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Il Beato Josemaría Escrivá e il matrimonio: cammino umano e vocazione soprannaturale

Sant’Agostino, nel corso della sua lotta per la difesa del matrimonio dal pessimismo dei manichei, formulò la tesi secondo la quale il matrimonio è buono, poiché è opera di Dio, e la sua bontà si riassume essenzialmente nei “bona” o beni: la fedeltà, la prole e la indissolubilità.

Nel corso di 1500 anni, l’analisi dei “bona” non ha perduto rilevanza. Alcuni sostengono che la comprensione canonica del matrimonio, facendo leva particolarmente sull’aspetto di obbligo che implica ogni “bonum” e considerando principalmente le conseguenze giuridiche della loro esclusione, abbia contribuito non poco, col trascorrere dei secoli, ad oscurare la reale bontà di queste proprietà matrimoniali. Se anche fosse così, non sarebbe lecito accusare di questo cambiamento di accento Sant’Agostino, il quale non presenta i “bona” principalmente come obblighi, ma come valori, come benedizioni. «Queste benedizioni nuziali siano oggetto d’amore: la prole, la fedeltà, il vincolo indissolubile... Chi voglia lodare le nozze, elogi queste benedizioni nuziali»[1]. Per lui, ogni proprietà essenziale della società coniugale —l’esclusività, la permanenza, la procreatività— è un bene che conferisce dignità al matrimonio e dimostra con quanta profondità risponda alle aspirazioni innate della natura umana, che si può dunque gloriare di questa bontà: «Ecco il bene da cui il matrimonio riceve la sua gloria: la prole, la casta fedeltà, il vincolo indissolubile»[2].

Ognuno di questi elementi essenziali del matrimonio è un “quid bonum” —un bene: qualcosa di buono—, perché contribuisce notevolmente non soltanto al bene della società, ma anche al bene degli stessi sposi, mediante la realizzazione delle profonde aspirazioni dell’amore coniugale che li unisce.

Solamente se si recupera tale modo di pensare, si comprende come questi “beni” siano desiderabili, e pertanto è naturale desiderarli. È naturale perché corrisponde alla natura dell’amore umano. L’uomo trova un qualcosa di intimamente buono nell’idea di un amore: amore di cui egli è il destinatario singolare e privilegiato; che può possedere per tutta la vita; e mediante il quale, diventando co-creatore, può perpetuare se stesso (e, come vedremo, perpetuare più di se stesso). Proprio a causa della bontà che riscontra in questi beni, per l’uomo non è naturale temerli o escluderli, ma cercarli e possederli.

È ovvio che la fedeltà —nella scelta esclusiva dell’altra persona come sposo— sia un qualcosa di buono. “Tu sei unico per me”: ecco la prima affermazione davvero personalizzata dell’amore coniugale, eco delle parole rivolte da Dio ad ogni uomo, come si legge nel profeta Isaia: «Meus es tu!» — «Tu mi appartieni»[3].

Anche il bene dell’indissolubilità risulta chiaro: possedere un focolare ed un rifugio stabili; sapere che il reciproco appartenersi deve durare tutta la vita. Perciò Giovanni Paolo II parla dell’indissolubilità come di una realtà gioiosa che i cristiani devono proclamare di fronte al mondo; sottolinea dunque che «è necessario ribadire il lieto annuncio della definitività di quell’amore coniugale»[4]. Infatti la persona umana ha bisogno di un vincolo permanente, poiché è stata creata per questo; sa indubbiamente che ciò comporterà sacrificio, ma avverte che ne vale la pena. «È proprio del cuore umano accettare esigenze, perfino difficili, in nome dell’amore per un ideale e soprattutto in nome dell’amore verso una persona»[5]. C’è qualcosa che non va nel cuore e nella mente di chi rifiuta la permanenza della relazione e del vincolo coniugali.

Infine c’è un qualcosa di profondamente buono nell’aspetto dell’unione fisica dei coniugi —aspetto in cui risiede la sua vera singolarità—, consistente non tanto nel piacere che suole accompagnarla, quanto nel potere da essa significato: il potere, risultato della complementarietà sessuale, di dare origine ad una nuova vita. L’uomo e la donna posseggono un profondo anelito a questa unione davvero coniugale e davvero sessuale: anelito saldamente radicato nella natura umana.

Il desiderio di perpetuarsi è un aspetto naturale, che già di per sé possiede un profondo valore personalista. Comunque la coniugalità porta l’istinto procreativo sessuale oltre il desiderio naturale di perpetuare se stesso. Nel contesto dell’amore coniugale, il desiderio di auto-perpetuazione acquista un nuovo valore e un nuovo senso. Non si tratta più di due “io” sconnessi, che cercano —forse in modo egoista— l’auto-perpetuazione. Si tratta piuttosto di due innamorati che, in modo naturale, vogliono perpetuare l’amore reciproco, e provare la gioia di vederlo incarnato in una nuova vita, frutto della reciproca conoscenza spirituale e carnale con cui esprimono il loro amore di sposi[6]. Perciò Giovanni Paolo II insiste ripetutamente sul “privilegio” della paternità e della procreazione, sulla “benedizione” e sul “dono” dei figli e della fecondità[7]. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della «benedizione di fecondità» (n. 1077); e ribadisce: «l’amore coniugale tende per sua natura ad essere fecondo. Il figlio non viene ad aggiungersi dall’esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia al cuore stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento» (n. 2366).

Inoltre i figli rafforzano la bontà del vincolo matrimoniale, perché non ceda dinanzi alle tensioni che sorgono a causa della possibile diminuzione o scomparsa dell’amore iniziale, più sentimentale, romantico e spontaneo. Allora il vincolo matrimoniale —che Dio vuole nessuno infranga— si appoggia non soltanto sull’amore degli sposi, soggetto alle inevitabili variazioni della sfera della sensibilità, ma —soprattutto e progressivamente— sui loro figli, poiché ogni figlio è un altro filo che lo rinsalda[8].

In un’omelia a Washington D.C., nell’ottobre del 1979, Giovanni Paolo II ricordava alle coppie che «è minor male negare ai propri figli certe comodità e vantaggi materiali che privarli della presenza di fratelli e sorelle che potrebbero aiutarli a sviluppare la loro umanità e realizzare la bellezza della vita in ogni sua fase e in tutta la sua varietà»[9]. Le coppie che, senza motivo sufficiente, optano per la limitazione familiare, farebbero bene a leggere questo monito del Papa alla luce della dottrina del Concilio Vaticano II, secondo cui «I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono moltissimo al bene degli stessi genitori»[10]. In questi casi quindi i coniugi priverebbero di un bene singolare —di una esperienza irripetibile della vita umana— non solo i figli che già hanno, ma anche se stessi.

Il Beato Josemaría Escrivá e la bontà naturale del matrimonio

Dato che i cristiani non hanno sempre posseduto una chiara coscienza della positività di queste proprietà del matrimonio, è evidente che ogni rinnovamento della vita coniugale e familiare dipende in gran parte dal recupero di questa coscienza in tutto il suo vigore. Le considerazioni seguenti possono servire a ricordare come tale senso dell’attrattiva cristiana e umana dei “bona” matrimoniali sia profondamente presente nello spirito e nella dottrina di quel grande rinnovatore della vita cristiana nel mondo che è stato ed è il Beato Josemaría Escrivá. Alla luce della sua predicazione chiara e vibrante, molti sono tornati a scoprire la bontà ed il fine naturale di queste caratteristiche fondamentali del matrimonio, così intimamente corrispondenti, con tutte le esigenze che comportano, all’istinto coniugale (e non meramente sessuale) impresso da Dio nel cuore umano, per attrarre —nella maggior parte dei casi— verso un cammino che, essendo molto umano, dovrà diventare molto divino.

Fra i molti testi che si potrebbero citare sul tema, mi è parso preferibile scegliere soprattutto quelli tratti da conversazioni informali con gruppi di persone, in cui egli si esprime, conseguentemente, in modo colloquiale; in essi viene rivelata una evidente “connaturalità” con la dottrina agostiniana dei beni del matrimonio e, nello stesso tempo, una notevole originalità nel modo di presentarla.

Com’è ovvio, non si vuole offrire una esauriente esposizione degli insegnamenti del Beato Josemaría su questo tema; i testi che potrebbero essere citati sono numerosissimi, e non si può raccogliere qui, in poche righe, tutta la ricchezza dottrinale contenuta in essi.

La fedeltà matrimoniale

Una costante della sua predicazione è che la felicità —anche nell’ambito umano— è conseguenza della fedeltà. Soltanto gli sposi generosi sono felici, ripeteva sempre; e soltanto essendo generosi saranno reciprocamente fedeli.

«Può essere felice sulla terra, di una felicità che è preparazione e anticipo del Cielo, solo chi dimentica se stesso —nel matrimonio come in ogni situazione— e si dedica a Dio e agli altri»[11].«Il matrimonio esige molto sacrificio[12], ma quanto benessere, quanta pace e quanta consolazione dà! Se non è così, vuol dire che sono cattivi gli sposi. Il Sacramento del Matrimonio fornisce grazie spirituali, aiuto dal cielo, affinché marito e moglie possano essere felici e portare figli al mondo... È cosa buona e santa che vi amiate. Vi benedico, e benedico il vostro affetto, come benedico quello dei miei genitori: con queste due mani di sacerdote. Cercate di essere felici nel matrimonio. Se non lo siete, è perché non lo volete essere. Il Signore vi dà i mezzi... Cambiate, se dovete cambiare»[13].

Come uomo che non esitava a difendere il valore spirituale di tutte le realtà terrene e materiali[14], sapeva che l’amore nel matrimonio ha bisogno delle espressioni fisiche proprie di esso. L’intima relazione sessuale non è un mero mezzo di procreazione, ma l’espressione naturale e privilegiata dell’amore coniugale, purché si rispetti l’orientamento, voluto da Dio, verso la prole, il quale conferisce lo speciale e particolare significato che gli appartiene.

In questa linea, insegnava energicamente ed espressivamente che l’egoismo e le pratiche contrarie alla castità minacciano il rispetto tra gli sposi, e conducono alla decisione di porre fine alla convivenza coniugale. «In tema di castità coniugale, esorto gli sposi a non temere di esprimersi l’affetto; anzi, devono farlo, perché questa inclinazione è la base della vita famigliare. Quello che il Signore chiede loro è il rispetto reciproco, la mutua lealtà, un comportamento improntato a delicatezza, a naturalezza, a modestia. Vi dirò anche che i rapporti coniugali sono decorosi quando sono prova di vero amore e, quindi, sono aperti alla fecondità, ai figli. Chiudere le fonti della vita è un delitto contro i doni che Dio ha concesso all’umanità, è un segno evidente che è l’egoismo e non l’amore a ispirare la condotta. Allora la vita cristiana s’intorbida, perché i coniugi finiscono per guardarsi come complici: e nascono i dissensi che, di questo passo, divengono quasi sempre insanabili»[15].

Evidenziando che l’unione fra gli sposi non annichilisce la peculiare personalità di ciascuno, ribadiva che essi debbono appartenersi reciprocamente; il loro amore dev’essere tanto forte da comprendere anche ciò che più pone in pericolo l’unione: i difetti che inevitabilmente ognuno riscontra nell’altro.

«Faccio i complimenti a quanti sono sposati; ma vi dico di non inaridire l’amore, di far in modo di essere sempre giovani, di conservarvi interamente l’uno per l’altro, d’arrivare ad amarvi tanto da amare i difetti del consorte, purché non costituiscano offesa a Dio. Non vi lamentate mai l’uno dell’altro! Se vi lagnate, vuol dire che non vi volete bene abbastanza, perché difetti ne avrete sempre. Ce li ho anch’io, nonostante la mia età, e continuo a lottare contro di essi. Fate lo stesso anche voi»[16].

Sapeva molto bene che, col passar del tempo, la fedeltà può risultare più costosa e, in un modo molto positivo, a lui proprio, sapeva suscitare propositi pratici nei suoi interlocutori. Ad esempio, ricordava alle mogli di essere sempre curate: «Il marito è felice che vi facciate belle per lui! E ne avete l’obbligo. Siete sue. Allora lui si conserverà forte e pulito per voi, perché è vostro»[17].

«È vostro»: la moglie appartiene al marito, ed il marito alla moglie. Sono due che si scambiano un dono di sé, al punto d’appartenere ognuno all’altro. Già dal 1928 il Beato Escrivá affermava questo concetto della donazione reciproca degli sposi —con la conseguente reciproca appartenenza— come contenuto ed effetto dell’alleanza matrimoniale. Anche in questo anticipava la dottrina del Concilio Vaticano II, espressa con le belle parole della Gaudium et spes: «L’intima comunità di vita e d’amore coniugale (...) è stabilita dal patto coniugale, vale a dire dall’irrevocabile consenso personale (...) col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono»[18].

L’indissolubilità: per sempre

In tema d’indissolubilità del vincolo, Mons. Escrivá sapeva presentare con gran chiarezza ed in modo attraente la dottrina immutabile della Chiesa: «L’indissolubilità del matrimonio non è un capriccio della Chiesa, e neppure una semplice legge ecclesiastica positiva: è un precetto della legge naturale e del diritto divino, e risponde perfettamente alla nostra natura e all’ordine soprannaturale della grazia. Per questo, nella stragrande maggioranza dei casi, l’indissolubilità è condizione indispensabile per la felicità dei coniugi e per la sicurezza anche spirituale dei figli»[19].

Nello stesso tempo sapeva presentare l’indissolubilità anche come permanenza di un vincolo di amore: amore forte e volontario, da coltivare affinché, con il passare degli anni, non solo sopravviva, ma migliori e si renda più saldo. «L’amore dei coniugi cristiani è come il vino, che migliora cogli anni e acquista valore... È un tesoro splendido, che il Signore ha voluto concedervi. Conservatelo bene. Non buttatelo via! Conservatelo con cura!»[20].

Una frase veniva frequentemente alle sue labbra: gli sposi devono saper amarsi «come fidanzati»: saper ritornare a quell’amore appassionato del fidanzamento e delle prime ore di matrimonio. «Avrebbe un ben povero concetto del matrimonio e dell’affetto umano chi pensasse che, nell’urto contro queste difficoltà, l’amore e la gioia vengano meno. È proprio allora, invece, che i sentimenti che animavano quelle creature rivelano la loro vera natura, che la donazione e la tenerezza si rafforzano e si manifestano come affetto autentico e profondo, più potente della morte»[21]. Questo richiamo alla Sacra Scrittura[22] va abbinato ad una buona psicologia cristiana e umana. Infatti l’amore autentico è cosa più della volontà che del sentimento, e dimostra la propria autenticità nella costante disposizione a gettare radici e ad approfondirsi, vincendo ogni volta che sia necessario le eventuali reazioni negative sul piano puramente emotivo.

Mons. Escrivá insisteva sull’obbligo di rimanere fedeli nella donazione, sottolineando al tempo stesso che ciò è normale per chi colga la natura dell’amore umano. «Matrimonio di prova? Come conosce poco l’amore chi parla così! L’amore è una realtà ben più sicura, più vera, più umana. Non lo si può trattare come un prodotto commerciale, di cui si fa la prova e poi si tiene o si butta via, a seconda del capriccio, della comodità o dell’interesse»[23].

Predicava costantemente che la superbia è la peggior forma dell’egoismo, e pertanto anche il maggior nemico dell’amore. Ribadiva che se tutti devono imparare a perdonare, questo è particolarmente necessario per il marito e la moglie fra di loro. Sapeva dimostrare alle persone come, se ci sono discussioni o liti, la colpa non sia di una parte sola, ma di entrambi; perciò ambedue devono chiedersi reciprocamente perdono. «Dal momento che siamo creature umane, qualche volta si può litigare; ma poco. E poi, tutt’e due devono riconoscere di averne la colpa, e dirsi l’uno all’altro: scusami!»[24].

Per rafforzare i motivi di fedeltà nei momenti di tensione faceva appello alla lealtà che i genitori devono avere sempre nei confronti dei loro figli, ricordando loro l’enorme danno prodotto ai figli dalla mancanza di accordo o di reciproco rispetto che questi possano scorgere fra i loro genitori.

Il dono dei figli

Per quanto riguarda il bene della prole, il Beato Josemaría ricordava ai coniugi in primo luogo di conservare sempre la coscienza della grandezza della missione affidata loro da Dio con il farli partecipi del suo potere creatore.

«Il matrimonio è un sacramento che fa di due corpi una sola carne. La teologia afferma con forte espressione che la sua materia è costituita dal corpo stesso dei contraenti. Il Signore santifica e benedice l’amore del marito verso la moglie e quello della moglie verso il marito: ha disposto non solo la fusione delle loro anime, ma anche dei loro corpi. Nessun cristiano, sia o no chiamato alla vita coniugale, può quindi disprezzarla. Il Creatore ci ha dato l’intelligenza, quasi una scintilla dell’intelletto divino che ci consente —assieme alla libera volontà, altro dono di Dio— di conoscere e amare; e ha posto nel nostro corpo la capacità di generare, partecipandoci il suo potere creatore. Dio ha voluto servirsi dell’amore coniugale per donare al mondo nuove creature e accrescere il corpo della sua Chiesa. Il sesso non è una realtà vergognosa, ma un dono divino ordinato schiettamente alla vita, all’amore, alla fecondità»[25].

Non voleva che i coniugi si abituassero a questo privilegio. In Brasile, nel 1974, diceva ad un grande gruppo di persone sposate: «La maternità è una cosa santa, gioiosa, buona, nobile, benedetta e amabile. Madri, complimenti!»[26]. Costantemente ripeteva che «la maternità rende più belle». Gli venivano rivolte con frequenza domande come la seguente: «Padre, ho dieci figli. Quando dico questo, alcuni mi guardano come un’animale raro. Lei che ne pensa?» Mons. Escrivá rispose immediatamente: «Che Dio ha avuto dieci volte molta fiducia con voi: dillo a tua moglie, da parte mia. La benedico dieci volte con le mie due mani di sacerdote, perché non avete frapposto ostacolo alla vita, perché avete ricevuto come venuto da Dio quello che costituisce il regalo più meraviglioso»[27].

«Io benedico quei genitori che, ricevendo con gioia la missione che Dio ha loro affidata, hanno molti figli. E invito gli sposi a non inaridire le sorgenti della vita, ad aver senso soprannaturale e coraggio per far crescere una famiglia numerosa, se Dio la concede»[28].

Riconoscendo, com’è logico, che vi sono situazioni per l’astinenza periodica, era solito puntualizzare: «È meglio porsi nelle mani di Dio, non avere paura di queste benedizioni che consentono di partecipare al potere creatore e di ricevere i figli per quello che sono: regali dell’Altissimo»[29]. Ad ogni modo, aggiungeva: «In sé, il numero dei figli non è decisivo: averne molti o pochi non basta perché una famiglia sia più o meno cristiana. Ciò che conta è la rettitudine con cui si vive la vita matrimoniale. Il vero amore reciproco trascende la comunione di vita tra marito e moglie, e si estende ai suoi frutti naturali, i figli. Invece l’egoismo finisce per degradare questo amore al livello della semplice soddisfazione dell’istinto, e distrugge il rapporto che unisce genitori e figli. È difficile sentirsi buon figlio —vero figlio— dei propri genitori quando si possa pensare di essere venuto al mondo contro la loro volontà, cioè di essere nato non da un amore degno di questo nome, ma da un imprevisto o da un errore di calcolo»[30].

«L’egoismo in ciascuna delle sue forme, si oppone all’amore di Dio che deve dominare la nostra vita. Questo è un punto fondamentale, che dev’essere tenuto ben presente a proposito del matrimonio e del numero di figli»[31].

L’educazione dei figli

«Quando esalto la famiglia numerosa, non mi riferisco a quella che è conseguenza di mere relazioni fisiologiche; mi riferisco alla famiglia che nasce dall’esercizio delle virtù cristiane, che ha un senso elevato della dignità della persona e sa che dare figli a Dio non vuol dire soltanto metterli al mondo, ma richiede anche tutto un lungo lavoro di educazione: dar loro la vita è la prima cosa, ma non è tutto»[32].

Insisteva sempre sull’impegno dei genitori per l’educazione dei figli. «Voi —diceva alle madri di famiglia— sapete che l’amore per il marito e l’amore per ogni figlio è parte del vostro amore di Dio. Lo è anche lo zelo impiegato per farli crescere, cioè per educarli in un modo cristiano»[33].

Se lo zelo dei genitori per educare cristianamente i figli è autentico, essi devono restare aperti alla possibilità che il Signore “chieda di più” a qualcuno dei loro figli. Dicendo «Chiedo al Signore che ci siano famiglie numerose. Perché privare a tante possibili creature di benedire, lodare ed amare Dio?», sapeva che il fenomeno della vocazione attecchisce con maggior facilità nelle famiglie numerose. Nel ricordare questo, non gli mancava una parola di consolazione —e di incoraggiamento apostolico— per i genitori che Dio non ha benedetto con figli. «Ho visto parecchi genitori i quali, quando il Signore non concede loro che un figlio, hanno la generosità di offrirlo a Dio. Ma non sono molti quelli che fanno così. Nelle famiglie numerose è più facile comprendere la grandezza della vocazione divina e, fra i propri figli, ce ne sono per tutti gli stati. Ma ho verificato anche con gratitudine al Signore —e non poche volte—, che altri, a cui il Signore non dà famiglia —e sono coppie esemplari—, sanno accettare con allegria la volontà santa di Dio e dedicare più tempo alla carità con il prossimo»[34].

L’autentico “bene dei coniugi”

Il “bene dei coniugi” presentato dalla Chiesa come uno dei fini istituzionali del matrimonio[35], richiede ora una riflessione, soprattutto perché non sempre in questi ultimi anni è stato esaminato o inteso con sufficiente profondità[36].

Il Beato Escrivá sapeva mostrare agli sposi come il loro vero bene consista nella propria maturazione umana e soprannaturale, conseguenza dello stesso amore e della donazione coniugale e familiare, nel viverne le esigenze umane e divine in tutta la loro profondità e bellezza. In altre parole, vedeva, e faceva vedere, che l’autentico “bonum coniugum” conduce i coniugi al perfezionamento e alla maturazione di persone che hanno imparato ad amare. In fondo, è questa capacità di amare il bene fondamentale che ognuno di noi deve sviluppare su questa terra. Ma non infondeva loro soltanto ideali umani, per quanto nobili fossero. Li incoraggiava a vedere i doveri matrimoniali come espressione della volontà amorevolissima di Dio per aiutarli nel cammino dell’autentica “realizzazione” umana e cristiana, ed insegnava loro a saper «valorizzare la bellezza della famiglia, l’opera soprannaturale significata dalla fondazione di un focolare, la fonte di santificazione nascosta nei doveri coniugali»[37]. Anche questo è un aspetto principale sul quale intendiamo soffermarci.

Tuttavia, prima sarà opportuno ritornare brevemente a Sant’Agostino, accusato talvolta di aver diffuso una visione negativa della sessualità umana e del matrimonio. Ritengo che chi affronti una lettura serena ed obiettiva dei suoi scritti ne ricavi un’impressione opposta[38]. Preoccupazione costante del Vescovo d’Ippona era difendere la bontà, la dignità e la santità del matrimonio, oltre all’importanza della castità coniugale. Da un lato, sosteneva questa difesa contro il pessimismo manicheo; dall’altro, contro l’esaltazione del sesso —naturalista e non meno pericoloso— preconizzata dai pelagiani.

L’insegnamento di Sant’Agostino, rispondente alla crisi e alle esigenze del momento storico in cui viveva, era segnato anche dalla propria personalità ed esperienza di vita. A lui toccò, in modo particolare in quei primi secoli, esporre e difendere la bontà essenziale del matrimonio, così come Dio lo istituì. Sembra proprio che spetti alla nostra epoca —dopo il lungo processo del definitivo plasmarsi della sacramentalità del matrimonio— d’insistere sul fatto che anche il matrimonio, come il resto dei cammini ordinari della vita, è cammino di santità. In questa strada, i coniugi, sapendo apprezzare e rispettare le proprietà espresse dai tre beni agostiniani —nella loro attrattiva ed esigenza—, sono in grado di scoprire la loro vocazione alla pienezza della vita cristiana, dandosi completamente alla santità personale ed all’apostolato, nel e dal focolare. Anche e soprattutto qui è evidente come il messaggio del Beato Escrivá costituisca una pietra miliare nella storia della spiritualità.

Il matrimonio: cammino di santità

«Da quasi quarant’anni —diceva nel 1968— predico il significato vocazionale del matrimonio. Quante volte ho visto illuminarsi il volto di tanti, uomini e donne, che credendo inconciliabili nella loro vita la dedizione a Dio e un amore umano nobile e puro, mi sentivano dire che il matrimonio è una strada divina sulla terra!»[39].

Il matrimonio, strada divina! Può sembrare un’affermazione azzardata. Infatti penso che poche volte —se non mai— nella storia della Chiesa sia stata proclamata così non solo la bontà costituzionale del matrimonio, ma anche il suo pieno senso vocazionale di santità.

Come si vede, il Beato Josemaría va notevolmente oltre la dottrina di Sant’Agostino. Questi difendeva contro i manichei —secondo i quali il corpo umano ed il matrimonio erano opera del demonio— la bontà naturale del matrimonio, in quanto istituito da Dio. Ma il Vescovo d’Ippona non arrivò a presentarlo come concreto cammino attraverso il quale Dio chiama a Sé le anime, la maggioranza degli uomini e delle donne. San Tommaso, riferendosi in un passo al matrimonio come «opera di Dio»[40], espone parimenti la bontà naturale del matrimonio[41]. Sembra scorgerne il valore come sacramento soprattutto nel «remedium contra peccatum»[42], senza giungere a presentarlo come fonte —e vocazione— di santificazione.

Per il Beato Josemaría il matrimonio fu istituito da Dio anche per costituire una vocazione. Vocazione che è chiamata personale —da persona a persona—; da Dio all’uomo che dev’essere sposo, e alla donna che dev’essere sposa. E vocazione che implica chiamata verso una meta molto concreta: la santità, attraverso grazie sacramentali proprie dello stato coniugale.

«È importante che gli sposi acquistino un chiaro senso della dignità della loro vocazione; che sappiano di esser stati chiamati da Dio a raggiungere l’amore divino attraverso l’amore umano; che sono stati scelti, fin dall’eternità, per cooperare con il potere creatore di Dio nella procreazione e poi nell’educazione dei figli; che il Signore chiede che facciano della loro casa e della loro vita di famiglia una testimonianza di tutte le virtù cristiane. Il matrimonio —non mi stancherò mai di ripeterlo— è un cammino divino, grande e meraviglioso; e come tutto ciò che abbiamo di divino in noi, ha manifestazioni concrete di corrispondenza alla grazia, di generosità, di donazione, di servizio»[43].

In questo passo, e in quello che citeremo in seguito, si vede chiaramente come la grazia —sacramentale e di stato— edifichi sulla natura, in modo particolare nel matrimonio; come la sua operazione aiuti ed esiga l’attivarsi di tutte le espressioni autentiche dell’amore coniugale e familiare.

«Gli sposi hanno grazia di stato —la grazia del sacramento— per praticare tutte le virtù umane e cristiane della convivenza: la comprensione, il buon umore, la pazienza, il perdono, la delicatezza nel rapporto reciproco. L’importante è non lasciarsi andare, non lasciarsi dominare dal nervosismo, dall’orgoglio o dalle manie personali. Per riuscirci, marito e moglie devono sviluppare la propria vita interiore e apprendere dalla Sacra Famiglia a vivere con finezza —per un motivo che è allo stesso tempo umano e soprannaturale— le virtù del focolare cristiano. Lo ripeto ancora: la grazia di Dio ce l’hanno»[44].

La Santa Famiglia: un focolare totalmente incentrato su Gesù Cristo: è il modello presentato per la famiglia di tutti i cristiani. Sono già molti, e lo sono sempre di più, gli sposi che scoprono nell’insegnamento del Beato Josemaría Escrivá un messaggio —«vecchio, come il Vangelo; e, come il Vangelo, nuovo»— per vivere in piena coerenza umana e soprannaturale, e con un profondo senso di privilegio, la propria vocazione matrimoniale.

«Il matrimonio è fatto perché quelli che lo contraggono vi si santifichino e santifichino gli altri per mezzo di esso: perciò i coniugi hanno una grazia speciale, che viene conferita dal sacramento istituito da Gesù Cristo. Chi è chiamato allo stato matrimoniale, trova in esso, con la grazia di Dio, tutti i mezzi necessari per essere santo, per identificarsi ogni giorno di più con Gesù e per condurre verso il Signore le persone con cui vive (...). Gli sposi cristiani devono avere la consapevolezza di essere chiamati a santificarsi santificando, cioè a essere apostoli; e che il loro primo apostolato si deve realizzare nella loro casa. Devono capire l’opera soprannaturale che è insita nella creazione di una famiglia, nell’educazione dei figli, nell’irradiazione cristiana nella società. Dalla consapevolezza della propria missione dipende gran parte dell’efficacia e del successo della loro vita: la loro felicità»[45].

Unità di vita

Il Decreto Pontificio del 9 aprile 1990, con il quale si dichiarò Venerabile Mons. Escrivá, conteneva alcune parole che, riferendosi a tutto il suo messaggio spirituale, si applicano in pienezza al tema di cui stiamo parlando: «Grazie ad una vivissima percezione del mistero del Verbo Incarnato, egli comprese che l’intero tessuto delle realtà umane si compenetra, nel cuore dell’uomo rinato in Cristo, con l’economia delle vita soprannaturale e diviene luogo e mezzo di santificazione. Vero pioniere, già alla fine degli anni Venti, dell’intrinseca unità della vita cristiana, il Servo di Dio proiettò la pienezza della contemplazione “nel bel mezzo della strada” e richiamò tutti i fedeli ad inserirsi nel dinamismo apostolico della Chiesa, ognuno dal posto che occupa nel mondo.

Questo messaggio di santificazione nelle e delle realtà terrene appare provvidenzialmente attuale nella situazione spirituale della nostra epoca, così solerte nell’esaltare i valori umani, ma anche così proclive a cedere ad una visione immanentista del mondo separato da Dio. D’altra parte, nell’invitare il cristiano alla ricerca dell’unione con Dio attraverso il lavoro, compito e dignità perenne dell’uomo sulla terra, quest’attualità è destinata a perdurare al di là dei mutamenti dei tempi e delle situazioni storiche, come fonte inesauribile di luce spirituale»[46].

E nel Breve Apostolico del 17 maggio 1992, con il quale dichiarava Beato il Fondatore dell’Opus Dei, Sua Santità Giovanni Paolo II ricordava che il messaggio del Beato Josemaría «rispecchia, con mirabile congruenza, l’universale portata del mistero salvifico: “Tutti sono chiamati alla santità, il Signore chiede amore a ciascuno: giovani e anziani, celibi e sposati, sani e malati, dotti e ignoranti, dovunque lavorino, dovunque si trovino” (Amici di Dio, n. 294). Proclamando la radicalità della vocazione battesimale, egli ha aperto nuovi orizzonti per una più profonda cristianizzazione della società. Il Fondatore dell’Opus Dei ha ricordato, infatti, che l’universalità della chiamata alla pienezza dell’unione con Cristo comporta anche che ogni attività umana divenga luogo di incontro con Dio (...). Nel fedele compimento di tale missione, portò sacerdoti e laici, uomini e donne di ogni condizione, a trovare nelle occupazioni quotidiane l’ambito della propria corresponsabilità nella missione della Chiesa, in pienezza di dedizione a Dio nelle circostanze ordinarie della vita secolare. “Si sono aperti i cammini divini della terra!”, esclamava»[47].

Cormac Burke

Uditore della Rota Romana

[1] De nupt. et conc. I, c. 17, n. 19.

[2] De pecc. orig., c. 37, n. 42.

[3] Is 43, 1.

[4] Esort. ap. Familiaris consortio, n. 20.

[5] Giovanni Paolo II, Discorso, 28-IV-1982: “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, V/1 (1982) 1344.

[6] Cfr. Gn 4, 1.

[7] Cfr. “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, II/2 (1979) 1213; V/3 (1982) 1487; VI/2 (1983) 619; VIII/1 (1985) 307; IX/2 (1986) 1786; X/2 (1987) 1801; XI/3 (1988) 1322; XII/2 (1989) 1090; XIII/2 (1990) 416 ss.; ecc.

[8] «I figli da loro generati dovrebbero (...) consolidare tale patto [matrimoniale], arricchendo e approfondendo la comunione coniugale del padre e della madre» (Lettera alle Famiglie, n. 7).

[9] “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, II/2 (1979) 702.

[10] Gaudium et spes, n. 50.

[11] È Gesù che passa, Ares, Milano 1982, 3ª ed., n. 24.

[12] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie: «L’amore è esigente. (...) Bisogna che gli uomini di oggi scoprano questo amore esigente, perché in esso sta il fondamento veramente saldo della famiglia» (n. 14).

[13] AGP, sez. RHF 20159, p. 988.

[14] Fino al punto di parlare audacemente di un «materialismo cristiano»: Colloqui con Mons. Escrivá, Ares, Milano 1982, 4ª ed., n. 115.

[15] È Gesù che passa, op. cit., n. 25.

[16] AGP, sez. RHF 20760, p. 770.

[17] AGP, sez. RHF 20770, p. 669.

[18] Gaudium et spes, n. 48.

[19] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 97.

[20] AGP, sez. RHF 20770, p. 108.

[21] È Gesù che passa, op. cit., n. 24.

[22] Cfr. Ct 8, 6: «fortis est ut mors dilectio».

[23] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 105. Cfr. Lettera alle Famiglie (n. 13), dove il Santo Padre parla delle minacce di «una civiltà in cui le persone si usano come si usano le cose».

[24] AGP, sez. RHF 20770, p. 108.

[25] È Gesù che passa, op. cit., n. 24.

[26] AGP, sez. RHF 20770, p. 83.

[27] AGP, sez. RHF 20760, p. 778-779.

[28] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 94.

[29] AGP, sez. RHF 20771, p. 162.

[30] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 94.

[31] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 93. Giovanni Paolo II, parlando dei «pericoli che incombono sull’amore», insiste: «Si pensi anzitutto all’egoismo, non solo all’egoismo del singolo, ma anche a quello della coppia» (Lettera alle Famiglie, n. 14).

[32] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 94.

[33] AGP, sez. RHF 20760, p. 771.

[34] AGP, sez. RHF 20117, p. 20-21.

[35] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2363; Codice di Diritto Canonico, can. 1055 §1.

[36] Cfr. C. BURKE: I fini del matrimonio: visione istituzionale o personalistica?, in “Annales Theologici” 6 (1992) 227-254.

[37] AGP, sez. RHF, p. 177.

[38] Cfr. C. BURKE: San Agustín y la sexualidad conyugal, in “Augustinus” 35 (1990) 279-297; cfr. “Annales Theologici” 5 (1991) 185-206.

[39] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 91.

[40] Suppl. q. 58, art. 2.

[41] Cfr. Suppl. q. 41, art. 1; q. 49, art. 1; q. 58, art. 5 ad 1 et 2, ecc.

[42] Suppl. q. 42, art. 1.

[43] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 93.

[44] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 108.

[45] Colloqui con Mons. Escrivá, op. cit., n. 91.

[46] Congregazione delle Cause dei Santi, Decreto sull’esercizio eroico delle virtù del Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, 9-IV-1990.

[47] Breve pontificio di beatificazione, 17-V-1992.

Romana, n. 19, Luglio-Dicembre 1994, p. 374-384.

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