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Il contenuto morale della fede

Basta la semplice osservazione. Non occorrono rilevamenti sociologici dei comportamenti individuali e dei costumi collettivi dominanti per convalidare l’affermazione del Card. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che, presentando la recente Enciclica Veritatis splendor, ha scritto: «La questione della morale è manifestamente oggi più che mai una questione di sopravvivenza per l’umanità»[1]. Sullo sfondo di tutta l’Enciclica campeggia proprio questa consapevolezza del declino del senso morale riscontrabile all’interno stesso del popolo di Dio, spesso sulla scia del travisamento delle sue basi operatosi in alcuni settori teologici particolarmente attivi: «Si è determinata, infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni (...). Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale» ( Veritatis splendor [VS], n. 4).

Nell’eclissi che ha oscurato nelle coscienze di molti cristiani gli stessi principi etici fondamentali, e che costituisce il precipitato inevitabile di un generalizzato offuscamento dei contenuti della fede, il Santo Padre vede dunque una formidabile sfida a quella perenne evangelizzazione che è parte essenziale della missione della Chiesa al servizio dell’uomo (cfr. VS, nn. 106-108). Sul terreno della morale si gioca insomma la partita decisiva, in cui la posta è, inseparabilmente, la salvezza eterna dei singoli (cfr. VS, n. 3) e il futuro della società: infatti le norme morali sono il «il fondamento incrollabile e la solida garanzia di una giusta e pacifica convivenza umana» (VS, n. 96). Ogni distinzione sistematica fra individuo e società, fra privato e pubblico, necessaria sul piano concettuale, su quello esistenziale e storico si rivela astratta: il peccato personale ferisce l’umanità tutta e, di converso, le ingiustizie strutturali nascono e si consolidano sempre sulla base di concreti peccati personali. Giustizia e santità, nella prospettiva morale, coincidono. Come male e peccato.

L’andamento dell’Enciclica mostra che il giudizio morale possiede un carattere intrinsecamente unitario: perché l’ordine creato non può alterare il proprio rapporto costitutivo con il Creatore e, quindi, ogni riflessione sull’uomo non può prescindere dalla luce che proviene da Dio. Perché il tempo non è che un segmento dell’eternità e la vita terrena non sopporta una logica cui sia stata amputata la tensione verso il fine ultimo soprannaturale: bene e benessere non si identificano. Perché il bene e il male sono distanziati da una divaricazione infinita: o l’uno o l’altro; sfumare il bene nell’utile o nel “migliore di” è introdurre un’ottica estranea all’etica. Perché il Verbo si è incarnato per salvare tutti gli uomini: per tutti Cristo è la Nuova Legge e a tutti dona la sua grazia. Perché, mentre esiste un’autonomia fra le diverse sfere intenzionali in cui si espande l’attività umana, nel passare dall’una all’altra l’uomo resta se stesso: esplora i campi dell’arte, della politica, dell’economia, del diritto, dello svago, della tecnica..., ma in ognuno di essi egli agisce sempre secondo il bene o facendo il male, secondo la legge divina o contro di essa. Il giudizio morale si estende, senza snaturarli, a tutti i settori della vita.

Unitarietà che è anche insopprimibile esigenza di coerenza. Radicalmente la morale misura la conformità della vita con la realtà ontologica. Avendo Dio come proprio principio, la realtà ha una legge interna che ne esprime la natura più profonda e la finalità da cui è costituita in se stessa. L’illusione di poter costruire una morale senza Dio rappresenta la prima fondamentale incoerenza: «Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza della bontà» (VS, n. 9; cfr. anche n. 11). Le sue conseguenze sono ovvie: «Solo Dio, il Bene supremo, costituisce la base irremovibile e la condizione insostituibile della moralità (...). Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini (...). Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere» (VS, n. 99).

Al primo posto nel breve elenco di quelli che definisce come i «contenuti essenziali» della rivelazione vetero e neo-testamentaria circa l’agire morale, il Papa non esita ad evidenziare lasubordinazione dell’uomo e del suo agire a Dio (cfr. VS, n. 28). Quest’affermazione si può respingere, ostinandosi pregiudizialmente a propugnare una “morale ateistica” . Ma coerenza impone di rispondere poi ad una serie di domande in cui, più che l’espressione di obiezioni teoriche, risuona l’eco di autentiche tragedie storiche: come si distingue il bene dal male in assenza di un riferimento a Dio, Bene supremo e infinito? È chi detiene il potere (politico o dei mezzi di comunicazione) a stabilire ciò che è lecito e illecito? Non ci basta l’esperienza storica di tante leggi o ordini ingiusti, benché emanati dall’autorità legittima? Oppure: dando per scontata la garanzia anche etica potenzialmente rappresentata dai regimi democratici, la maggioranza diviene automaticamente principio? Può la normalità statistica essere assunta a criterio normativo? Su quale fondamento? E quando cambiano le circostanze storiche, quando la cultura evolve e le opinioni mutano, ciò che era male diventa bene?

«Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il bene», ripete il Papa (VS, n. 9). L’affermazione di Dio come fondamento della morale si può mettere fra parentesi: gli agnostici non negano esplicitamente Dio e si limitano a predicare la necessità di individuare valori comuni, condivisibili da tutti, ai quali potrebbe ancorarsi una morale universale. Credenti e non convergono su valori come la giustizia, la dignità della persona, la libertà d’opinione, la tolleranza, il rispetto per le minoranze... Ma, anche qui, la coerenza impone interrogativi ineludibili. È davvero possibile una morale agnostica? Il tanto auspicato consenso non verte forse più sulle parole che sui significati reali? Gli esempi delle leggi sull’aborto e sull’eutanasia non sono sufficienti a rendere evidente che non si è d’accordo neppure sul significato di termini come “vita” e “dignità” o “persona”? E ancora: messo fra parentesi Dio, e quindi la realtà del premio e del castigo, quale appiglio resta per sostenere il dovere, elemento senza il quale la morale —che non si accontenta di buone aspirazioni, ma genera responsabilità— si dissolve?

Riconosciuto in Dio il fondamento della morale, la coerenza richiede di compiere altri passi, ammettendo anzitutto che qualsiasi conflitto fra legge divina e felicità dell’uomo è semplicemente impensabile. La Veritatis splendor ribadisce a chiare lettere la connessione tra il bene morale e la piena realizzazione dell’umanità dell’uomo: «Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono per l’uomo» (VS, n. 35; cfr. n. 8). Alle concezioni che ipotizzano contrasti fra legge e libertà soggiace un’idea di Dio del tutto travisata: non Creatore e Padre, ma despota invidioso della felicità della creatura. Di qui che il primo irrinunciabile traguardo dell’evangelizzazione risieda nella riscoperta della verità su Dio: Sapienza infinita, Amore provvidente, Padre, Redentore. Considerare i comandamenti come limiti posti arbitrariamente alla libera espansione delle inclinazioni naturali, oltre che negare la paternità di Dio, significa dimenticare che la natura umana, per di più ferita dal peccato, non è di per sé regola di moralità (cfr. VS, n. 112): essa va liberata e la legge morale contiene appunto l’indicazione del cammino che guida l’uomo alla libertà dai vincoli con cui il peccato lo condiziona.

L’Enciclica rivendica con forza la rispondenza della legge morale alla natura umana e alle sue esigenze di compimento: essa è «legge propria dell’uomo (...), luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio» (VS, n. 40). Da quest’appartenenza della legge alla natura umana deriva che «l’obbedienza a Dio non è, come taluni credono, un’eteronomia, come se la vita morale fosse sottomessa alla volontà di un’onnipotenza assoluta, esterna all’uomo e contraria all’affermazione della sua libertà» (VS, n. 41). Perciò la fermezza con cui la Chiesa proclama le norme morali non si può interpretare come intromissione ingiustificata in un terreno in cui il solo giudice sarebbe la coscienza individuale: «L’autorità della Chiesa, che si pronuncia sulle questioni morali, non intacca in nessun modo la libertà di coscienza dei cristiani: non solo perché la libertà della coscienza non è mai libertà “dalla” verità, ma sempre e solo “nella” verità; ma anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee» (VS, n. 64).

Su questa vigorosa proclamazione della verità —verità di Dio e dell’uomo, verità dell’ordine creato— si innestano le argomentazioni con cui l’Enciclica mette a nudo le contraddizioni delle teorie basate sull’atonomia della morale in senso soggettivistica, oggi prevalenti. In esse la libertà umana assume un ruolo assoluto di sorgente dei valori e la coscienza individuale acquista le prerogative di istanza suprema del giudizio morale (cfr. VS, nn. 32 ss.). Posta questa premessa, non si è più in grado di concepire norme morali universalmente valide ed immutabili nel tempo e nello spazio. Solo accogliendo la verità della creazione si giunge all’evidenza di norme oggettive di moralità, che «obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza (...). Nell’uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo “qualcosa” è precisamente lanatura dell’uomo» (VS, nn. 52-53).

Se dunque la libertà dell’uomo reca in sé lo stigma della condizione creaturale, non può essere visto come un’imposizione estrinseca «l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta» (VS, n. 34). Ogni interpretazione “creativa” del ruolo della coscienza è inconciliabile con la morale cristiana (cfr. VS, nn. 54 ss.). Il giudizio della coscienza sulla bontà o malizia dei nostri atti «ètestimonianza di Dio stesso, la cui voce e il cui giudizio penetrano nell’intimo dell’uomo, fino alle radici della sua anima, chiamandolo fortiter et suaviter all’obbedienza» (VS, n. 58). Solo questo rapporto costitutivo della coscienza con la legge divina fonda il carattere imperativo del suo dettato: «L’autorità della sua voce e dei suoi giudizi derivano dalla verità sul bene e sul male morale, che essa è chiamata ad ascoltare e ad esprimere» (VS, n. 60; cfr. anche n. 63).

Sicché nella formazione della coscienza, nella sua continua conversione al vero e al bene, risiede un altro capitale obiettivo dell’evangelizzazione. Come S.E. Mons. Alvaro del Portillo ha ricordato di recente ai membri della Prelatura: «Senza una coscienza retta e vera, capace di accogliere gli impulsi dello Spirito Santo senza distorsioni né interpretazioni soggettive, è impossibile raggiungere una solida vita interiore ed illuminare il mondo con la luce di Cristo»[2]. Occorre ricordare agli uomini che la bontà della persona non si può limitare alla sfera generica delle intenzioni, ma richiede in primo luogo la verifica dell’oggetto morale delle azioni: l’uomo non può restare fedele a Dio indipendentemente dalla conformità dei suoi atti con le norme morali. Egli è buono solo quando le sue scelte sono conformi al bene: «Se l’oggetto dell’azione concreta non è in sintonia con il vero bene della persona, la scelta di tale azione rende la nostra volontà e noi stessi moralmente cattivi» (VS, n. 72). Non esistono alternative: compiere atti buoni è la condizione indispensabile per la beatitudine eterna. E tale bontà dipende anzitutto dall’oggetto morale delle nostre scelte: non tutte le azioni umane sono ordinabili a Dio, perché non tutte sono rispettose del bene della persona umana, tutelato dai comandamenti (cfr. VS, nn. 73-81).

La Chiesa ha sempre insegnato che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto»[3] ed i nn. 80 e 100-101 dellaVeritatis splendor contengono una esemplificazione assai attuale di azioni lesive della dignità della persona e, perciò, contrarie alla legge morale: omicidio, aborto, eutanasia, suicidio, torture fisiche e morali, condizioni infraumane di vita o di lavoro, incarcerazioni arbitrarie, furti, frodi commerciali, salari ingiusti, speculazione sui prezzi, frode fiscale, sperpero, mancanza di veridicità nei rapporti tra governanti e governati o di trasparenza nella pubblica amministrazione, processi e condanne sommarie, uso disonesto del pubblico denaro, ecc.

Il Papa precisa che questi principi trovano la loro radice prima «nel valore trascendente della persona» (VS, n. 101), e che rispettarli, in tutta la loro integrità, diviene possibile, in ultima istanza, solo rivolgendo lo sguardo a Cristo: «Gesù porta a compimento i comandamenti di Dio, in particolare il comandamento dell’amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze» (VS, n. 15). « Seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana (...). Si tratta di aderire alla persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo destino» (VS, n. 19): che non ci troviamo dinanzi ad un vago appello al sentimento né solo all’imitazione esteriore appare chiaro alla luce del richiamo alla realtà della grazia, elemento fondante, sul piano ontologico ed operativo, della vita spirituale: «Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui (...). Questo è frutto della grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi» (VS, n. 21). Di qui la formula sintetica, ripresa da San Tommaso: « La Legge Nuova è la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo»[4], e la conclusione, espressione dell’audacia filiale del cristiano: «La Legge Nuova, non si contenta di dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di “fare la verità”» (VS, n. 24).

L’ultimo capitolo dell’Enciclica, che il Card. Ratzinger annovera «fra i più significativi testi del Magistero nel nostro secolo»[5], è un’appassionata difesa dell’identità cristiana, in perfetta coerenza con i principi esposti: «L’osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, difficilissima: non è mai però impossibile (...). Sarebbe un errore gravissimo concludere... che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un “ideale” che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo (...). Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere» (VS, n. 103). Ai nuovi “farisei”, che pretendono di elaborare una morale eliminando la coscienza del peccato e configurano le norme agli standard della natura caduta, sordi alla chiamata a tutti rivolta da Cristo alla perfezione morale e dimentichi dell’azione elevante e trasformante della grazia, Giovanni Paolo II indirizza l’ammonimento paolino a non rendere vana la Croce di Cristo (cfr.1 Cor 1. 17): «La morale della Chiesa implica necessariamente una dimensione normativa» (VS, n. 111), «la fede possiede anche un contenuto morale: origina ed esige un impegno coerente di vita» (VS, n. 89) che può richiedere al credente anche la testimonianza suprema del martirio. In ossequio alla volontà di Dio, Cristo è morto sulla Croce: l’obbedienza a Dio, la sequela di Cristo, sono inseparabili dal « rispetto incondizionato che si deve alle esigenze insopprimibili della dignità personale di ogni uomo, a quelle esigenze difese dalle norme morali che proibiscono senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi» (VS, n. 90). Il cristiano viene dunque definito dalla decisione di preferire la morte ad un solo peccato mortale, come i martiri, il cui esempio esalta la santità della legge di Dio e l’intangibilità della dignità personale dell’uomo (cfr. VS, n. 92). E questa decisione, spesso eroica, ma non impossibile per chi è configurato a Cristo dalla grazia, è «una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono essere pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici» (VS, n. 93).

Se il divario che separa il bene dal male è insanabile, e se il bene morale è un assoluto, «ci sono verità e valori morali per i quali si deve essere disposti anche a dare la vita» (VS, n. 94). Riecheggia nella memoria quel pensiero del Beato Josemaría Escrivá: «Un uomo, un... gentiluomo transigente, tornerebbe a condannare a morte Gesù»[6]: una riflessione che ci aiuta a meditare sulla virtù della “santa intransigenza”, così cara ai Pastori davvero solleciti del proprio gregge. Fermezza, rifiuto di qualsiasi compromesso con ciò che rende l’uomo schiavo delle proprie miserie, odio del peccato; ma, insieme, fiducia nella grazia, comprensione infinita verso i peccatori e umile perseveranza nell’attingere alle fonti sacramentali del perdono che Dio ci assicura nella comunione della Chiesa: «Nessun peccato può cancellare la misericordia di Dio, può impedirle di sprigionare tutta la sua forza vittoriosa» (VS, n. 118).

A Maria, Madre di misericordia, affidiamo, con il Papa, il cammino di ogni cristiano nel mondo. E rinnoviamo la nostra gratitudine al Santo Padre: la sua sollecitudine, che traspare così viva da quest’Enciclica, per l’unità della Chiesa è un un invito a testimoniare Cristo con le nostre opere buone dinanzi agli uomini (cfr.Mt 5, 14-16). E ci ricorda che non è il nostro sforzo, ma la grazia dello Spirito Santo a rendere possibile per tutti i cristiani di essere davvero “luce del mondo”.

[1] L’Osservatore Romano, 6-X-1993.

[2] L’Osservatore Romano, 6-X-1993.

[3] Lettera, 1-XI-1993.

[4] Esort. apost. Reconciliatio et pænitentia, n. 17, citata in VS, n. 80.

[5] S. Th. I-II, q. 106, a. 1, citato in VS, n. 24.

[6] L’Osservatore Romano, 6-X-1993.

(7) Cammino, n. 393.

Romana, n. 17, Luglio-Dicembre 1993, p. 141-146.

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