envelope-oenvelopebookscartsearchmenu

Il Vangelo della vita

Due sono i livelli ai quali si pone il messaggio della recente enciclica Evangelium vitæ: quello immediato, della valutazione morale dei comportamenti, e quello di fondo, della riflessione sul valore della vita umana nel disegno di Dio. Soltanto mantenendoli uniti si può comprendere non solo il magistero morale della Chiesa su questioni come l’aborto, l’eutanasia, le tecniche di riproduzione artificiale, ecc., ma anche e soprattutto il vero problema che è in gioco. Cioè l’uomo. Ancora una volta la Chiesa «svela all’uomo il senso della sua propria esistenza, vale a dire la verità profonda sull’uomo»[1].

Quanto agli aspetti morali delle pratiche prese in esame, il testo ribadisce, dopo un’analisi attenta ed estremamente rigorosa della loro natura, la valutazione morale che il Magistero della Chiesa ne ha sempre fornito. Perciò, anziché ripercorrere le tematiche oggetto dell’enciclica, ci limiteremo a rilevarne la lezione metodologica: lezione non solo di rigore concettuale, ma al tempo stesso di coerenza o, meglio, di quell’onestà intellettuale e morale che è fattore indispensabile dell’autentica compassione per le sofferenze dell’uomo.

Ecco il punto fermo cui si áncora tutta la trattazione: «I precetti morali negativi, cioè quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione, hanno un valore assoluto per la libertà umana: essi valgono sempre e comunque, senza eccezioni» (n. 75). Dal che consegue che «il comandamento “non uccidere” ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente (...). La scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come fine, né come mezzo per un fine buono» (n. 57). Anche il lettore meno avvezzo alle distinzioni dei professionisti della teologia, purché capace di cogliere il testo nel suo significato più ovvio, avverte di trovarsi di fronte ad una puntuale riconferma del Magistero perenne della Chiesa.

Sentenze come quelle che seguono non lasciano spazio a dubbi di sorta: «Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale» (n. 57). «Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi (...), dichiaro che l’aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente» (n. 62). «In conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana» (n. 65). A ciascuno di questi pronunciamenti segue l’enunciazione del contesto in cui si inserisce e dal quale deriva la portata che il Santo Padre intende attribuire al documento, cioè il grado di adesione richiesto al credente: «Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale» (n. 62). In altre parole, l’insegnamento morale dell’enciclica, frutto della collaborazione dell’episcopato del mondo intero (cfr. n. 5), non fa che riproporre, arricchendolo di argomentazioni adeguate alle dimensioni attuali del problema, il Magistero universale della Chiesa.

Tuttavia il rigore concettuale non va inteso come un giudizio che ignora i drammi umani sottostanti alle decisioni contro la vita. Il Santo Padre non intende giudicare né tanto meno condannare nessuno. Dopo aver rilevato come la coscienza individuale stenti oggi, sotto la pressione di vasti condizionamenti culturali e sociali, a percepire la distinzione tra il bene e il male, egli precisa che tutto ciò non può non attenuare la responsabilità soggettiva (cfr. nn. 4 e 12). Se quindi è vero che sarebbe inumana ogni insensibilità nei confronti di chi versa in tali situazioni, nondimeno, una volta messa a fuoco la sostanza di queste pratiche (l’uccisione dell’innocente), ci sembra impossibile negare che, dal punto di vista oggettivo, esse costituiscono atti di effettiva violenza ai danni dei più deboli. Si provano i brividi a riflettere su una delle considerazioni che con maggiore frequenza ricorrono nell’enciclica: è in corso una vera «guerra dei potenti contro i deboli» (n. 12). E quest’altra annotazione delinea il profilo più oscuro dell’intera questione: «Alla radice di ogni violenza contro il prossimo c’è un cedimento alla “logica” del maligno, cioè di colui che è stato omicida fin da principio» (n. 8).

Fra i maggiori pregi di questo documento pontificio sta l’impegno a sviluppare l’analisi in tutta la sua ampiezza, cioè tanto sul versante etico quanto su quello sociale, giuridico, filosofico e teologico. Dicevamo, in apertura, che solo seguendo la progressione dal livello più immediato a quello che sta sullo sfondo dell'Evangelium vitæ si può captare l’intera posta in gioco. Seguiamo dunque il testo nella disamina dei presupposti ideologici sottesi alla giustificazione degli attentati contro la vita: qui, da qualunque angolatura si consideri il problema, l’errore nelle premesse porta al rovesciamento dei risultati. La concezione individualistica della libertà si muta nell’imposizione della volontà dei più forti (cfr. n. 19). Il relativismo etico, propugnato come garanzia di tolleranza, trapassa nell’arbitrio, giacché anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita, diviene negoziabile ed esposto a venir conculcato ad ogni passo.

Particolare attenzione meritano i punti dell’enciclica dedicati ad illustrare la distorsione cui assistiamo del diritto. Sua premessa è l’esasperazione della soggettività, con la conseguente tendenza a riconoscere piena titolarità di diritti solo a chi presenta una certa capacità di sussistenza autonoma e la parallela esclusione dei soggetti strutturalmente deboli (il nascituro e il morente): «È, quindi, la forza a farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale» (n. 19). La conclusione appare inoppugnabile: «Questo è l’esatto contrario di quanto ha voluto storicamente affermare lo Stato di diritto». Infatti, «la teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l’uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno» (ibid.). Una volta scardinato questo principio, e nella pratica negata l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge, è il diritto come tale che viene meno. «Lo Stato degenera in Stato tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli (...). Siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l’ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi (...). Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un’autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale» (n. 20).

Come si vede, dall’esame dei singoli casi umani la discussione si innalza alla sorte della società democratica in quanto tale. Al rapporto fra legge civile e legge morale. La posizione di chi sostiene che in democrazia l’ordinamento giuridico dovrebbe limitarsi a recepire le convinzioni della maggioranza, e costruirsi solo sui valori morali ammessi dai più, conduce a delegare alla legge civile la responsabilità morale della persona (cfr. n. 69). Come non denunciare l’incoerenza di chi, in nome della tolleranza, afferma in stretta successione che in una società pluralistica non si deve imporre una scelta morale a svantaggio delle altre e che, per questa stessa ragione, a ciascun individuo va garantita assoluta libertà di disporre della propria vita e di quella di chi non è ancora nato? (cfr. n. 68).

Il rimedio indicato da Giovanni Paolo II centra il cuore del problema: fondare i diritti della persona su una solida base razionale, ristabilendo il legame fra libertà e verità oggettiva (cfr. n. 96). «Urge dunque, per l’avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l’esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere» (n. 71).

La stampa ha dato ampio rilievo alla confutazione operata dal Santo Padre della palese inversione oggi in atto nella democrazia fondata sul relativismo etico. Un tema, questo, che ci sembra richiedere un’eco ben più duratura: l’ordinamento democratico dello Stato è parte del bene comune, ma «non ci può essere vera democrazia, se non si riconosce la dignità di ogni persona e non se ne rispettano i diritti» (n. 101). E ancora: «La democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale” non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale (...). Il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del “bene comune” come fine e criterio regolativo della vita politica (...). Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli “maggioranze” di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva (...). Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi» (n. 70).

Da questa rigorosa concezione dei fondamenti dell’ordine giuridico e delle loro inevitabili ripercussioni sociali promana, fra l’altro, una conseguenza su cui il Papa si sofferma con indicativa insistenza: «Ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la loro stessa ragion d’essere e rimane per ciò stesso destituito d’ogni valore giuridico» (n. 71). «Le leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica (...). Quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante» (n. 72). «L’aborto e l’eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza» (n. 73).

La posta in gioco, insomma, è altissima. La “cultura della morte” minaccia l’uomo: la vita dei singoli e della società. L’orizzonte presente è l’autodistruzione, esito ultimo del rifiuto della creazione. Il male non può intendersi come semplice infrazione di un codice astratto di norme morali. Chi lo compie ferisce se stesso, oltre ad offendere Dio e recare violenza all’umanità come tale. E questo vale per tutti gli aspetti della “cultura di morte” cui l’enciclica estende la propria attenzione.

«Quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell’uomo viene minacciato» (n. 22). La fede eleva ad un grado di comprensione infinitamente più alto le certezze della ragione naturale circa il valore della vita. Il secondo capitolo dell’enciclica, con l’ampliamento della prospettiva dal terreno etico a quello teologico, offre gli spunti più importanti per il lavoro di persuasione —nel senso più proprio del termine, come raggiungimento di una consapevolezza piena e fondata— condotto dal Santo Padre. «Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell’amore del Padre, manifesta come l’uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita» (n. 25). Contemplando il mistero della donazione d’amore di Cristo, il credente scopre «la dignità quasi divina di ogni uomo» (ibid.). Da qui, dal Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, prende le mosse la meditazione del Papa sul Vangelo della vita. La sua sacralità, la sua inviolabilità, la dignità della persona come assoluto morale (cfr. nn. 42-46 e 52-53), appaiono in tutto il loro rilievo alla luce della rivelazione di Cristo, Verbo della vita[2].

Io sono la via, la verità e la vita[3]. Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza[4]. In Cristo partecipiamo alla vita stessa di Dio: «La vita che Dio dona all’uomo è ben più di un esistere nel tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è germe di una esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo» (n. 34). Ciò che il mondo non può dare —la vittoria sulla morte, la trasformazione della sofferenza in premio— ci viene elargito gratuitamente da Cristo. In Lui, la vita dei figli di Dio è già vita eterna. Ecco perché, pur con tutte le prove che la scandiscono, «la vita è sempre un bene» (n. 34) e assurge a «luogo della manifestazione di Dio, dell’incontro e della comunione con Lui» (n. 38).

L’ultimo capitolo chiama tutti i cristiani ad operare, in sé e nella società, al servizio della vita: i cristiani sono infatti «il popolo della vita e per la vita» (n. 78). Ad essi incombe il dovere di annunciare tutte le conseguenze del Vangelo della vita: l’inaccettabilità di ogni sua violazione, la responsabilità di proteggerla e promuoverla, il valore della sessualità e della procreazione, la valenza salvifica della sofferenza, la necessità di ordinare la scienza e la tecnica al servizio dell’uomo e del suo sviluppo integrale (cfr. n. 81). L’appello di Giovanni Paolo II si specifica in molteplici istanze operative: prodigare se stessi al servizio dell’uomo nell’esistenza quotidiana; intervenire nella vita sociale, nell’assistenza sanitaria, nella politica allo scopo di promuovere leggi giuste e favorire la centralità della famiglia; sensibilizzare l’opinione pubblica sull’indilazionabilità di un’economia di condivisione dei beni anche a livello internazionale, per affrontare senza soprusi il problema demografico (cfr. nn. 86-96). Ma la condizione discriminante per una reale efficacia di questa fattiva opera di evangelizzazione risiede nell’ammonimento a coltivare uno sguardo contemplativo, che «vede la vita nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità», ed è capace di accoglierla come un dono, scoprendo in tutte le sue espressioni il riflesso del Creatore (n. 83). Ecco, in sintesi, la consegna rivolta ai cristiani: insegnare all’umanità, con l’esempio, a venerare ed onorare la dignità di ogni uomo (ibid.).

Si potrebbe obiettare con una domanda: se, «di fronte alla norma morale che proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno» (n. 57), quella consegna obbliga a qualunque costo. Ma, si può davvero chiedere a tutti di essere eroici? La risposta è: tutti debbono agire per ciò che sono: uomini. Attentare alla vita è tradire la propria umanità. Fedeltà all’uomo e fedeltà a Dio qui coincidono. La preghiera, allora, diviene la prima arma del Vangelo della vita. Vorremmo soltanto, per concludere, ricordare l’appassionata sicurezza con cui il Beato Josemaría Escrivá ripeteva che fedeltà a Dio e felicità sono sinonimi: «Ne sono sempre più persuaso: la felicità del Cielo è per coloro che sanno essere felici sulla terra»[5].

[1] Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 41.

[2] Cfr. 1 Gv 1,1.

[3] Gv 14,6.

[4] Gv 10,10.

[5] Forgia, n.1005.

Romana, n. 20, Gennaio-Giugno 1995, p. 7-13.

Invia ad un amico