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Un anniversario ricco di significato

Quando si sonda la storia attraverso i ricordi dei protagonisti, ciò che si vede non ha mai l’aspetto di un reperto archeologico inerte. Anche se, per pudore o umiltà, essi si limitano a tracciare solo sobri cenni, quegli spiragli lasciano intravedere la vita, con il suo carico di lacrime e di sangue, di preghiera e di sacrificio.

Con termini simili il Beato Josemaría riassumeva l’itinerario giuridico dell’Opus Dei, dai primi passi fino all’erezione in Prelatura personale. Una tappa fondamentale di questo percorso è l’arrivo a Roma del Fondatore, il 23 giugno 1946, cinquant’anni fa. Un fatto storico la cui dimensione vitale, nelle scarne confidenze del Beato, ci parla appunto di fede e di sofferenza. Di un disegno della Provvidenza segnato dal sigillo della Croce.

Qualche mese prima egli aveva mandato a Roma don Alvaro del Portillo, ad avviare le pratiche per l’approvazione pontificia dell’Opus Dei. Lo sviluppo raggiunto dall’Opus Dei, oltre a rendere ormai insufficiente l’approvazione diocesana, richiedeva una forma giuridica che, assicurando l’unità e l’universalità del regime, ne tutelasse anche la secolarità, conformemente al carisma fondazionale. Ma il diritto fatica sempre ad adeguarsi alla vita. Qualcuno disse a don Alvaro che l’Opus Dei era arrivata con un secolo d’anticipo. L’orizzonte sembrava irrimediabilmente chiuso. Un’istituzione ecclesiale di natura secolare, formata da sacerdoti e laici, uomini e donne, chiamati con la medesima vocazione divina a cercare la santità in mezzo al mondo e nello svolgimento libero e responsabile delle proprie attività professionali, familiari e sociali: preparare il terreno per un fenomeno pastorale così nuovo presupponeva, prima ancora che la creazione di strutture giuridiche del tutto inedite, una maturazione della riflessione ecclesiologica a quel tempo ancora allo stadio germinale. Come ebbe a scrivere lo stesso Beato Josemaría qualche anno dopo: «L’Opera appariva, al mondo e alla Chiesa, come una novità. La soluzione giuridica che cercavo sembrava impossibile. Ma, figlie e figli miei, io non potevo aspettare che le cose diventassero possibili (...). Bisognava tentare l’impossibile. Sentivo l’urgenza di migliaia di anime che si donavano a Dio nella sua Opera, con la pienezza della nostra dedizione, per fare apostolato in mezzo al mondo»[1].

E così, sollecitato da don Alvaro nella certezza che la sua presenza fosse necessaria per accelerare i tempi degli uomini, il Fondatore venne a Roma. Esperienze passate gli avevano già insegnato come entrare in questo strano “gioco” che il Signore non di rado instaura con le creature scelte per una missione divina in favore della Chiesa: Dio chiede e, contemporaneamente, sembra impedire ciò che domanda; spinge e respinge insieme. Come dunque ottenere “l’impossibile”? L’unica arma era la preghiera.

La sola via allora percorribile per raggiungere l’Italia era il mare: da Barcellona a Genova e, da qui, in qualche modo, avanti fino a Roma. Mossosi da Madrid il 19 giugno, costellò il tragitto verso Barcellona di soste imploranti in santuari mariani: il Pilar, Montserrat, la Madonna della Mercede nel capoluogo catalano. «Venni a Roma con l’animo immerso nella Vergine Santissima, mia Madre, e con una fede ardente in Dio nostro Signore, che invocavo fiduciosamente dicendo: ecce nos reliquimus omnia, et secuti sumus te: quid ergo erit nobis? (Mt 19, 27). Che sarà di noi, Padre mio?»[2].

A quel tempo il Beato Josemaría era affetto da una forma molto grave di diabete ed il medico curante, prospettandogli i disagi di un viaggio in condizioni così precarie (si era appena conclusa la guerra), lo avvertì che si giocava la vita. Ma era necessario partire: «Volontà. — Energia. — Esempio. — Ciò che si deve fare, si fa... Senza tentennare... Senza riguardi», aveva scritto anni prima[3]. Ed ora non poteva concedersi dilazioni: «Che cosa volevo? Un posto per l’Opera nel diritto della Chiesa, in conformità con la natura della nostra vocazione e con le esigenze dell’espansione dei nostri apostolati; una sanzione piena del Magistero al nostro cammino soprannaturale, in cui trasparissero chiari e nitidi i tratti della nostra fisionomia spirituale. La crescita dell’Opera, la moltitudine di vocazioni di gente di tutti i ceti e le condizioni: tutto questo, che era una benedizione di Dio, mi spingeva a cercare con urgenza di ottenere dalla Santa Sede la piena approvazione giuridica del cammino aperto dal Signore»[4].

Salparono da Barcellona venerdì 21 giugno alle sei del pomeriggio e, dopo una traversata resa ancor più estenuante da dodici ore di violenta tempesta, approdarono a Genova attorno alla mezzanotte del 22. E, a tarda sera del giorno successivo, giunsero a Roma. Prese alloggio in piazza della Città Leonina, nella metà di un appartamento in subaffitto. La prima notte la trascorse sulla terrazza, in veglia di preghiera per il Papa delle cui stanze private poté vedere le finestre illuminate fino a tarda ora. Preghiera per le intenzioni di Pietro e per la Chiesa: che cosa, infatti, se non il desiderio di servire la Chiesa lo aveva condotto a Roma? In quella preghiera palpitava un elemento essenziale dello spirito che il Signore aveva voluto per la sua Opera: la romanità, il senso vivo e familiare della Chiesa. Non si sentiva come un estraneo che affronta l’ignoto, ma piuttosto come un figlio che, finalmente a casa, si appresta a confidare le proprie attese al Padre comune dei cristiani.

«Iddio ci ascoltò e scrisse, in questi anni romani, un’altra pagina meravigliosa della storia dell’Opera»[5]. Il 16 luglio il Beato Josemaría fu ricevuto in udienza privata da Pio XII, che lo incoraggiò a proseguire nelle trattative con i dicasteri competenti della Curia romana. Così, nel febbraio 1947, l’Opus Dei fu approvata come istituzione di diritto pontificio. Non era ancora l’approdo definitivo, ma un passo comunque importante e che, grazie allo sviluppo impresso dalla riflessione conciliare all’ecclesiologia e al diritto canonico, avrebbe in seguito consentito all’Opus Dei di raggiungere la configurazione giuridica desiderata dal Fondatore e già intravista nei suoi aspetti centrali fin dagli anni trenta.

Mons. Montini, allora Sostituto della Segreteria di Stato, fu tra i primi nella Curia romana ad intuire l’ampiezza delle prospettive di evangelizzazione racchiuse nello spirito dell’Opus Dei e la fecondità del suo messaggio di santificazione in tutti gli ambienti della società. Perciò, accogliendo con sincero affetto il Fondatore, il futuro Papa Paolo VI, pur consapevole dell’estrema povertà di quegli inizi, gli suggerì di stabilire in tempi brevi la Sede centrale a Roma. Cominciava la “storia romana” del Beato Josemaría.

Roma non rappresenta solo un periodo nella sua biografia: egli fu romano. Venne a Roma per restarvi. Non è un caso se le sue spoglie mortali riposano nell’Urbe. Romano perché cattolico. Romano perché la Chiesa ha il proprio Capo visibile a Roma. Romano perché l’Opus Dei, fin dal 1928, quando, appena venuta al mondo, altro non era che un piccolo seme gettato da Dio nel cuore del Fondatore, aveva già viscere universali: non circoscritta ad un’area geografica definita, non legata ad un particolare contesto culturale o a circostanze storiche determinate. Un messaggio senza limiti di spazio e di tempo, di nazione o di classe. Il Beato Josemaría si stabilì a Roma per restarvi e per potere così continuamente —romano sempre— spargere da Roma il seme del Vangelo in tutte le latitudini. Ciò che gli faceva ritenere indispensabile imprimere nell’Opus Dei il sigillo perenne della romanità era proprio il dinamismo evangelizzatore voluto da Dio fra le caratteristiche native della Prelatura, a garanzia della sua azione a sostegno dell’unità della Chiesa.

Descrivendo l’appassionato impegno con cui il Beato Josemaría volle essere sempre romano, il Card. Ruini, Vicario del Papa per la diocesi di Roma, ne ha evidenziato la fedeltà a Pietro e lo spirito universale[6]. Universalità e fedeltà; apertura di mente e di cuore, ma anche adesione rigorosa al fondamento dell’unità della fede: ecco le coordinate dell’autentica cattolicità. In un testo del Beato leggiamo: «Questa Chiesa Cattolica è romana. Io gusto il sapore di questa parola: romana. Mi sento romano, perché romano vuol dire universale, cattolico; perché così mi sento spinto ad amare teneramente il Papa, “il dolce Cristo in terra”, come piaceva ripetere a Santa Caterina da Siena (...). Io venero con tutte le mie forze la Roma di Pietro e di Paolo, bagnata dal sangue dei martiri, centro di espansione per tanti che hanno propagato nel mondo intero la parola salvifica di Cristo. Essere romano non racchiude nessun significato di particolarismo, bensì di ecumenismo autentico; presuppone il desiderio di allargare il cuore, di aprirlo a tutti con l’ansia redentrice di Cristo»[7].

Farsi autenticamente romani significa dunque dilatare i propri orizzonti fino ad abbracciare l’umanità intera: «Essere “cattolico” è amare la Patria senza lasciarsi superare da nessuno in questo amore. E, allo stesso tempo, è fare proprie le nobili aspirazioni d’ogni paese. Quante glorie della Francia sono glorie mie! Egualmente, molti motivi d’orgoglio dei tedeschi, degli italiani, degli inglesi..., degli americani, degli asiatici e degli africani, sono, anch’essi, mio vanto. — Cattolico! Cuore grande, spirito aperto»[8]. Un patrimonio spirituale che respinge qualsiasi rischio di provincialismo, perché sa che nella Chiesa non esistono stranieri e non si può separare il centro dalla periferia. Essa vive in ogni luogo con tutta la pienezza della propria realtà salvifica. Basta questo accenno per intuire come la retta comprensione della romanità abbia un’incidenza immediata sulla vita della Chiesa. Così, la dottrina della chiamata universale alla santità, tanto cara al Beato Josemaría e proclamata dal Concilio Vaticano II, riconducibile anch’essa entro l’alveo dell’universalità della Chiesa, si traduce nella comune coscienza della pari responsabilità di tutti i fedeli, sacerdoti e laici, nell’unica missione salvifica della Sposa di Cristo.

Ma la cattolicità è indisgiungibile dall’apostolicità della Chiesa. Sicché l’impegno ad essere romano comporta anche il dovere di vegliare sulla sua unità, promuovendo l’adesione di tutti i fedeli ai legittimi Pastori, perché proprio nell’unità sta la garanzia più solida contro il settarismo ed il particolarismo.

Roma è il nodo di questa formidabile sintesi. L’anniversario dell'arrivo a Roma del Fondatore ci deve rammentare che la storia della Prelatura dell’Opus Dei dovrà proseguire sui binari, da lui tracciati, di fedeltà alla Chiesa, di amore al Papa, di opere di servizio per tutte le anime, senza distinzioni o preferenze.

[1] Beato Josemaría Escrivá, Lettera, 25-I-1961, n. 19.

[2] Ibidem, n. 18.

[3] Cammino, n. 11.

[4] Lettera, 25-I-1961, n. 18.

[5] Ibidem.

[6] Card. Camillo Ruini, Un “santo romano”, in “Avvenire, Milano 10-V-1992.

[7] Omelia “Lealtà alla Chiesa”, 4-VI-1962, in La Chiesa nostra Madre, n. 28; Ed. Ares, Milano, 1993.

[8] Cammino, n. 525

Romana, n. 22, Gennaio-Giugno 1996, p. 5-9.

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