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Nell'apertura della seconda sessione del Congresso Internazionale di Teologia Morale, organizzato a Roma nei primi giorni di aprile dal Centro Accademico Romano della Santa Croce e dall'Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famig

MAGISTERO DELLA CHIESA E TEOLOGIA MORALE

1. In apertura di questa seconda giornata del Congresso vorrei fare alcune considerazioni sul ruolo specifico svolto dal Magistero della Chiesa nella Teologia Morale, argomento di estrema importanza e nel contempo di notevole complessità. Accanto alle tematiche specificamente morali, sono presenti in questo tema questioni filosofiche, come, ad esempio, la difficoltà, vivamente sentita in alcuni ambienti, nell'armonizzare la dimensione storica dell'uomo con la sua capacità di arrivare alla conoscenza della verità. La situazione di malessere e di sconforto lasciata nell'animo europeo dal crollo della pretesa hegeliana di raggiungere un sapere assoluto non è estranea alla rinascita di istanze filosofiche che insistono, non sempre nella maniera giusta, sull'umana finitezza. Nel presente argomento sono presenti altresì aspetti riguardanti la teologia fondamentale, l'ecclesiologia e l'ermeneutica biblica.

2. La missione del Magistero della Chiesa è quella d'interpretare la Parola di Dio con l'autorità di Gesù Cristo e l'assistenza dello Spirito Santo[1]. La Parola divina, al cui servizio opera il Magistero, costituisce quella Rivelazione che Dio ha fatto di Sé e del mistero della Sua Volontà, affinché gli uomini raggiungano la salvezza eterna[2]. Vi è infatti un intimo rapporto tra l'ascolto della Parola di Dio e la felicità definitiva dell'uomo: Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano[3]; com'è noto, "osservare" —nell'originale greco— significa conservare in sé, custodire, ma anche mettere in pratica, compiere. Perciò, ascoltare la Parola divina, che rende gli uomini salvi o beati, significa avere la fede (conservare la Parola dentro di sé) e inseparabilmente avere le opere (mettere in pratica la Parola), perciò la fede, se non ha le opere, è una fede che non salva[4], che non raggiunge la finalità della Rivelazione divina. Secondo la definizione del Concilio Tridentino, per la salvezza non è sufficiente credere nel Vangelo, ma anche compiere i comandamenti di Dio e della Chiesa[5].

Il fatto che la Rivelazione ha come finalità la salvezza degli uomini per la gloria di Dio[6], ci aiuta a comprendere che la Rivelazione ci trasmette anche norme morali. Innanzitutto quelle specificamente cristiane, riguardanti cioè realtà in se stesse soprannaturali, la cui rivelazione era ovviamente necessaria, dopo la chiamata di Dio all'uomo a partecipare alla natura divina[7]. Ma anche verità etiche che l'uomo potrebbe conoscere mediante la sola ragione naturale[8]. Queste verità d'altronde non sono semplicemente verità cosiddette trascendentali, riguardanti cioè atteggiamenti etici quali la generosità, l'autenticità o la solidarietà, ma anche le cosiddette verità categoriali, attinenti contenuti morali concreti.

Di conseguenza, la missione del Magistero della Chiesa include l'insegnamento di queste verità morali, al fine di trasmettere ai fedeli la pienezza della chiamata evangelica. In questa missione rientra l'insegnamento di tutto l'ordine morale naturale, anche delle esigenze etiche non rivelate, proprio perché il loro adempimento è necessario alla salvezza. Sono ben conosciute le parole di Paolo VI in proposito: "Nessun fedele vorrà negare che al Magistero della Chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale. E' infatti incontestabile —come hanno più volte dichiarato i nostri predecessori—, che Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli Apostoli la sua divina autorità e inviandoli a insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi e interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale. Infatti anche la legge naturale è espressione della volontà di Dio, l'adempimento fedele di essa è parimenti necessario alla salvezza eterna degli uomini"[9].

3. Le difficoltà emerse in alcuni ambienti per capire adeguatamente il ruolo che spetta al Magistero della Chiesa in campo morale riguardano soprattutto quelle norme etiche che si riferiscono ai contenuti concreti dell'agire. Queste difficoltà hanno la loro origine nell'intrecciarsi di problemi di diversa natura. Qui vorrei accennare soltanto a due, che hanno fra loro un certo rapporto.

Da una parte si afferma che compete al sapere umano, filosofico e scientifico-positivo, stabilire i contenuti concreti che l'istanza morale assume in ogni momento e circostanza, giacché si tratterebbe di norme che in fondo sono esclusivamente umane. Dall'altra, l'affermazione del carattere umano di quelle norme significa per alcuni che tali norme sono necessariamente mutevoli, poiché sia la natura dell'uomo, sia la sua conoscenza sarebbero soggette ad una continua evoluzione storica, sociale e culturale.

In base a queste considerazioni, il ruolo del Magistero nei riguardi della morale viene limitato da alcuni in un doppio senso. Si afferma infatti che gli insegnamenti della Chiesa concernenti aspetti morali concreti valgono quanto le motivazioni umane —filosofiche o scientifiche— addotte come prova della dottrina proposta. E si sostiene, inoltre, che un insegnamento infallibile e irriformabile non può vertere sulle norme morali concrete, ma soltanto sui principi più generali.

Queste idee vengono spesso assunte come chiave di lettura non soltanto del Magistero dei secoli trascorsi, ma anche della Sacra Scrittura. Le norme etiche contenute nel testo sacro non potrebbero essere considerate come un insegnamento divino sempre valido, ma avrebbero bisogno in ogni caso di una trasposizione ermeneutica, che tenga conto del loro carattere originario di orientamenti etici mediati dalla cultura dominante, e quindi del loro condizionamento storico. In questo modo il cristiano è privato di ogni riferimento nel suo agire. La Parola evangelica non è più la spada a due tagli che penetra nel cuore e scinde il bene dal male, ma diventa un appello alla generosità senza contenuto concreto e, dunque, incapace di incidere sugli uomini e sulla realtà.

Dei presupposti filosofici che stanno alla base di queste obiezioni alla competenza del Magistero in materia morale, si è trattato a lungo ieri, nella sessione dedicata ai problemi di fondazione e di metodo. E' stato giustamente rilevato come non sia coerente con la vera identità dell'uomo una fondazione di tipo "naturalistico", intesa come esecutività puramente obbedienziale, e si è sottolineato allo stesso tempo che un'autonomia non riferita a Dio né a Cristo si rivela insostenibile e inconclusiva. Sui problemi riguardanti la storicità dell'uomo, si è parlato negli interventi sui modelli analitici, storicistici e trascendentali. E probabilmente se ne continuerà a parlare nei prossimi giorni.

4. Certamente il teologo, ed in generale il cristiano, dev'essere cosciente della realtà della storia e della sua mutevolezza, e quindi della necessità di ricollegarsi a quel momento originario che ci è offerto nella Sacra Scrittura, sulla quale si deve fondare la Teologia Morale[10]. Questo, però, non può assolutamente significare una minore attenzione e fedeltà al Magistero. Infatti, la necessità di portare maggiormente alla luce il fondamento biblico della morale richiede anche uno studio sempre più profondo della Tradizione viva della Chiesa, nella quale e dalla quale va letta ed interpretata la Scrittura[11]. "La Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio —insegna il Vaticano II—, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere"[12]. La fedeltà del moralista al Magistero viene appunto richiesta da questa connessione costitutiva.

E' importante tener presente che questo Magistero è una realtà viva, com'è viva la Tradizione di cui esso è organo ed allo stesso tempo interprete autentico ed infallibile, e che è fondato non sull'umana sapienza ma sulla azione dello Spirito Santo attraverso la successione apostolica: successione dagli Apostoli ai Vescovi e da San Pietro al Vescovo di Roma; successione che —come spiega il Cardinale Ratzinger— è la forma sacramentale della presenza unificatrice della Tradizione[13]. Dunque, la fedeltà al Magistero è parte integrante e costitutiva della fedeltà alla Tradizione e alla Sacra Scrittura: al depositum fidei nella sua integrità. Tale fedeltà è perciò condizione e garanzia di quella "fondamentale unità nell'insegnamento della Fede e della Morale"[14], che, come ricordò Giovanni Paolo II nell'Enciclica Redemptor hominis, dev'essere il fine proprio del lavoro teologico al di sopra della legittima pluralità esistente nelle questioni opinabili[15].

Com'è noto, il Concilio Vaticano II insegna che l'oggetto dell'infallibilità del Magistero "si estende tanto quanto il deposito della divina Rivelazione, che deve essere scrupolosamente custodito e fedelmente esposto"[16]. Quindi non soltanto il contenuto formale e virtuale della Rivelazione è oggetto possibile d'insegnamento infallibile, ma anche tutto quanto sia richiesto per custodire santamente ed esporre fedelmente il deposito rivelato, come fu spiegato ufficialmente dalla Commissione Teologica del Concilio Vaticano II in riferimento al citato testo della Lumen gentium: "obiectum infallibilitatis Ecclesiae, ita explicatae, eandem habet extensionem ac depositum revelatum; ideoque extenditur ad ea omnia, et ad ea tantum, quae vel directe ad ipsum depositum revelatum spectant, vel quae ad idem depositum sancte custodiendum et fideliter exponendum requiruntur"[17].

In seguito, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarò: "Secundum doctrinam catholicam, infallibilitas magisterii Ecclesiae non solum ad fidei depositum se extendit, sed etiam ad ea, sine quibus hoc depositum rite nequit custodiri et exponi. Extensio vero illius infallibilitatis ad ipsum fidei depositum, est veritas quam Ecclesia inde ab initiis pro comperto habuit in promissionibus Christi esse revelatam"[18]. Di conseguenza, non può essere negato che l'infallibilità del Magistero si estenda anche alle norme particolari della morale, poiché il rapporto di queste ultime con la salvezza dell'uomo è innegabile, ed è anche innegabile la connessione necessaria tra la salvezza e la missione della Chiesa di salvaguardare il deposito della fede e tutti quegli aspetti "sine quibus hoc depositum rite nequit custodiri et exponi".

5. Anche se significa ritornare su questioni già accennate in precedenza, mi sembra opportuno insistere sul fatto che la distinzione tra natura metafisica e natura storica, che porta a negare l'esistenza di norme morali concrete che trascendono la storia, non può essere accettata né dal punto di vista teologico né da quello filosofico.

La natura dell'uomo esiste sempre nella storia ed è una realtà allo stesso tempo metafisica. La natura umana è "storica" perché l'uomo è libero per natura, e con la sua libertà fa la storia (la propria storia personale, in primo luogo, e contribuisce alla configurazione della storia generale). Ma non tutte le dimensioni della persona umana sono permeate allo stesso modo e con la stessa profondità dal suo essere storico: esistono sfere della persona e della sua vita che permangono nel corso dello sviluppo storico e sulle quali la ragione può pronunciare parole definitive. E' per questo che esistono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto, indipendentemente dalle circostanze[19]: ed è anche per questo che può esistere un Magistero morale valido per ogni epoca.

6. La certezza offertaci dal Magistero non può tuttavia esimerci dalla riflessione personale, teologica e filosofica, allo scopo di mostrare agli uomini del nostro tempo la ragionevolezza, l'intellegibilità e la profonda umanità delle esigenze etiche. Vorrei porre l'accento in modo particolare sull'importanza della riflessione antropologica. Come disse Giovanni Paolo II, "la relazione 'morale-uomo' è importante nei due sensi: voglio dire che non soltanto non si può comprendere e interpretare la morale senza sapere chi è l'uomo, ma anche non si può neppure capire e spiegare l'uomo senza rispondere con esattezza alla domanda: 'Che cosa è la morale?'. Sono due realtà connesse, essenzialmente correlative, che interagiscono l'una sull'altra"[20]. Così il cristiano sarà in grado di apportare al mondo tutta la forza proveniente dal Vangelo, giacché, come scriveva con incisività il Fondatore dell'Opus Dei, "è la fede in Cristo morto e risorto, presente in tutti i momenti della vita, che illumina le nostre coscienze stimolandoci a partecipare con tutte le forze alle vicissitudini e ai problemi della storia umana"[21].

Lavorando in questa prospettiva, come si è fatto e si farà nelle prossime sessioni di questo Congresso, sarà possibile formulare i principi etico-antropologici con un'ampiezza tale da offrire risposte coerenti con la Rivelazione ai nuovi ed assillanti problemi posti dai rapidi mutamenti scientifici, tecnici e sociali, caratteristici del nostro tempo.

[1] Cfr. Conc. Vaticano II, Cost. dog. Dei Verbum, n. 10.

[2] Cfr. ibidem, n. 2.

[3] Lc 11, 28.

[4] Cfr. Giac 2, 17.

[5] Cfr. Conc. di Trento, Decr. de iustificatione, can. 20: DS 1570.

[6] Cfr. Ef 1, 3-6.

[7] Cfr. 2 Pt 1, 4.

[8] Cfr. Conc. Vaticano I, Cost. dog. Dei Filius, cap. 2: DS 3005; Conc. Vaticano II, Cost. dog. Dei Verbum, n. 6.

[9] Paolo VI, Lett. Enc. Humanae vitae, 25-VII-1968, n. 4.

[10] Cfr. Conc. Vaticano II, Decr. Optatam totius, n. 16.

[11] Cfr., ad esempio, Sant'Ireneo, Adversus haereses, IV, 33, 8: PG 7, 1077.

[12] Conc. Vaticano II, Cost. dog. Dei Verbum, n. 10.

[13] Cfr. J. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, München 1982, pp. 251-263.

[14] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Redemptor hominis, 4-III-1979, n. 19

[15] Cfr. ibidem.

[16] Conc. Vaticano II, Cost. dog. Lumen gentium, n. 25.

[17] Acta Synodalia Sacr. Oecum. Conc. Vaticani II, II, III, 1, p. 251

[18] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Mysterium Ecclesiae, 24-VI-1973: AAS 65 (1973) p. 401.

[19] Cfr. Giovanni Paolo II, Es. Ap. Reconciliatio et Paenitentia, 2-XII-1984, n. 17.

[20] Giovanni Paolo II, in André Frossard dialoga con Giovanni Paolo II, Rusconi, Milano 1983, pp. 112-113.

[21] J. Escrivá de Balaguer, E' Gesù che passa, Ed. Ares, Milano 1973, n. 99.

Romana, n. 2, Gennaio-Giugno 1986, p. 95-98.

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