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Il significato del lavoro nella ricerca sociologica attuale e lo spirito dell’Opus Dei

1. L’attuale problematica del lavoro.

2. Il lavoro nel passaggio dalla società industriale moderna a quella post-industriale e post-moderna.

3. Lo spirito dell’Opus Dei a riguardo del lavoro.

4. Verso una nuova etica del lavoro.

1. L’attuale problematica del lavoro

1.1. Quale significato del lavoro umano possiede, nel suo insieme, la civiltà di cui facciamo parte?

La ricerca sociologica ha da tempo evidenziato una profonda contraddizione. La nostra civiltà ha un atteggiamento fondamentalmente ambivalente, non di rado contraddittorio e schizofrenico, verso il lavoro, perché da un lato lo esalta e dall’altro lo avvilisce.

Lo esalta quando vede in esso la capacità dell’uomo di realizzare se stesso, di soddisfare i propri bisogni di sopravvivenza, di liberarsi da certi condizionamenti naturali, in breve di costruire — in quanto homo faber— la sua vita e la stessa società. Lo avvilisce quando lo considera come un’attività puramente strumentale, orientata al mero consumo, e quindi si propone di eliminarlo attraverso la costante e progressiva diffusione del cosiddetto “tempo libero”.

Tutto il processo storico occidentale ha in sé i germi di questa antitesi, che risale ai suoi albori (alla civiltà greca classica) e che non ha trovato lungo i secoli una composizione, ma semmai una certa esasperazione. Parlare del lavoro è andare al cuore della società moderna, al suo stesso impulso più profondo, alle sue contraddizioni culturali e religiose più intime. Parlare del lavoro è rifare la storia della cultura occidentale, della sua matrice e del suo sviluppo. Non ci si deve meravigliare se, riandando alle radici del problema, si scopre di ripercorrere anche la storia del cristianesimo, dal momento che le grandi svolte del pensiero cristiano sono state segnate, e tuttora continuano ad essere fortemente contraddistinte, dalla concezione del lavoro come punto di snodo fra natura, cultura umana e sovranatura.

1.2. Una tesi ricorrente fra gli studiosi è che l’antitesi di cui si è detto (fra concezioni positive e negative del lavoro) risale al pensiero cristiano e al suo presunto “dualismo interno” verso il mondo. In particolare si sostiene che la concezione specificatamente moderna del lavoro rappresenta un ribaltamento del pensiero cattolico. Si afferma che il cattolicesimo vede nel lavoro un valore negativo, addirittura una maledizione, mentre la società moderna (a partire dalla Riforma protestante) lo vede come valore positivo e di liberazione dell’uomo. E se ne fa derivare la conclusione che il concetto di lavoro proprio di una società capace di progresso deve necessariamente essere all’opposto di quello cattolico.

Questa tesi contiene una piccola parte di verità storica, ma nel suo complesso è errata e fuorviante.

È vera se si intende affermare che, storicamente, una parte del pensiero cristiano, dai primi secoli dopo Cristo fino al Medioevo, si è a lungo soffermata sugli aspetti negativi del lavoro, considerandolo come fatica, servitù, strumento puramente necessario dal punto di vista materiale. Tuttavia si dimentica che proprio il pensiero cattolico ha espresso la massima valorizzazione del lavoro come attività di realizzazione dell’uomo (di ciò che è umano), mentre la svalutazione del lavoro (come pura fatica e puro mezzo) è riconducibile ad una subordinazione culturale nei confronti di quella concezione servile del lavoro, propria del pensiero greco, che è stata precisamente all’origine di quell’etica protestante da cui si è dipartito il processo di modernizzazione occidentale[1].

In realtà, il pensiero cattolico — considerato nel suo complesso, e lungo tutto lo svolglimento storico — esprime una concezione positiva del lavoro e porta con sé il seme di un modo di vivere il lavoro che ha poco a che fare con molte concretizzazioni storiche sino ad oggi realizzate.

1.3. Sul piano sociologico, si può infatti dimostrare che proprio la concezione (non cattolica) del lavoro espressa dalla modernità è alienata, in quanto ha esasperato tutte le ambivalenze insite nell’attività umana e ha introdotto degli squilibri che hanno portato a quegli assetti capitalistici e comunistici in cui l’uomo è stato asservito al lavoro, anziché esserne il soggetto libero e responsabile.

D’altra parte, proprio la ricerca sociologica odierna mostra che la nascente società post-moderna sta attivamente cercando, dopo l’assetto industriale (fordista), un nuovo modo di vivere e praticare il lavoro che si accorda con l’ispirazione del pensiero cattolico, laddove esso esprime una concezione non alienante del lavoro, quale la si riscontra nella dottrina sociale della Chiesa proclamata nel Concilio Vaticano II, e in particolare sviluppata negli anni più recenti da Giovanni Paolo II[2]. A questa “riscoperta” del lavoro non alienato ha contribuito in maniera determinante lo spirito dell’Opus Dei, sul quale è opportuno focalizzarsi anche perché qualcuno talora lo confonde con una specie di nuova etica protestante del lavoro, cosa che non è.

In questo breve contributo ci si propone, appunto, di mostrare che esistono concrete possibilità di dar vita ad una nuova etica del lavoro che non sia né ‘servile’ (come nell’antichità e nel medioevo, nelle quali domina un’antropologia ‘signorile’), né alienata (come nel mondo moderno, in cui domina la stessa antropologia, anche se capovolta e secolarizzata), ma propriamente umana e cristiana.

2. Il lavoro nel passaggio dalla società industriale moderna a quella post-industriale e post-moderna

2.1. La ricerca sociologica che ha a lungo studiato il lavoro nella società industriale ha cercato soprattutto di evidenziare se e come il lavoro sia un fattore di emancipazione oppure, invece, di alienazione della persona umana e della società per conseguenza. La domanda fondamentale è stata, e tuttora è, se la nostra società tenda ad aumentare oppure a diminuire la creatività umana nel lavoro (e perché e come ciò avvenga, e con quali conseguenze).

Questo interrogativo ha suscitato molte dispute. Due sono state le tesi che hanno dominato il campo fino a poco tempo fa.

Da una parte, c’è chi ha posto l’accento sulla crescente alienazione nel lavoro, adducendo come prova il distacco del lavoratore dai fini della propria attività e dei suoi prodotti. Ancor oggi, chi sostiene questa tesi, invita a guardare alle tensioni esistenti nelle aziende, nel mercato del lavoro, all’assenteismo dai posti di lavoro, alla generale disaffezione nell’assunzione e nell’applicazione delle responsabilità del lavoratore nei suoi compiti professionali. Dall’altra, c’è chi, abbracciando una prospettiva di ottimismo futuristico, ha visto nella società altamente tecnicizzata (la si chiami tecnotronica, dell’informazione, telematica o altro ancora) e in gran parte automatizzata, possibilità inverosimili e inimmaginabili di creatività per il nascituro “super-uomo”, liberato da ogni affanno bassamente materiale e fisico, e quindi “spiritualizzato” nel suo rapporto puramente inventivo e virtuale con il lavoro, qui concepito unicamente come attività indeterminate e mera fonte di gratificazioni.

Queste due prospettive hanno polarizzato le opinioni e anche buona parte delle ricerche empiriche circa le tendenze future del lavoro fino a pochi anni or sono. Oggi siamo in grado di prendere le distanze da entrambe.

La critica che si può fare è che in entrambe prevale una sorta di determinismo per cui il fattore tecnologico sovrasterebbe e condizionerebbe in modo decisivo la situazione umana nel lavoro: in senso oppressivo per gli uni, in senso liberatorio per gli altri. In ogni caso, la tesi secondo la quale una crescita illimitata delle basi materiali della produzione (modello fordista) o dell’informazione (modello della società comunicativa) costituirebbe il fattore emancipatore ultimo del lavoro, il talismano della felicità umana, non è più credibile.

Le visioni del lavoro espresse dalla e nella modernità, inclusa la sociologia moderna (in senso stretto), risultano oggi assai parziali, e in ogni caso non rispondono al problema del significato vitale che il lavoro ha per l’uomo odierno. Alla loro base c’è una antropologia insufficiente. La prima posizione ipotizza, seppure implicitamente, che il lavoro sia qualcosa di intrinsecamente negativo per l’uomo. Indirettamente, si rifà alla concezione signorile/servile. La seconda posizione pensa al lavoro come semplice erogazione di energia, con fini indeterminati.

È la radice illuministica e materialistica comune a entrambe queste impostazioni che deve essere criticata nel suo fondamento.

Da qualche anno, la sociologia sembra incline a lasciarsi decisamente alle spalle questo modo di osservare e valutare il lavoro. Le nuove correnti cercano piuttosto di comprendere che la creatività nel lavoro, il fatto che l’uomo sia soggetto anziché oggetto del lavoro, consiste essenzialmente in un rapporto sociale motivato e culturalmente orientato, e non un’attività — individualistica o collettiva — resa più libera e incondizionata dalla disponibilità di strumenti tecnici sempre più perfezionati.

Come ogni rapporto umano dotato di senso, anche la creatività del lavoro è una realtà pluridimensionale, che tocca contemporaneamente i livelli biologico, psicologico, sociale, economico, culturale e sconfina nel mondo simbolico dei valori ultimi. Essa è sempre sospesa ad un equilibrio dinamico in cui gli aspetti strumentali ed espressivi, la libertà e la necessità, il rischio e la responsabilità, lo sforzo e la soddisfazione ad esso connessi, debbono trovare un rapporto di integrazione reciproca senza che alcuno di questi elementi possa essere eliminato.

Proprio questa nuova consapevolezza sembra caratterizzare, secondo la più recente sociologia del lavoro, l’uscita dal modello della industrializzazione che ha segnato, con varie fasi, il processo di modernizzazione della società industriale dalla prime rivoluzioni economiche del Settecento ad oggi.

2.2. Nel momento storico attuale, la ricerca sociologica sta valutando nuovi bisogni e nuovi stili di lavoro che hanno qualcosa di fortemente discontinuo con il modello capitalistico-fordista. La critica nei confronti di quest’ultimo non è solo di ordine organizzativo (per l’eccesso di divisione-specializzazione del lavoro), ma parte dal riconoscimento che la concezione industriale “meccanica” (tayloriana, fordista) del lavoro, e l’ambiente operativo da essa generato, ha reso sempre più difficile l’espressione delle migliori virtù umane. Un lavoro che diviene sempre più tecnico, spezzettato, artificiale, burocratizzato, diventa per ciò stesso sempre più stressante e alla fine produce una crescente disumanizzazione. L’allarme lanciato negli anni ‘80 sulla qualità del lavoro si sta traducendo in nuove analisi e proposte di ri-umanizzazione del lavoro, che sono attente a caratteristiche di maggiore libertà e responsabilità, di maggiore autonomia, e soprattutto di contenuti di senso non puramente strumentali.

L’enfasi crescente della ricerca sociale sta nel rilevare che il lavoratore in genere (anche nel ruolo di studente o di casalinga o in certe condizioni cosiddette “marginali” rispetto al processi di razionalizzazione e ristrutturazione della produzione e dei servizi) non vive un rapporto immediato e libero con il lavoro, ma si trova in situazioni sentite come costrittive, partecipate come estranee, e comunque vissute come prive di spazio per esprimere la propria ricchezza interiore.

Di qui i tentativi di riorganizzare il lavoro in base a modelli di partecipazione autogestionale, di compartecipazione fra produttori e consumatori (multi-stakers e prosumers), di rotazione delle mansioni (job rotation), di arricchimento dei compiti e delle funzioni (job enlargement), di progetti di qualità (total quality), e così via. Certamente, molti di questi tentativi sono ancora di natura più materiale che culturale, più organizzativi e manageriali che relazionali. Ma è indubbio che nelle ricerche più avanzate è il fattore relazionale che emerge con prepotenza, quale elemento decisivo cui guardare per una riconsiderazione del significato del lavoro. Non vi è dubbio, infatti, che le relazioni sociali di lavoro (anzi il lavoro come relazione sociale) condizionano profondamente l’esercizio — dotato di senso — delle potenzialità umane, soprattutto in quanto possono favorire il lavoratore nell’esprimere il meglio di sé affidandogli compiti e responsabilità con forti contenuti di inventività e imprenditorialità (di attività progettuale, di ricerca, di decisione e sperimentazione) oppure possono inibire questa ricchezza umana relegandolo in ruoli di carattere meramente esecutivo, in cui il dato ripetitivo, privo di qualunque molla al miglioramento di sé e degli altri, banalizza e sclerotizza la personalità del lavoratore estraniandolo così da una partecipazione umana piena, cioè vissuta in tutte le dimensioni propriamente umane.

Rivalutare il lavoro umano è dunque, dal punto di vista sociologico, una questione di divisione del lavoro, ma la divisione del lavoro non deve riflettere solo esigenze economiche (di produttività, efficienza, competizione, ecc.), bensì anche di un nuovo modo di relazionarsi agli altri e al consumo, cioè poi ad un nuovo stile di vita. Ritorna di attualità la distinzione fra lavoro per l’uso, in quanto crea beni e servizi direttamente rispondenti a bisogni di persone concrete in un contesto determinato, e lavoro per lo scambio, quello che produce per un cliente impersonale e viene valutato secondo parametri di profitto. Entrambi sono legittimi, ma l’importante è non ridurre il primo al secondo e utilizzare entrambi in modo appropriato nelle relazioni quotidiane (dove, ad esempio, il lavoro di servizio e cura delle persone è meglio svolto come lavoro d’uso piuttosto che di scambio).

2.3. Con la nascita del capitalismo individualista, si è innestato un “motore” di sviluppo, irrazionale nel suo fondamento, che certamente in qualche modo ha provocato una crescita economica mai conosciuta nella storia, ma solo grazie ad un sfruttamento dell’uomo su se stesso e sull’altro uomo. I sistemi comunisti non hanno modificato questa organizzazione. Soltanto l’hanno collettivizzata e resa ancor più materialistica. Diverse sono state le fasi attraversate dall’organizzazione sia capitalistica sia comunistica del lavoro. In ogni caso però tutte queste forme hanno avuto in comune il fatto di aver istituzionalizzato il lavoro come relazione sociale inibitrice di creatività propriamente umana. L’organizzazione rigidamente capitalistica del lavoro, infatti, ha operato una universale alienazione dell’umanità nel momento economico della produzione-consumo astratto e mercificato. La creatività del soggetto si è quindi rifugiata nel fatto estetico, nella attività della “mente”, al limite nel puro gioco (nella pura libertà “signorile”).

La ricerca sociologica non si è stancata di mostrare le alienazioni contenute sia nella via puramente capitalistica sia in quella marxista. Ciò che manca ad entrambe è una concezione del lavoro come relazione di reciproca valorizzazione fra soggetti realmente interdipendenti (siano essi co-produttori, oppure datori di lavoro e lavoratori dipendenti) orientata positivamente ad un’azione di sviluppo reciproco, e per questo basata su un rapporto di scambio non economicistico.

La società post-industriale sembra profilare possibilità in questo senso. Ma le occorre “un’anima”. Per riconfigurare il lavoro come attività propriamente umana, la nostra società deve creare un contesto in cui il lavoro sia un’attività nella quale è richiesto, e non già inibito, l’esercizio delle migliori virtù umane. Questa è la base etica dell’impresa, e della concreta organizzazione aziendale.

La concretezza di una tale prospettiva sta nel fatto che la società post-industriale, per non incappare né in un planning puramente astratto, né in una competizione sregolata e aggressiva, deve non solo diffondere e decentrare le responsabilità nel modo più esteso possibile, ma deve anche determinare un sistematico utilizzo del nuovo e dell’assolutamente imprevisto, una sistematica promozione di ciò che non è coordinabile e pianificabile a-priori, e che tuttavia non può essere un’attività di puro rischio e d’azzardo privo di regole e di equità nelle relazioni di scambio.

Certamente il rapporto particolare e unico dell’uomo con le sue opere fa sì che la creatività debba essere — in via diretta e primaria — essenzialmente personale. Le ricerche delle scienze sociali hanno evidenziato che l’uomo si esprime creativamente quando può agire con libertà personale, con spirito di iniziativa interiormente motivata, misurandosi con un modello di perfezione e può dar corpo ad un prodotto unico, suo proprio. Tuttavia, con la complessificazione del sistema economico-produttivo, è venuta emergendo una maggiore dimensione sociale e collettiva del lavoro che impone di ridefinire il carattere personalizzato dell’attività svolta. E’ questo il concetto di “vocazione professionale”, che non richiede necessariamente un’attività economica in proprio, ma può essere esercitata in un contesto di lavoro coordinato e anche dipendente, a patto di non avere più quel carattere individualistico che si è poi tradotto nell’etica acquisitiva strumentale dell’achievement (successo).

La vocazione professionale deve essere oggi concepita non più come strumento di successo o di ricerca banale di un livello opulento di vita, ma come realizzazione di sé nella piena integrazione umana, che è l’unione di due o più alterità, quando tale unione implica un bene comune per entrambe le alterità, proveniente a ciascuna dalla alterità stessa, così che ogni alterità appaga i bisogni delle altre[3]. Con ciò la vocazione professionale ha modo di diventare imprenditorialità diffusa, attraverso forme intermedie di piccoli gruppi di lavoro che si riappropriano della creatività del lavoro lontano sia dall’ethos individualistico borghese sia dalle modalità collettivizzanti dei regimi comunisti o dalle grande strutture anonime. E’ in questo senso che il lavoro, sia esso esercitato in strutture pubbliche o private, secondo le forme organizzative e le finalità più diverse, può diventare una prospettiva di crescita “organica”, cioè vitale, per il soggetto del lavoro, la persona umana. Poiché l’uomo, nel lavoro, è parte di un tutto organico che deve condurlo allo stesso tempo al di sopra di se stesso, verso il bene comune, e nella sua coscienza più intima, cioè nella sua ricchezza interiore.

3. Lo spirito dell’Opus Dei a riguardo del lavoro

3.1. È singolare constatare come la ricerca di un nuovo significato del lavoro nella realtà del mondo contemporaneo e nella ricerca sociologica sia in sintonia con il senso del lavoro che sta al centro della spiritualità dell’Opus Dei.

La dottrina espressa dal Fondatore dell’Opus Dei, il Beato Josemaría Escrivá ha aperto un orizzonte che si è andato ampliando e chiarendo fino a portare nel pensiero cristiano contemporaneo una voce significativamente in sintonia proprio con la ricerca di quel nuovo significato di lavoro e di organizzazione cui si è accennato in precedenza.

Sin dall’inizio, Josemaría Escrivá ha insegnato che lo spirito dell’Opus Dei è venuto a sottolineare un aspetto del messaggio cristiano dimenticato nel corso dei secoli: che, cioè, qualunque lavoro umanamente degno e onesto può convertirsi in un lavoro divino, cioè in un luogo in cui si può amare e servire Dio, dunque santificarsi[4] “Il Signore, nel 1928, suscitò l’Opus Dei perché i cristiani ricordassero che Dio creò l’uomo perché lavorasse (cfr. Gen. II, 15)”[5]. Il Beato Josemaría Escrivá sottolinea che l’uomo è stato fatto per il lavoro prima della caduta (peccato originale) e che quindi il lavoro è di per sé positivo per l’uomo, e che, come tale —naturaliter—, è materia santificabile. Addita l’esempio di Cristo che per 30 anni restò a Nazareth a lavorare come falegname.

Con ciò viene immediatamente superata quella ambivalenza che ha attraversato il pensiero occidentale quando ha posto in dubbio il carattere positivo delle attività secolari, in quanto potenziali pericoli per la salvezza cristiana o comunque in quanto situazioni lontane da una possibile santificazione. Per trovare qualcosa che si assomigli nella tradizione cattolica, piuttosto che a S. Benedetto, nel cui motto (ora et labora) preghiera e lavoro si configurano come attività diverse e separate, bisogna pensare a S. Bernardino da Siena quando sottolineava l’importanza del lavoro come vita activa civilis, ossia come luogo di esercizio delle virtù naturali e soprannaturali orientate alla creazione di una ricchezza sana, legittima, feconda, non certo in contrasto con il desiderio di perfezione e le possibilità di santificazione del cristiano.

In questo senso, la concezione del lavoro in Josemaría Escrivá riprende il significato umanistico di società civile che, emerso alla fine del Medioevo, è stato poi storicamente emarginato dalla concezione calvinista (scozzese) di società mercantile (si vedano A. Ferguson, A. Smith e altri autori).

Rifacendosi alla visione originaria (“fontale”, come direbbe Giovanni Paolo II), del lavoro nella rivelazione biblica, il Beato Josemaría Escrivá ci ricorda che il bisogno di lavorare non è frutto del peccato, ma è parte integrante del progetto di Dio sull’uomo e sul mondo: “l’uomo nasce per lavorare come l’uccello per volare” (Job. V, 7). Con la sola differenza che, se, prima del peccato originale, il lavoro aveva certe caratteristiche (era la “coltivazione del giardino”), dopo la caduta esso ha assunto altre connotazioni, altre qualità, tra cui la fatica e la necessità, ma comunque resta un compito propriamente umano, e non servile come nella concezione greca, secondo la quale il lavoro non è né necessario né propriamente umano, dal momento che chi può permettersi di non lavorare (il possidente, il “signore”) esprime il meglio di sé proprio non lavorando, ma esercitando solo le sue facoltà superiori. Nello spirito dell’Opus Dei ogni uomo deve lavorare se vuole seguire la propria natura e perfezionarsi, sia in senso umano che soprannaturale. Vengono con ciò superate tutte le ambivalenze e i dubbi verso le attività secolari che hanno a lungo afflitto la teologia, anche cattolica.

Il lavoro è omogeneo all’uomo. Naturalmente a certe condizioni. Lo è sia in senso strutturale (come conformazione della sua natura), sia in senso intenzionale (come requisito di esplicazione della sua soggettività). E’ connotazione intrinseca della natura umana sviluppare se stessa, le relazioni con gli altri e con il mondo, attraverso il lavoro. Secondo il pensiero di Josemaría Escrivá è mezzo di partecipazione all’opera della creazione e, con la Redenzione operata da Cristo, assume una connotazione nuova in quanto diventa ciò che non poteva essere prima: mezzo per corredimere con Cristo. Il lavoro è luogo di divinizzazione: Dio incontra l’uomo e l’uomo può aprirsi a questo incontro, compenetrandosi con Lui. Con la Redenzione, nota il Beato Josemaría Escrivá, anche il lavoro viene sanato e muta quelle qualità che lo connotavano in precedenza —a causa del peccato— solo o prevalentemente in senso negativo: il lavoro si propone come vita nuova, come oggetto esplicito della volontà di Dio che chiama alla realizzazione, sempre più compiuta, dell’ordine della creazione e del piano salvifico di Dio: “Cristo, morendo sulla croce, attrae a Sé l’intera creazione; e, nel Suo nome, i cristiani, lavorando in mezzo al mondo, devono riconciliare tutte le cose con Dio, situando Cristo sulla vetta di tutte le attività umane”[6].

Ben lungi dall’essere il luogo della universale alienazione degli uomini in “servi”, come ha sostenuto la prima teologia protestante[7], il lavoro si configura nello spirito dell’Opus Dei come il luogo della universale liberazione degli uomini in quanto figli di Dio, amati da un padre che li chiama a operare nel mondo come destinatari della Sua eredità[8].

Il Beato Josemaría Escrivá sottolinea come Cristo, ricapitolando in sé tutte le cose, fa del lavoro la novità della vita con riferimento a quel passo di S. Paolo (Ef. IV, 23-28) in cui l’Apostolo invita a rinnovarsi nello spirito e a rivestirsi dell’uomo nuovo (“per la qual cosa, chi rubava non rubi più; piuttosto lavori operando con le proprie mani”; un passo che S. Tommaso commentava così: “il furto appartiene alla vecchiaia della vita, il lavoro è la novità della vita”).

L’espressione con la quale il Beato Josemaría Escrivá sintetizza il nucleo della spiritualità dell’Opus Dei si condensa in un semantema triadico e relazionale: Santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare gli altri con il lavoro[9].

Santificare il lavoro significa, per Josemaría Escrivá, realizzare un compito con la massima perfezione possibile, sia come perfezione umana (competenza professionale), sia come perfezione soprannaturale (per amore della volontà divina e al servizio degli uomini). In altre parole, è un divinizzare le attività occupazionali elevandole all’ordine della grazia. Come? Perseguendo il finis operis, la perfezione dell’opera in sé, e ordinando quest’ultima secondo il finis operantis, cioè la motivazione soprannaturale. Per l’unione del cristiano con Cristo il lavoro diventa opera di Dio, operatio Dei, opus Dei e Dio stesso può contemplarla (“Dio ha guardato il lavoro delle mie mani”: Gen. XXXI, 42). In questo modo le strutture della società possono essere informate dal di dentro con lo spirito di Cristo[10].

Santificare se stessi nel lavoro significa, per il Beato Josemaría Escrivá, incontrare Cristo nel lavoro come luogo di vita ordinaria e come materia da santificare in modo immediato e diretto. “In tutto lo sconfinato panorama del lavoro, Dio ci aspetta ogni giorno. Sappiatelo bene: c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca ad ognuno di voi scoprire”[11]. Santificare se stessi vuol dire da un lato, lavorare in modo eticamente retto, che abbia riguardo all’onestà, alla lealtà, alla giustizia e alle altre virtù; dall’altro, e insieme, scoprire questo “qualcosa di divino” che non è collocato fuori del mondo, o in un orizzonte lontano che esula dal proprio lavoro, bensì sta proprio nel cuore della stessa attività di lavoro: “lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo”[12].

Si tratta di una visione che non è compresa da chi ritiene che il lavoro quotidiano sia soltanto un affare noioso e deprimente, oppure che sia un’attività talmente difficile da essere svolta secondo onestà, giustizia, virtù, da dover essere abbandonata ad altri (al “mondo” come luogo di perdizione), perché chi vuole incontrare Dio lo deve fare fuori del mondo. Al contempo, risulta ben chiaro che si tratta di una visione agli antipodi di certe correnti di origine protestante, per le quali il lavoro è essenzialmente strumento, che deve confrontarsi con il proprio successo o insuccesso, laddove il lavoro è segno di salvezza se porta ricchezza e profitto, mentre è segno di perdizione se non porta ricchezza e ascesa sociale. Al contrario, per Josemaría Escrivá la ricchezza e il successo sono elementi del tutto secondari, da non disprezzare (perché positivi in se stessi), ma certo da non considerare né come fini a se stanti né come segni del destino nella propria relazione con Dio.

Santificare gli altri attraverso il lavoro significa aprire il lavoro alla sua valenza inter-umana (apostolica), al fatto che, se ben eseguito e vissuto, esso può diventare offerta gradita a Dio che ci permette di collaborare all’opera redentrice di Cristo, ed è anche testimonianza attiva, esempio positivo che si traduce in un aiuto concreto ed efficace per chi collabora o vede i risultati del lavoro. Una testimonianza che, lungi dall’essere semplice compresenza passiva, comporta una relazione di amicizia e di confidenza attraverso la quale diventa possibile propiziare l’incontro dei colleghi di lavoro con Cristo.

Altri hanno già rilevato l’influenza che la concezione di Josemaría Escrivá ha avuto sul Concilio Vaticano II e in specifico sulla nuova visione del laicato[13]. Si tratta di una concezione che solo da pochi anni ha cominciato a diffondersi e ad esercitare il suo positivo influsso nella nostra società. A molti è ancora sconosciuta. E vale perciò la pena di sottolineare che lo spirito dell’Opus Dei sul lavoro si colloca nel cuore della visione propriamente laicale in senso cattolico del mondo: non è una forma aggiornata o moderna di spiritualità religiosa (quella che vede il cristiano come caratterizzato da uno status e/o da una consacrazione particolare) e non è una mondanizzazione o dissacralizzazione dell’ideale monastico (una sorta di ultimo stadio di una parabola discendente dell’ideale ascetico che diventerebbe sempre meno rigoroso). E’ invece l’espressione di uno spirito di genere proprio (sui generis), quello laicale, che richiede il rigore dei primi cristiani e insieme richiama quel senso di “stare nel mondo” — con una cittadinanza insieme intra e ultraterrena — che si può rintracciare nella Lettera a Diogneto del IIº secolo D.C. e che complesse vicende storiche e culturali, durate ben diciassette secoli, hanno obliterato.

3.2. In questo modo di pensare e vivere il lavoro, secondo una spiritualità che innesta il divino sull’umano, possiamo così sintetizzare ciò che si guadagna.

Innanzitutto, la risoluzione dell’ambivalenza (che spesso si configura come antitesi, come si diceva all’inizio) fra esaltazione e svilimento del lavoro. Tutto il lavoro, poiesis (attività spontanea) e ergon (attività finalizzata con sforzo), purché visto e vissuto nell’ottica della compartecipazione ad un progetto che trascende i singoli individui e indica il loro bene comune (in termini teologici, la partecipazione all’opera creatrice e salvifica di Dio), è di per sé positivo per la persona umana. Esso non va né sopravvalutato né sottovalutato, e il criterio per la sua giusta valutazione (quindi per il tipo e grado di coinvolgimento e di distacco che richiede) sta appunto nel significato che esso ha per l’agente umano.

Poi, l’intima relazionalità del lavoro: il lavoro non è solo relazione alle cose (all’oggetto materiale), ma è relazione al soggetto che lo svolge e relazione agli altri (dato che il lavoro è sempre attività con altri e/o per altri, anche se solo indirettamente).

Ancora, la priorità del senso del lavoro rispetto alle sue caratteristiche organizzative e strumentali.

E tutto ciò viene inquadrato nella necessaria armonia fra i tre piani fondamentali dell’esistenza umana, cioè il naturale, l’artificiale (lavoro in senso stretto) e il significato ultimo dell’esistenza (il fine soprannaturale). In tal modo unendo, come in un intreccio, la dimensione orizzontale del lavoro (nella fratellanza e cooperazione fra gli uomini) e la sua dimensione verticale (soprannaturale). Il lavoro diventa così lavoro dei figli di Dio.

Lo spirito dell’Opus Dei si colloca, dunque, pienamente nel solco della tradizione teologica cattolica, di cui risolve alcune fondamentali problemi, rimasti in certi momenti storici nell’ambiguità. In ogni caso, non può essere in alcun modo confuso con una forma di etica intra-mondana del lavoro. Il protestantesimo ha espresso un’ascetica del lavoro che sta agli antipodi dello spirito dell’Opus Dei. Quest’ultimo propone un’ascetica che non dipende da una normatività astratta e impersonale (ossia da un’eticità esterna e coercitiva, quale la ritroviamo ad esempio in Calvino), né si misura con i propri risultati materiali (secondo quella banalizzazione che ha trasformato l’etica protestante in etica del successo), ma radica nella dignità della persona umana, nella sua soggettività (come sinergia fra il cuore e la ragione) e rimane ben centrata sul senso ultra-mondano dell’esistenza. Se vi possono essere talune somiglianze per quanto concerne l’appello al sacrificio, al lavoro come via e mezzo di esercizio delle virtù, tuttavia questo avviene in un contesto e con fini assolutamente diversi dall’etica protestantica: il contesto è quello dei figli di Dio e i fini sono la santificazione del lavoro, di se stessi e degli altri, non quello della ricchezza, né come segno di salvezza né come strumento di successo nel mondo.

Guardare allo spirito dell’Opus Dei a riguardo del lavoro può aprire uno spiraglio ai dilemmi del mondo contemporaneo. La stessa ricerca sociologica, quella che indaga i confini e le intersezioni fra attività professionali, organizzazione di impresa ed etica religiosa (in accordo con l’impostazione che Weber ha dato al rapporto fra l’economia e le grandi religioni mondiali), mostra oggi il bisogno della nostra società di muoversi in questa direzione per superare le distorsioni introdotte con l’etica protestante e con i suoi esiti autodistruttivi.

4. Verso una nuova etica del lavoro

4.1. Sia l’ethos capitalistico-borghese sia l’ethos marxista sono oggi in profonda crisi. Ne vengono meno le basi di legittimazione in tutti i sensi, sia quanto all’organizzazione del lavoro, sia quanto alle premesse filosofiche, antropologiche e culturali del loro progetto di società.

Diviene così più evidente l’importanza di leggere la problematica del lavoro e di orientare la ricerca verso un nuovo quadro concettuale. Alla base di tale quadro concettuale c’è il significato etico del lavoro come premessa per la sua valorizzazione sul piano economico, per la sua regolazione politica, per le modalità di configurare l’organizzazione lavorativa (la divisione dei compiti e delle funzioni, gli organigrammi, la rotazione delle mansioni, la rete delle relazioni, ecc.). Lo spirito dell’Opus Dei non fornisce dei modelli pratici, ma solo una bussola per l’orientamento e un concreto orizzonte di senso che può ispirare la lettura e la pratica del lavoro.

Un rapporto autenticamente creativo con l’attività professionale, con il suo prodotto, con i compagni di lavoro, deve essere tale per cui ciò che il soggetto fa è direttamente finalizzato ai bisogni reali di coloro che fruiranno dell’oggetto (bene o servizio) prodotto. E’ quando viene meno tale connessione (fra attività lavorativa e bisogni effettivi significativi per il soggetto che la pone in essere) che non vi è più lavoro in senso umano, se è vero che il bisogno distingue il lavoro dal gioco, perché è vitale, necessario, essenziale ed è sentito e partecipato come tale.

4.2. Le principali direzioni verso cui tende l’organizzazione del lavoro post-industriale, caratterizzata da tendenze empiriche verso un’uscita di tipo organico e vitale sia dall’alienazione capitalistica sia da quella marxista, possono essere brevemente sintetizzate come segue.

a. La ripresa di importanza del concetto di valore d’uso del lavoro, e dei beni e servizi da esso prodotti, attraverso una ridefinizione dei bisogni propriamente umani e la configurazione di relazioni adeguate fra essi e i fini e i modi della produzione economica. Cosicché lo scambio di lavoro (come attività e come prodotto) possa divenire realmente un “fatto sociale totale”, fornito cioè di un significato che è insieme sociale, morale, giuridico, economico, utilitario e affettivo, e in ogni modo denso di contenuti che trascendono il piano della prestazione meramente strumentale.

b. Puntare su una organizzazione del lavoro che si configuri come attività organicamente combinata di soggetti liberi aventi una loro specifica vocazione professionale. Laddove l’interdipendenza fra i ruoli professionali deve essere effettiva (sinergica) e non mistificata né da falsi egualitarismi, né dall’ideologia della competizione antagonistica.

c. L’autorealizzazione della persona viene intesa come espressione di una soggettività personale che si dispiega nella piena integrazione umana con gli altri, fra natura e sovranatura, con la ricomposizione degli equilibri di solidarietà fra ambiti differenti di vita (famiglia, scuola, attività professionale, comunità locale), in maniera da superare le dilacerazioni che sono venute crescendo nella polarizzazione fra momento privato (della famiglia) e momento pubblico (dell’organizzazione politica ed economica).

Nella misura in cui l’uomo contemporaneo avverte la falsità dei miti illuministici dello Sviluppo e del Progresso che hanno guidato le illusioni della modernità, e ritorna attuale il tema di un rapporto più rispettoso e armonico con la natura, questo nuovo ethos diventa un’alternativa possibile. Proprio la rivalorizzazione del lavoro, come attività etica significante, può essere l’antidoto contro il modello di “crescita zero” che, lanciato tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, ha rappresentato e tuttora rappresenta un progetto utilitaristico-edonista (neo-malthusiano) di società, che vorrebbe vivere con il minimo sforzo e il massimo di godimento nel consumo. Questo modello è stato certamente sconfitto negli anni più recenti, ma tuttavia rimane come una tentazione permanente di chiusura (autopoietica) dell’Occidente su se stesso.

Diventa essenziale avvertire che, se lo sviluppo autentico dell’uomo è imprescindibile, non si può assolutamente rinunciare a realizzare una forma di organizzazione del lavoro in cui la persona umana sia immediatamente soggetto responsabile.

Al centro dell’idea dopo-moderna di società civile sta il valore del lavoro umano ben fatto, secondo un’ethos non più di dominio, ma di rispetto per la natura e per il creato. Si tratta di lasciarsi alle spalle l’ethos faustiano della modernità, e di vedere nel lavoro l’intima propensione umana alla socialità e l’apertura verso quei significati ultimi della vita che fanno sentire all’uomo la felicità di compartecipare all’opera della creazione.

Pierpaolo Donati

Professore Ordinario di Sociologia

Università di Bologna

[1] Cfr. M. Weber: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1967.

[2] Cfr. Lettera enciclica Laborem exercens (14-IX-1981).

[3] Cfr. F. Balbo: Opere 1945-64, Boringhieri, Torino 1966, p. 825.

[4] Cfr. Colloqui con Monsignor Escrivá, Edizioni Ares, Milano 1987, n. 55.

[5] Ivi.

[6] Colloqui..., op. cit., n. 59.

[7] Cfr. V. Tranquilli: Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, Ed. Ricciardi, Napoli 1979.

[8] Cfr. Josemaría Escrivá de Balaguer: Amici di Dio, nn. 57-58.

[9] Cfr. È Gesù che passa, nn. 45-49.

[10] Cfr. Lumen gentium, n. 31.

[11] Colloqui..., op. cit., n. 114.

[12] Ivi., n. 113.

[13] Cfr. J.L. Illanes: La santificazione del lavoro, Edizioni Ares, Milano 1981; AA.VV., L’Opus Dei nella Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1993.

Romana, n. 22, Gennaio-Giugno 1996, p. 122-134.

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