redemptor hominis, 15: AAS 71 (1979), 286-289.

[100] 99. Cfr., ad esempio, S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiæ, I, 16,1; S. BONAVENTURA, Coll. in Hex., 3, 8, 1.

[101] 100. Cost. past. Gaudium et spes, 15.

[102] 101. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Veritatis splendor, 6-VIII-1993, 57-61: AAS 85 (1993), 1179-1182.

[103] 102. Cfr. CONCILIO VATICANO I, Cost. dogm. Dei Filius, IV: DS 3016.

[104] 103. Cfr. CONCILIO LATERANENSE IV, De errore abbatis Ioachim, II: DS 806.

[105] 104. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 24; Decr. Optatam totius, 16.

[106] 105. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Evangelium vitæ, 25-III-1995, 69: AAS 87 (1995), 481.

[107] 106. Nello stesso senso scrivevo nella mia prima Lettera enciclica a commento dell’espressione del Vangelo di S. Giovanni: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (8, 32): «Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un ammonimento: l’esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della verità, come condizione di un’autentica libertà; e l’ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la verità sull’uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all’uomo la libertà basata sulla verità, come Colui che libera l’uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse, nell’anima dell’uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà»: Lett. enc. Redemptor hominis, 12: AAS 71 (1979), 280-281.

[108] 107. Discorso di apertura del Concilio, 11-X-1962: AAS 54 (1962), 792.

[109] 108. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istr. Donum veritatis, 7-8: AAS 82 (1990), 1552-1553.

[110] 109. Ho scritto nell’Enciclica Dominum et vivificantem, commentando Gv 16, 12-13: «Gesù presenta il Consolatore, lo Spirito di verità, come colui che “insegnerà” e “ricorderà”, come colui che gli “renderà testimonianza”; ora dice: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo “guidare alla verità tutta intera”, in riferimento a ciò di cui gli Apostoli “per il momento non sono capaci di portare il peso”, è in necessario collegamento con lo spogliamento di Cristo per mezzo della passione e morte di croce, che allora, quando pronunciava queste parole, era ormai imminente. In seguito, tuttavia, diventa chiaro che quel “guidare alla verità tutta intera” si ricollega, oltre che allo scandalum Crucis, anche a tutto ciò che Cristo “fece ed insegnò” (At 1, 1). Infatti, il mysterium Christi nella sua globalità esige la fede, poiché è questa che introduce opportunamente l’uomo nella realtà del mistero rivelato. Il “guidare alla verità tutta intera” si realizza, dunque, nella fede e mediante la fede: il che è opera dello Spirito di verità ed è frutto della sua azione nell’uomo. Lo Spirito Santo deve essere in questo la suprema guida dell’uomo, la luce dello spirito umano»: n. 6: AAS 78 (1986), 815-816.

[111] 110. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 13.

[112] 111. Cfr. PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Istr. sulla verità storica dei Vangeli, 21-IV-1964: AAS 56 (1964), 713.

[113] 112. «È chiaro che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque sistema filosofico effimero; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principi e nozioni dettate da una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella, ha illuminato, per mezzo della Chiesa, la mente umana. Perciò non c’è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene»: Lett. enc. Humani generis: AAS 42 (1950), 566-567; cfr. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Doc. Interpretationis problema, ottobre 1989: Ench. Vat. 11, nn. 2717-2811.

[114] 113. «Quanto al significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire dall’opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti che sono, in certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima»: S. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium Ecclesiæ, 24-VI-1973, 5: AAS 65 (1973), 403.

[115] 114. Cfr. CONGR. S. OFFICII, Decr. Lamentabili, 3-VII-1907, 26: ASS 40 (1907), 473.

[116] 115. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Pontificio Ateneo «Angelicum», 17-XI-1979, 6: Insegnamenti, II, 2 (1979), 1183-1185.

[117] 116. N. 32: AAS 85 (1993), 1159-1160.

[118] 117. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Catechesi tradendæ, 16-X-1979, 30: AAS 71 (1979), 1302-1303; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istr. Donum veritatis, 7: AAS 82 (1990), 1552-1553.

[119] 118. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Catechesi tradendæ, 30: AAS 71 (1979), 1302-1303.

[120] 119. Cfr. ibid., 22, l. c., 1295-1296.

[121] 120. Cfr. ibid., 7, l. c., 1282.

[122] 121. Cfr. ibid., 59, l. c., 1325.

[123] 122. CONCILIO VATICANO I, Cost. dogm. Dei Filius, IV: DS 3019.

[124] 123. «Nessuno può fare della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei propri concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta unione con quella missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la Chiesa»: GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Redemptor hominis, 19: AAS 71 (1979), 308.

[125] 124. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Dich. Dignitatis humanæ, 7-XII-1965, 1-3.

[126] 125. Cfr. Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 8-XII-1975, 20: AAS 68 (1976), 18-19.

[127] 126. Cost. Gaudium et spes, 92.

[128] 127. Cfr. ibid., 10.

[129] 128. Prologus, 4: Opera omnia, Firenze 1891, t. V, 296.

[130] 129. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Decr. Optatam totius, 15.

[131] 130. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Sapientia christiana, artt. 67-68: AAS 71 (1979), 491-492.

[132] 131. GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’Università di Cracovia per il 600 anniversario dell’Alma Mater Jagellonica, 8-VI-1997, 4: L’Osservatore Romano, 9-10 giugno 1997, p. 12.

(133) 132. «’e noerà tes písteos tràpeza»: Omelia in lode di Santa Maria Madre di Dio, dello pseudo Epifanio: PG 43, 493.

Romana, n. 27, Luglio-Dicembre 1998, p. 172-239.

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