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Lettera enciclica Centesimus annus ai venerati fratelli nell'episcopato, al clero, alle famiglie religiose, ai fedeli della Chiesa cattolica e a tutti gli uomini di buona volontà, nel centenario della Rerum novarum (1-V-1991).

Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie, salute e Apostolica Benedizione!

INTRODUZIONE

1. IL CENTENARIO della promulgazione dell'Enciclica del mio predecessore Leone XIII di v.m., che inizia con le parole Rerum novarum[1], segna una data di rilevante importanza nella presente storia della Chiesa ed anche nel mio pontificato. Essa, infatti, ha avuto il privilegio di esser commemorata con solenni Documenti dai Sommi Pontefici, a partire dal quarantesimo anniversario fino al novantesimo: si può dire che il suo iter storico è stato ritmato da altri scritti, che la rievocavano ed insieme la attualizzavano[2].

Nel fare altrettanto per il centesimo anniversario su richiesta di numerosi Vescovi, istituzioni ecclesiali, centri di studi, imprenditori e lavoratori, sia a titolo individuale che come membri di associazioni, desidero anzitutto soddisfare il debito di gratitudine che l'intera Chiesa ha verso il grande Papa e il suo «immortale Documento»[3]. Desidero anche mostrare che la ricca linfa che sale da quella radice, non si è esaurita col passare degli anni, ma è anzi diventata più feconda. Ne danno testimonianza le iniziative di vario genere che hanno preceduto, accompagnano e seguiranno questa celebrazione, iniziative promosse dalle Conferenze episcopali, da Organismi internazionali, da Università ed Istituti accademici, da Associazioni professionali e da altre istituzioni e persone in tante parti del mondo.

2. La presente Enciclica partecipa a queste celebrazioni per ringraziare Dio, dal quale «discende ogni buon regalo e ogni dono perfetto» ( Gc 1, 17), poiché si è servito di un Documento emanato cento anni or sono dalla Sede di Pietro, operando nella Chiesa e nel mondo tanto bene e diffondendo tanta luce. La commemorazione, che qui vien fatta, riguarda l'Enciclica leoniana ed insieme le Encicliche e gli altri scritti dei miei predecessori, che hanno contribuito a renderla presente e operante nel tempo, costituendo quella che sarebbe stata chiamata «dottrina sociale», «insegnamento sociale», o anche «Magistero sociale» della Chiesa.

Alla validità di tale insegnamento si riferiscono già due Encicliche che ho pubblicato negli anni del mio pontificato: la Laborem exercens sul lavoro umano e la Sollicitudo rei socialis sugli attuali problemi dello sviluppo degli uomini e dei popoli[4].

3. Intendo ora proporre una «rilettura» dell'Enciclica leoniana, invitando a «guardare indietro», al suo testo stesso per scoprire nuovamente la ricchezza dei principi fondamentali, in essa formulati, per la soluzione della questione operaia. Ma invito anche a «guardare intorno», alle «cose nuove», che ci circondano ed in cui ci troviamo, per così dire, immersi, ben diverse dalle «cose nuove» che contraddistinsero l'ultimo decennio del secolo passato Invito, infine, a «guardare al futuro», quando già s'intravede il terzo Millennio dell'era cristiana, carico di incognite, ma anche di promesse. Incognite e promesse che fanno appello alla nostra immaginazione e creatività, stimolando anche la nostra responsabilità, quali discepoli dell'«unico maestro», Cristo (cfr. Mt 23, 8), nell'indicare la via, nel proclamare la verità e nel comunicare la vita che è lui (cfr. Gv 14, 6).

Così facendo, sarà confermato non solo il permanente valore di tale insegnamento, ma si manifesterà anche il vero senso della Tradizione della Chiesa, la quale, sempre viva e vitale, costruisce sopra il fondamento posto dai nostri padri nella fede e, segnatamente, sopra quel che gli Apostoli trasmisero alla Chiesa[5] in nome di Gesù Cristo, il fondamento «che nessuno può sostituire» (cfr. 1 Cor 3, 11).

Fu per la coscienza della sua missione di successore di Pietro che Leone XIII si propose di parlare, e la stessa coscienza anima oggi il suo successore. Come lui, e come i Pontefici prima e dopo di lui, mi ispiro all'immagine evangelica dello «scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli», del quale il Signore dice che «è simile ad un padrone di casa, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e cose antiche» ( Mt 13, 52). Il tesoro è la grande corrente della Tradizione della Chiesa, che contiene le «cose antiche», ricevute e trasmesse da sempre, e permette di leggere le «cose nuove», in mezzo alle quali trascorre la vita della Chiesa e del mondo.

Di tali cose che, incorporandosi alla Tradizione, diventano antiche ed offrono occasioni e materiale per il suo arricchimento e per l'arricchimento della vita di fede, fa parte anche l'operosità feconda di milioni e milioni di uomini, che, stimolati dal Magistero sociale, si sono sforzati di ispirarsi ad esso in ordine al proprio impegno nel mondo. Agendo individualmente, o variamente coordinati in gruppi, associazioni ed organizzazioni, essi hanno costituito come un grande movimento per la difesa della persona umana e la tutela della sua dignità, il che nelle alterne vicende della storia ha contribuito a costruire una società più giusta o, almeno, a porre argini e limiti all'ingiustizia.

La presente Enciclica mira a mettere in evidenza la fecondità dei principi espressi da Leone XIII, i quali appartengono al patrimonio dottrinale della Chiesa e, per tale titolo, impegnano l'autorità del suo Magistero. Ma la sollecitudine pastorale mi ha spinto, altresì, a proporre l'analisi di alcuni avvenimenti della storta recente. E' superfluo rilevare che il considerare attentamente il corso degli avvenimenti per discernere le nuove esigenze dell'evangelizzazione fa parte del compito dei Pastori. Tale esame, tuttavia, non intende dare giudizi definitivi, in quanto di per sé non rientra nell'ambito specifico del Magistero.

CAPITOLO I

TRATTI CARATTERISTICI DELLA RERUM NOVARUM

4. Sul finire del secolo scorso la Chiesa si trovò di fronte ad un processo storico, in atto già da qualche tempo, ma che raggiungeva allora un punto nevralgico. Fattore determinante di tale processo fu un insieme di radicali mutamenti avvenuti nel campo politico, economico e sociale, ma anche nell'ambito scientifico e tecnico, oltre al multiforme influsso delle ideologie dominanti. Risultato di questi cambiamenti era stata, in campo politico, una nuova concezione della società e dello Stato e, di conseguenza, dell'autorità. Una società tradizionale si dissolveva e cominciava a formarsene un'altra, carica della speranza di nuove libertà, ma anche dei pericoli di nuove forme di ingiustizia e servitù.

In campo economico, dove confluivano le scoperte e le applicazioni delle scienze, si era arrivati progressivamente a nuove strutture nella produzione dei beni di consumo. Era apparsa una nuova forma di proprietà, il capitale, e una nuova forma di lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi ritmi di produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso, l'età o la situazione familiare, ma unicamente determinato dall'efficienza in vista dell'incremento del profitto.

Il lavoro diventava così una merce, che poteva essere liberamente acquistata e venduta sul mercato ed il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e dell'offerta, senza tener conto del minimo vitale necessario per il sostentamento della persona e della sua famiglia. Per di più, il lavoratore non aveva nemmeno la sicurezza di riuscire a vendere la «propria merce», essendo continuamente minacciato dalla disoccupazione, la quale, in assenza di previdenze sociali, significava lo spettro della morte per fame.

Conseguenza di questa trasformazione era «la divisione della società in due classi separate da un abisso profondo»[6]: tale situazione si intrecciava con l'accentuato mutamento di ordine politico. Così la teoria politica allora dominante cercava di promuovere, con leggi appropriate o, al contrario, con voluta assenza di qualsiasi intervento, la totale libertà economica. Nello stesso tempo, cominciava a sorgere in forma organizzata, e non poche volte violenta, un'altra concezione della proprietà e della vita economica, che implicava una nuova organizzazione politica e sociale.

Nel momento culminante di questa contrapposizione, quando ormai apparivano in piena luce la gravissima ingiustizia della realtà sociale, quale esisteva in molte parti, ed il pericolo di una rivoluzione favorita dalle concezioni allora chiamate «socialiste», Leone XIII intervenne con un Documento che affrontava in modo organico la «questione operaia». L'Enciclica era stata preceduta da altre, dedicate piuttosto ad insegnamenti di carattere politico, mentre altre ancora seguiranno più tardi[7]. In questo contesto è da ricordare, in particolare, l'Enciclica Libertas praestantissimum, in cui era richiamato il legame costitutivo della libertà umana con la verità, tale che una libertà che rifiuti di vincolarsi alla verità scadrebbe in arbitrio e finirebbe col sottomettere se stessa alle passioni più vili e con l'autodistruggersi. Da cosa derivano, infatti, tutti i mali a cui la Rerum novarum vuole reagire se non da una libertà che, nel campo dell'attività economica e sociale, si distacca dalla verità dell'uomo?

Il Pontefice si ispirava, inoltre, all'insegnamento dei predecessori, nonché ai molti Documenti episcopali, agli studi scientifici promossi da laici, all'azione di movimenti e associazioni cattoliche ed alle concrete realizzazioni in campo sociale, che contraddistinsero la vita della Chiesa nella seconda metà del XIX secolo.

5. Le «cose nuove», alle quali il Papa si riferiva, erano tutt'altro che positive. Il primo paragrafo dell'Enciclica descrive le «cose nuove», che le han dato il nome, con parole forti: «Una volta suscitata la brama di cose nuove, che da tempo sta sconvolgendo gli Stati, ne sarebbe derivato come conseguenza che i desideri di cambiamenti si trasferissero alla fine dall'ordine politico al settore contiguo dell'economia. Difatti, i progressi incessanti dell'industria, le nuove strade aperte dalle professioni, le mutate relazioni tra padroni e operai; l'accumulo della ricchezza nelle mani di pochi, accanto alla miseria della moltitudine; la maggiore coscienza che i lavoratori hanno acquistato di sé e, di conseguenza, una maggiore unione tra essi ed inoltre il peggioramento dei costumi, tutte queste cose hanno fatto scoppiare un conflitto»[8].

Il Papa, e con lui la Chiesa, come anche la comunità civile, si trovavano di fronte ad una società divisa da un conflitto, tanto più duro e inumano perché non conosceva regola né norma. Era il conflitto tra il capitale e il lavoro, o —come lo chiamava l'Enciclica— la questione operaia, e proprio su di esso, nei termini acutissimi in cui allora si prospettava, il Papa non esitò a dire la sua parola.

Si presenta qui la prima riflessione, che l'Enciclica suggerisce per il tempo presente. Di fronte ad un conflitto che opponeva, quasi come «lupi», l'uomo all'uomo fin sul piano della sussistenza fisica degli uni e dell'opulenza degli altri, il Papa non dubitò di dover intervenire, in virtù del suo «ministero apostolico»[9], ossia della missione ricevuta da Gesù Cristo stesso di «pascere gli agnelli e le pecorelle» (cfr. Gv 21, 15-17) e di «legare e sciogliere sulla terra» per il Regno dei cieli (cfr. Mt 16, 19). Sua intenzione era certamente quella di ristabilire la pace, e il lettore contemporaneo non può non notare la severa condanna della lotta di classe, che egli pronunciava senza mezzi termini[10]. Ma era ben consapevole del fatto che la pace si edifica sul fondamento della giustizia: contenuto essenziale dell'Enciclica fu appunto quello di proclamare le condizioni fondamentali della giustizia nella congiuntura economica e sociale di allora[11].

In questo modo Leone XIII, sulle orme dei predecessori, stabiliva un paradigma permanente per la Chiesa. Questa, infatti, ha la sua parola da dire di fronte a determinate situazioni umane, individuali e comunitarie, nazionali e internazionali, per le quali formula una vera dottrina, un corpus, che le permette di analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che ne derivano.

Ai tempi di Leone XIII una simile concezione del diritto-dovere della Chiesa era ben lontana dall'essere comunemente ammessa. Prevaleva, infatti, una duplice tendenza: l'una orientata a questo mondo ed a questa vita, alla quale la fede doveva rimanere estranea; l'altra rivolta verso una salvezza puramente ultraterrena, che però non illuminava né orientava la presenza sulla terra. L'atteggiamento del Papa nel pubblicare la Rerum novarum conferì alla Chiesa quasi uno «statuto di cittadinanza» nelle mutevoli realtà della vita pubblica, e ciò si sarebbe affermato ancor più in seguito. In effetti, per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore. Essa costituisce, altresì, una fonte di unità e di pace dinanzi ai conflitti che inevitabilmente insorgono nel settore economico-sociale. Diventa in tal modo possibile vivere le nuove situazioni senza avvilire la trascendente dignità della persona umana né in se stessi né negli avversari, ed avviarle a retta soluzione.

Ora, la validità di tale orientamento mi offre, a distanza di cento anni, l'opportunità di dare un contributo all'elaborazione della dottrina sociale cristiana. La «nuova evangelizzazione», di cui il mondo moderno ha urgente necessità e su cui ho più volte insistito, deve annoverare tra le sue componenti essenziali l'annuncio della dottrina sociale della Chiesa, idonea tuttora, come ai tempi di Leone XIII, ad indicare la retta via per rispondere alle grandi sfide dell'età contemporanea, mentre cresce il discredito delle ideologie. Come allora, bisogna ripetere che non c'è vera soluzione della «questione sociale» fuori del Vangelo e che, d'altra parte, le «cose nuove» possono trovare in esso il loro spazio di verità e la dovuta impostazione morale.

6. Proponendosi di far luce sul conflitto che si era venuto a creare tra capitale e lavoro, Leone XIII affermava i diritti fondamentali dei lavoratori. Per questo, la chiave di lettura del testo leoniano è la dignità del lavoratore in quanto tale e, per ciò stesso, la dignità del lavoro, che viene definito come «l'attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione»[12]. Il Pontefice qualifica il lavoro come «personale», perché «la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria di chi la esercita ed al cui vantaggio fu data»[13]. Il lavoro appartiene così alla vocazione di ogni persona; l'uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro. Nello stesso tempo, il lavoro ha una dimensione «sociale» per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, «poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati»[14]. E' quanto ho ripreso e sviluppato nell'Enciclica Laborem exercens[15].

Un altro principio rilevante è senza dubbio quello del diritto alla «proprietà privata»[16]. Lo spazio stesso, che l'Enciclica gli dedica, rivela l'importanza che gli si attribuisce. Il Papa è ben cosciente del fatto che la proprietà privata non è un valore assoluto, né tralascia di proclamare i principi di necessaria complementarità, come quello della destinazione universale dei beni della terra[17].

D'altra parte, è senz'altro vero che il tipo di proprietà privata, che egli precipuamente considera, è quello della proprietà della terra[18]. Ciò, tuttavia, non impedisce che le ragioni addotte per tutelare la proprietà privata, ossia per affermare il diritto di possedere le cose necessarie per lo sviluppo personale e della propria famiglia —quale che sia la forma concreta che questo diritto può assumere—, conservino oggi il loro valore. Ciò deve essere nuovamente affermato sia di fronte ai cambiamenti, di cui siamo testimoni, avvenuti nei sistemi dove imperava la proprietà collettiva dei mezzi di produzione; sia anche di fronte ai crescenti fenomeni di povertà o, più esattamente, agli impedimenti della proprietà privata, che si presentano in tante parti del mondo, comprese quelle in cui predominano i sistemi che dell'affermazione del diritto di proprietà privata fanno il loro fulcro. A seguito di detti cambiamenti e della persistenza della povertà, si rivela necessaria una più profonda analisi del problema, come sarà sviluppata più avanti.

7. In stretta relazione col diritto di proprietà l'Enciclica di Leone XIII afferma parimenti altri diritti, come propri e inalienabili della persona umana. Tra essi è preminente, per lo spazio che il Papa gli dedica e l'importanza che gli attribuisce, il «diritto naturale dell'uomo» a formare associazioni private; il che significa, anzitutto, il diritto a creare associazioni professionali di imprenditori e operai, o di soli operai[19]. Si coglie qui la ragione per cui la Chiesa difende e approva la creazione di quelli che comunemente si chiamano sindacati, non certo per pregiudizi ideologici, né per cedere a una mentalità di classe, ma perché l'associarsi è un diritto naturale dell'essere umano e, dunque, anteriore rispetto alla sua integrazione nella società politica. Infatti, «non può lo Stato proibirne la formazione», perché «i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, esso contraddice se stesso»[20].

Insieme con questo diritto, che —è doveroso sottolineare— il Papa riconosce esplicitamente agli operai o, secondo il suo linguaggio, ai «proletari», sono affermati con eguale chiarezza il diritto alla «limitazione delle ore di lavoro», al legittimo riposo e ad un diverso trattamento dei fanciulli e delle donne[21] quanto al tipo e alla durata del lavoro.

Se si tiene presente ciò che dice la storia circa i procedimenti consentiti, o almeno non esclusi legalmente, in ordine alla contrattazione senza alcuna garanzia né quanto alle ore di lavoro, né quanto alle condizioni igieniche dell'ambiente ed ancora senza riguardo per l'età e il sesso dei candidati all'occupazione, ben si comprende la severa affermazione del Papa: «Non è giusto né umano —egli scrive— esigere dall'uomo tanto lavoro, da farne per la troppa fatica istupidire la mente e da fiaccarne il corpo». E con maggior precisione, riferendosi al contratto, inteso a far entrare in vigore simili «relazioni di lavoro», afferma: «In ogni convenzione stipulata tra padroni ed operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa» che si sia provveduto convenientemente al riposo, proporzionato «alla somma delle energie consumate nel lavoro»; poi conclude: «Un patto contrario sarebbe immorale»[22].

8. Subito dopo il Papa enuncia un altro diritto dell'operaio in quanto persona. Si tratta del diritto al «giusto salario», il quale non può essere lasciato «al libero consenso delle parti: sicché il datore di lavoro, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro»[23]. Lo Stato —si diceva a quel tempo— non ha potere di intervenire nella determinazione di questi contratti, se non per assicurare l'adempimento di quanto è stato esplicitamente pattuito. Una simile concezione delle relazioni tra padroni e operai, puramente pragmatica ed ispirata ad un rigoroso individualismo, viene severamente biasimata nell'Enciclica, perché contraria alla duplice natura del lavoro, come fatto personale e necessario. Poiché, se il lavoro, in quanto personale, rientra nella disponibilità che ciascuno ha delle proprie facoltà ed energie, in quanto necessario è regolato dal grave obbligo che ciascuno ha di «conservarsi in vita»; «di qui nasce per necessaria conseguenza —conclude il Papa— il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che per la povera gente si riducono al salario del proprio lavoro»[24].

Il salario deve essere sufficiente a mantenere l'operaio e la sua famiglia. Se il lavoratore, «costretto dalla necessità, o per timore del peggio, accetta patti più duri perché imposti dal proprietario o dall'imprenditore, e che volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza contro la quale la giustizia protesta»[25].

Volesse Dio che queste parole, scritte mentre avanzava il cosiddetto «capitalismo selvaggio», non debbano oggi essere ripetute con la medesima severità. Purtroppo, si riscontrano ancora oggi casi di contratti tra padroni e operai, nei quali è ignorata la più elementare giustizia in materia di lavoro minorile o femminile, circa gli orari di lavoro, lo stato igienico dei locali e l'equa retribuzione. E questo nonostante le Dichiarazioni e Convenzioni internazionali al riguardo[26], e le stesse leggi interne degli Stati. Il Papa attribuiva all'«autorità pubblica» lo «stretto dovere» di prendersi debita cura del benessere dei lavoratori, perché non facendolo si offendeva la giustizia; anzi, non esitava a parlare di «giustizia distributiva»[27].

9. A tali diritti Leone XIII ne aggiunge un altro, sempre a proposito della condizione operaia, che desidero ricordare per l'importanza che ha: il diritto di adempiere liberamente i doveri religiosi. Il Papa lo proclama nel contesto degli altri diritti e doveri degli operai, nonostante il clima generale che, anche ai suoi tempi, considerava certe questioni come attinenti esclusivamente all'ambito privato. Egli afferma la necessità del riposo festivo, perché l'uomo sia riportato al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla maestà divina[28]. Di questo diritto, radicato in un comandamento, nessuno può privare l'uomo: «A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell'uomo, di cui Dio stesso dispone con grande rispetto»; di conseguenza, lo Stato deve assicurare all'operaio l'esercizio di tale libertà[29].

Non sbaglierebbe chi in questa limpida affermazione vedesse il germe del principio del diritto alla libertà religiosa, divenuto poi oggetto di molte solenni Dichiarazioni e Convenzioni internazionali[30], nonché della nota Dichiarazione conciliare e del mio ripetuto insegnamento[31]. Al riguardo, ci si deve domandare se gli ordinamenti legali vigenti e la prassi delle società industrializzate assicurino oggi effettivamente l'elementare diritto al riposo festivo.

10. Un'altra importante nota, ricca di insegnamenti per i nostri giorni, è la concezione dei rapporti tra lo Stato ed i cittadini. La Rerum novarum critica i due sistemi sociali ed economici: il socialismo e il liberalismo. Al primo è dedicata la parte iniziale, nella quale si riafferma il diritto alla proprietà privata; al secondo non è dedicata una speciale sezione, ma —cosa meritevole di attenzione— si riservano le critiche, quando si affronta il tema dei doveri dello Stato[32]. Questo non può limitarsi a «provvedere ad una parte dei cittadini», cioè a quella ricca e prospera, e non può «trascurare l'altra», che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suo. «Tuttavia, nel tutelare questi diritti dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. La classe dei ricchi, forte per se stessa, ha meno bisogno della pubblica difesa; la classe proletaria, mancando di un proprio sostegno, ha speciale necessità di cercarla nella protezione dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, lo Stato deve rivolgere di preferenza le sue cure e provvidenze»[33].

Questi passi oggi hanno valore soprattutto di fronte alle nuove forme di povertà esistenti nel mondo, anche perché sono affermazioni che non dipendono da una determinata concezione dello Stato né da una particolare teoria politica. Il Papa ribadisce un elementare principio di ogni sana organizzazione politica, cioè che gli individui, quanto più sono indifesi in una società, tanto più necessitano dell'interessamento e della cura degli altri e, in particolare, dell'intervento dell'autorità pubblica.

In tal modo il principio, che oggi chiamiamo di solidarietà, e la cui validità, sia nell'ordine interno a ciascuna Nazione, sia nell'ordine internazionale, ho richiamato nella Sollicitudo rei socialis[34], si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica. Esso è più volte enunciato da Leone XIII col nome di «amicizia», che troviamo già nella filosofia greca; da Pio XI è designato col nome non meno significativo di «carità sociale», mentre Paolo VI, ampliando il concetto secondo le moderne e molteplici dimensioni della questione sociale, parlava di «civiltà dell'amore»[35].

11. La rilettura dell'Enciclica alla luce delle realtà contemporanee permette di apprezzare la costante preoccupazione e dedizione della Chiesa verso quelle categorie di persone, che sono oggetto di predilezione da parte del Signore Gesù. Il contenuto del testo è un'eccellente testimonianza della continuità, nella Chiesa, della cosiddetta «opzione preferenziale per i poveri», opzione che ho definito come una «forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana»[36]. L'Enciclica sulla «questione operaia», dunque, è un'Enciclica sui poveri e sulla terribile condizione, alla quale il nuovo e non di raro violento processo di industrializzazione aveva ridotto grandi moltitudini. Anche oggi, in gran parte del mondo, simili processi di trasformazione economica, sociale e politica producono i medesimi mali.

Se Leone XIII si appella allo Stato per rimediare secondo giustizia alla condizione dei poveri, lo fa anche perché riconosce opportunamente che lo Stato ha il compito di sovraintendere al bene comune e di curare che ogni settore della vita sociale, non escluso quello economico, contribuisca a promuoverlo, pur nel rispetto della giusta autonomia di ciascuno di essi. Ciò, però, non deve far pensare che per Papa Leone ogni soluzione della questione sociale debba venire dallo Stato. Al contrario, egli insiste più volte sui necessari limiti dell'intervento dello Stato e sul suo carattere strumentale, giacché l'individuo, la famiglia e la società gli sono anteriori ed esso esiste per tutelare i diritti dell'uno e delle altre, e non già per soffocarli[37].

A nessuno sfugge l'attualità di queste riflessioni. Sull'importante tema delle limitazioni inerenti alla natura dello Stato converrà tornare più avanti; intanto, i punti sottolineati, non certo gli unici dell'Enciclica, si pongono in continuità nel Magistero sociale della Chiesa, anche alla luce di una sana concezione della proprietà privata, del lavoro, del processo economico, della realtà dello Stato e, prima di tutto, dell'uomo stesso. Altri temi saranno menzionati in seguito nell'esaminare taluni aspetti della realtà contemporanea; ma occorre tener presente fin d'ora che ciò che fa da trama e, in certo modo, da guida all'Enciclica ed a tutta la dottrina sociale della Chiesa, è la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico, in quanto «l'uomo... in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa»[38]. In lui ha scolpito la sua immagine e somiglianza (cfr. Gn 1, 26), conferendogli una dignità incomparabile, sulla quale più volte insiste l'Enciclica. In effetti, al di là dei diritti che l'uomo acquista col proprio lavoro, esistono diritti che non sono il corrispettivo di nessuna opera da lui prestata, ma che derivano dall'essenziale sua dignità di persona.

CAPITOLO II

VERSO LE «COSE NUOVE»

DI OGGI

12. La commemorazione della Rerum novarum non sarebbe adeguata, se non guardasse pure alla situazione di oggi. Già nel suo contenuto il Documento si presta ad una tale considerazione, perché il quadro storico e le previsioni ivi delineate si rivelano, alla luce di quanto è accaduto in seguito, sorprendentemente esatte.

Ciò è confermato, in particolare, dagli avvenimenti degli ultimi mesi dell'anno 1989 e dei primi del 1990. Essi e le conseguenti trasformazioni radicali non si spiegano se non in base alle situazioni anteriori, le quali, in certa misura, avevano cristallizzato o istituzionalizzato le previsioni di Leone XIII ed i segnali, sempre più inquieti, avvertiti dai suoi successori. Papa Leone, infatti, previde le conseguenze negative sotto tutti gli aspetti, politico, sociale ed economico, di un ordinamento della società quale proponeva il «socialismo», che allora era allo stadio di filosofia sociale e di movimento più o meno strutturato. Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che il Papa cominciava dal «socialismo» la critica delle soluzioni che si davano della «questione operaia», quando esso non si presentava ancora —come poi accadde— sotto la forma di uno Stato forte e potente con tutte le risorse a disposizione. Tuttavia, egli valutò esattamente il pericolo che rappresentava per le masse l'attraente presentazione di una soluzione tanto semplice quanto radicale della questione operaia di allora. Ciò risulta tanto più vero, se vien considerato in relazione con la paurosa condizione di ingiustizia in cui giacevano le masse proletarie nelle Nazioni da poco industrializzate.

Occorre qui sottolineare due cose: da una parte, la grande lucidità nel percepire, in tutta la sua crudezza, la reale condizione dei proletari, uomini, donne e bambini; dall'altra, la non minore chiarezza con cui si intuisce il male di una soluzione che, sotto l'apparenza di un'inversione delle posizioni di poveri e ricchi, andava in realtà a detrimento di quegli stessi che si riprometteva di aiutare. Il rimedio si sarebbe così rivelato peggiore del male. Individuando la natura del socialismo del suo tempo nella soppressione della proprietà privata, Leone XIII arrivava al nodo della questione.

Le sue parole meritano di essere rilette con attenzione: «Per rimediare a questo male (l'ingiusta distribuzione delle ricchezze e la miseria dei proletari), i socialisti spingono i poveri all'odio contro i ricchi, e sostengono che la proprietà privata deve essere abolita ed i beni di ciascuno debbono essere comuni a tutti...; ma questa teoria, oltre a non risolvere la questione, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché contro i diritti dei legittimi proprietari snatura le funzioni dello Stato e scompagina tutto l'ordine sociale»[39]. Non si potrebbero indicar meglio i mali indotti dall'instaurazione di questo tipo di socialismo come sistema di Stato: quello che avrebbe preso il nome di «socialismo reale».

13. Approfondendo ora la riflessione e facendo anche riferimento a quanto è stato detto nelle Encicliche Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis, bisogna aggiungere che l'errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico. Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una molecola dell'organismo sociale, di modo che il bene dell'individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d'altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male. L'uomo così è ridotto ad una serie di relazioni sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante tale decisione l'ordine sociale. Da questa errata concezione della persona discendono la distorsione del diritto che definisce la sfera di esercizio della libertà, nonché l'opposizione alla proprietà privata. L'uomo, infatti, privo di qualcosa che possa «dir suo» e della possibilità di guadagnarsi da vivere con la sua iniziativa, viene a dipendere dalla macchina sociale e da coloro che la controllano: il che gli rende molto più difficile riconoscere la sua dignità di persona ed inceppa il cammino per la costituzione di un'autentica comunità umana.

Al contrario, dalla concezione cristiana della persona segue necessariamente una visione giusta della società. Secondo la Rerum novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell'uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno —sempre dentro il bene comune— la loro propria autonomia. E' quello che ho chiamato la «soggettività» della società che, insieme alla soggettività dell'individuo, è stata annullata dal «socialismo reale»[40].

Se ci si domanda poi donde nasca quell'errata concezione della natura della persona e della «soggettività» della società, bisogna rispondere che la prima causa è l'ateismo. E' nella risposta all'appello di Dio, contenuto nell'essere delle cose, che l'uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l'ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona.

L'ateismo di cui si parla, del resto, è strettamente connesso col razionalismo illuministico, che concepisce la realtà umana e sociale in modo meccanicistico. Si negano in tal modo l'intuizione ultima circa la vera grandezza dell'uomo, la sua trascendenza rispetto al mondo delle cose, la contraddizione ch'egli avverte nel suo cuore tra il desiderio di una pienezza di bene e la propria inadeguatezza a conseguirlo e, soprattutto, il bisogno di salvezza che ne deriva.

14. Dalla medesima radice ateistica scaturisce anche la scelta dei mezzi di azione propria del socialismo, che è condannato nella Rerum novarum. Si tratta della lotta di classe. Il Papa, beninteso, non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza. L'Enciclica Laborem exercens, del resto, ha riconosciuto chiaramente il ruolo positivo del conflitto, quando esso si configuri come «lotta per la giustizia sociale»[41]; e già la Quadragesimo anno scriveva: «La lotta di classe, infatti, quando si astenga dagli atti di violenza e dall'odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia»[42].

Ciò che viene condannato nella lotta di classe è, piuttosto, l'idea di un conflitto che non è limitato da considerazioni di carattere etico o giuridico, che si rifiuta di rispettare la dignità della persona nell'altro (e, di conseguenza, in se stesso), che esclude, perciò, un ragionevole accomodamento e persegue non già il bene generale della società, bensì un interesse di parte che si sostituisce al bene comune e vuol distruggere ciò che gli si oppone. Si tratta, in una parola, della ripresentazione —sul terreno del confronto interno tra i gruppi sociali— della dottrina della «guerra totale», che il militarismo e l'imperialismo di quell'epoca imponevano nell'ambito dei rapporti internazionali. Tale dottrina alla ricerca del giusto equilibrio tra gli interessi delle diverse Nazioni sostituiva quella dell'assoluto prevalere della propria parte mediante la distruzione del potere di resistenza della parte avversa, distruzione attuata con ogni mezzo, non esclusi l'uso della menzogna, il terrore contro i civili, le armi di sterminio (che proprio in quegli anni cominciavano ad essere progettate). Lotta di classe in senso marxista e militarismo, dunque, hanno le stesse radici: l'ateismo e il disprezzo della persona umana, che fan prevalere il principio della forza su quello della ragione e del diritto.

15. La Rerum novarum si oppone alla statalizzazione degli strumenti di produzione, che ridurrebbe ogni cittadino ad un «pezzo» nell'ingranaggio della macchina dello Stato. Non meno decisamente essa critica la concezione dello Stato che lascia il settore dell'economia totalmente al di fuori del suo campo di interesse e di azione. Esiste certo una legittima sfera di autonomia dell'agire economico, nella quale lo Stato non deve entrare. Questo, però, ha il compito di determinare la cornice giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti economici, e di salvaguardare in tal modo le condizioni prime di un'economia libera, che presuppone una certa eguaglianza tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente dell'altra da poterla ridurre praticamente in schiavitù[43].

A questo riguardo, la Rerum novarum indica la via delle giuste riforme, che restituiscano al lavoro la sua dignità di libera attività dell'uomo. Esse implicano un'assunzione di responsabilità da parte della società e dello Stato, diretta soprattutto a difendere il lavoratore contro l'incubo della disoccupazione. Ciò storicamente si è verificato in due modi convergenti: o con politiche economiche, volte ad assicurare la crescita equilibrata e la condizione di piena occupazione; o con le assicurazioni contro la disoccupazione e con politiche di riqualificazione professionale, capaci di facilitare il passaggio dei lavoratori da settori in crisi ad altri in sviluppo.

Inoltre, la società e lo Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia, inclusa una certa capacità di risparmio. Ciò richiede sforzi per dare ai lavoratori cognizioni e attitudini sempre migliori e tali da rendere il loro lavoro più qualificato e produttivo; ma richiede anche un'assidua sorveglianza ed adeguate misure legislative per stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento, soprattutto a danno dei lavoratori più deboli, immigrati o marginali. Decisivo in questo settore è il ruolo dei sindacati, che contrattano i minimi salariali e le condizioni di lavoro.

Infine, bisogna garantire il rispetto di orari «umani» di lavoro e di riposo, oltre che il diritto di esprimere la propria personalità sul luogo di lavoro, senza essere violati in alcun modo nella propria coscienza o nella propria dignità. Anche qui è da richiamare il ruolo dei sindacati non solo come strumenti di contrattazione, ma anche come «luoghi» di espressione della personalità dei lavoratori: essi servono allo sviluppo di un'autentica cultura del lavoro ed aiutano i lavoratori a partecipare in modo pienamente umano alla vita dell'azienda[44].

Al conseguimento di questi fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente e secondo il principio di sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell'attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente e secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all'autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato[45].

L'Enciclica ed il Magistero sociale, ad essa collegato, ebbero una molteplice influenza negli anni tra il XIX e il XX secolo. Tale influenza si riflette in numerose riforme introdotte nei settori della previdenza sociale, delle pensioni, delle assicurazioni contro le malattie, della prevenzione degli infortuni, nel quadro di un maggiore rispetto dei diritti dei lavoratori[46].

16. Le riforme in parte furono realizzate dagli Stati, ma nella lotta per ottenerle ebbe un ruolo importante l'azione del Movimento operaio. Nato come reazione della coscienza morale contro situazioni di ingiustizia e di danno, esso esplicò una vasta attività sindacale, riformista, lontana dalle nebbie dell'ideologia e più vicina ai bisogni quotidiani dei lavoratori e, in questo ambito, i suoi sforzi si sommarono spesso a quelli dei cristiani per ottenere il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. In seguito, tale movimento fu, in certa misura, dominato proprio da quella ideologia marxista, contro la quale si volgeva la Rerum novarum.

Le stesse riforme furono anche il risultato di un libero processo di auto-organizzazione della società, con la messa a punto di strumenti efficaci di solidarietà, atti a sostenere una crescita economica più rispettosa dei valori della persona. E' da ricordare qui la multiforme attività, con un notevole contributo dei cristiani, nella fondazione di cooperative di produzione, di consumo e di credito, nel promuovere l'istruzione popolare e la formazione professionale, nella sperimentazione di varie forme di partecipazione alla vita dell'impresa e, in generale, della società.

Se dunque, guardando al passato, c'è motivo di ringraziare Dio perché la grande Enciclica non è rimasta priva di risonanza nei cuori ed ha spinto ad una fattiva generosità, tuttavia bisogna riconoscere che l'annuncio profetico, in essa contenuto, non è stato compiutamente accolto dagli uomini di quel tempo, e proprio da ciò sono derivate assai gravi sciagure.

17. Leggendo l'Enciclica in connessione con tutto il ricco Magistero leoniano[47], si nota come essa indichi, in fondo, le conseguenze sul terreno economico-sociale di un errore di più vasta portata. L'errore —come si è detto— consiste in una concezione della libertà umana che la sottrae all'obbedienza alla verità e, quindi, anche al dovere di rispettare i diritti degli altri uomini. Contenuto della libertà diventa allora l'amore di sé fino al disprezzo di Dio e del prossimo, amore che conduce all'affermazione illimitata del proprio interesse e non si lascia limitare da alcun obbligo di giustizia[48].

Proprio questo errore giunse alle estreme conseguenze nel tragico ciclo delle guerre che sconvolsero l'Europa ed il mondo tra il 1914 e il 1945. Furono guerre derivanti dal militarismo e dal nazionalismo esasperato e dalle forme di totalitarismo, ad essi collegate, e guerre derivanti dalla lotta di classe, guerre civili ed ideologiche. Senza la terribile carica di odio e di rancore, accumulata a causa delle tante ingiustizie sia a livello internazionale che a quello interno ai singoli Stati, non sarebbero state possibili guerre di tale ferocia, in cui furono investite le energie di grandi Nazioni, in cui non si esitò davanti alla violazione dei diritti umani più sacri, e fu pianificato ed eseguito lo sterminio di interi popoli e gruppi sociali. Ricordiamo qui, in particolare, il popolo ebreo, il cui terribile destino è divenuto simbolo dell'aberrazione cui può giungere l'uomo, quando si volge contro Dio.

Tuttavia, l'odio e l'ingiustizia si impossessano di intere Nazioni e le spingono all'azione solo quando vengono legittimati ed organizzati da ideologie che si fondano su di essi piuttosto che sulla verità dell'uomo[49]. La Rerum novarum combatteva le ideologie dell'odio ed indicava le vie per distruggere la violenza ed il rancore mediante la giustizia. Possa il ricordo di quei terribili avvenimenti guidare le azioni di tutti gli uomini e, in particolare, dei reggitori dei popoli nel nostro tempo, in cui altre ingiustizie alimentano nuovi odi e si delineano all'orizzonte nuove ideologie che esaltano la violenza.

18. Certo, dal 1945 le armi tacciono nel Continente europeo; tuttavia, la vera pace —si ricordi— non è mai il risultato della vittoria militare, ma implica il superamento delle cause della guerra e l'autentica riconciliazione tra i popoli. Per molti anni, invece, si è avuta in Europa e nel mondo una situazione di non-guerra più che di autentica pace. Metà del Continente è caduta sotto il dominio della dittatura comunista, mentre l'altra metà si organizzava per difendersi contro un tale pericolo. Molti popoli perdono il potere di disporre di se stessi, vengono chiusi nei confini soffocanti di un impero, mentre si cerca di distruggere la loro memoria storica e la secolare radice della loro cultura. Masse enormi di uomini, in conseguenza di questa divisione violenta, sono costrette ad abbandonare la loro terra e forzatamente deportate.

Una folle corsa agli armamenti assorbe le risorse necessarie per lo sviluppo delle economie interne e per l'aiuto alle Nazioni più sfavorite. Il progresso scientifico e tecnologico, che dovrebbe contribuire al benessere dell'uomo, viene trasformato in uno strumento di guerra: scienza e tecnica sono usate per produrre armi sempre più perfezionate e distruttive, mentre ad un'ideologia, che è perversione dell'autentica filosofia, si chiede di fornire giustificazioni dottrinali per la nuova guerra. E questa non è solo attesa e preparata, ma è anche combattuta con enorme spargimento di sangue in varie parti del mondo. La logica dei blocchi, o imperi, denunciata nei Documenti della Chiesa e di recente nell'Enciclica Sollicitudo rei socialis[50], fa sì che le controversie e discordie insorgenti nei Paesi del Terzo Mondo siano sistematicamente incrementate e sfruttate per creare difficoltà all'avversario.

I gruppi estremisti, che cercano di risolvere tali controversie con le armi, trovano facilmente appoggi politici e militari, sono armati ed addestrati alla guerra, mentre coloro che si sforzano di trovare soluzioni pacifiche ed umane, nel rispetto dei legittimi interessi di tutte le parti, rimangono isolati e spesso cadono vittima dei loro avversari. Anche la militarizzazione di tanti Paesi del Terzo Mondo e le lotte fratricide che li hanno travagliati, la diffusione del terrorismo e di mezzi sempre più barbari di lotta politico-militare trovano una delle loro principali cause nella precarietà della pace che è seguita alla seconda guerra mondiale. Su tutto il mondo, infine, grava la minaccia di una guerra atomica, capace di condurre all'estinzione dell'umanità. La scienza, usata a fini militari, pone a disposizione dell'odio, incrementato dalle ideologie, lo strumento decisivo. Ma la guerra può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell'umanità, ed allora bisogna ripudiare la logica che conduce ad essa, l'idea che la lotta per la distruzione dell'avversario, la contraddizione e la guerra stessa siano fattori di progresso e di avanzamento della storia[51]. Quando si comprende la necessità di questo ripudio, devono necessariamente entrare in crisi sia la logica della «guerra totale» sia quella della «lotta di classe».

19. Alla fine della seconda guerra mondiale, però, un tale sviluppo è ancora in formazione nelle coscienze, ed il dato che si impone all'attenzione è l'estensione del totalitarismo comunista su oltre metà dell'Europa e su parte del mondo. La guerra, che avrebbe dovuto restituire la libertà e restaurare il diritto delle genti, si conclude senza aver conseguito questi fini, anzi in un modo che per molti popoli, specialmente per quelli che più avevano sofferto, apertamente li contraddice. Si può dire che la situazione venutasi a creare ha dato luogo a diverse risposte.

In alcuni Paesi e sotto alcuni aspetti si assiste ad uno sforzo positivo per ricostruire, dopo le distruzioni della guerra, una società democratica e ispirata alla giustizia sociale, la quale priva il comunismo del potenziale rivoluzionario costituito da moltitudini sfruttate e oppresse. Tali tentativi in genere cercano di mantenere i meccanismi del libero mercato, assicurando mediante la stabilità della moneta e la sicurezza dei rapporti sociali le condizioni di una crescita economica stabile e sana, in cui gli uomini col loro lavoro possano costruire un futuro migliore per sé e per i propri figli. Al tempo stesso, essi cercano di evitare che i meccanismi di mercato siano l'unico termine di riferimento della vita associata e tendono ad assoggettarli ad un controllo pubblico, che faccia valere il principio della destinazione comune dei beni della terra. Una certa abbondanza delle offerte di lavoro, un solido sistema di sicurezza sociale e di avviamento professionale, la libertà di associazione e l'azione incisiva del sindacato, la previdenza in caso di disoccupazione, gli strumenti di partecipazione democratica alla vita sociale, in questo contesto dovrebbero sottrarre il lavoro alla condizione di «merce» e garantire la possibilità di svolgerlo dignitosamente.

Ci sono, poi, altre forze sociali e movimenti ideali che si oppongono al marxismo con la costruzione di sistemi di «sicurezza nazionale», miranti a controllare in modo capillare tutta la società per rendere impossibile l'infiltrazione marxista. Esaltando ed accrescendo la potenza dello Stato, essi intendono preservare i loro popoli dal comunismo; ma, ciò facendo, corrono il grave rischio di distruggere quella libertà e quei valori della persona, in nome dei quali bisogna opporsi ad esso.

Un'altra forma di risposta pratica, infine, è rappresentata dalla società del benessere, o società dei consumi. Essa tende a sconfiggere il marxismo sul terreno di un puro materialismo, mostrando come una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i valori spirituali.

In realtà, se da una parte è vero che questo modello sociale mostra il fallimento del marxismo nel costruire una società nuova e migliore, dall'altra, se nega autonoma esistenza e valore alla morale, al diritto, alla cultura e alla religione, converge con esso nel ridurre totalmente l'uomo alla sfera dell'economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali.

20. Nel medesimo periodo si svolge un grandioso processo di «decolonizzazione», per il quale numerosi Paesi acquistano o riacquistano l'indipendenza e il diritto a disporre liberamente di sé. Con la riconquista formale della sovranità statuale, però, questi Paesi si trovano spesso appena all'inizio del cammino nella costruzione di un'autentica indipendenza. Difatti, settori decisivi dell'economia rimangono ancora nelle mani di grandi imprese straniere, che non accettano di legarsi durevolmente allo sviluppo del Paese che le ospita, e la stessa vita politica è controllata da forze straniere, mentre all'interno delle frontiere dello Stato convivono gruppi tribali, non ancora amalgamati in un'autentica comunità nazionale. Manca, inoltre, un ceto di professionisti competenti, capaci di far funzionare in modo onesto e regolare l'apparato dello Stato, e mancano anche i quadri per un'efficiente e responsabile gestione dell'economia.

Posta questa situazione, a molti sembra che il marxismo possa offrire come una scorciatoia per l'edificazione della Nazione e dello Stato, e nascono perciò diverse varianti del socialismo con un carattere nazionale specifico. Si mescolano così nelle molte ideologie, che vengono a formarsi in misura di volta in volta diversa, legittime esigenze di riscatto nazionale, forme di nazionalismo ed anche di militarismo, principi tratti da antiche tradizioni popolari, talvolta consonanti con la dottrina sociale cristiana, e concetti del marxismo-leninismo.

21. E' da ricordare, infine, come dopo la seconda guerra mondiale ed anche per reazione ai suoi orrori, si è diffuso un sentimento più vivo dei diritti umani, che ha trovato riconoscimento in diversi Documenti internazionali[52] e nell'elaborazione, si direbbe, di un nuovo «diritto delle genti», a cui la Santa Sede ha dato un costante contributo. Perno di questa evoluzione è stata l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Non solo è cresciuta la coscienza del diritto dei singoli, ma anche quella dei diritti delle Nazioni, mentre si avverte meglio la necessità di agire per sanare i gravi squilibri tra le diverse aree geografiche del mondo che, in un certo senso, hanno trasferito il centro della questione sociale dall'ambito nazionale al livello internazionale[53].

Nel prendere atto con soddisfazione di tale processo, non si può tuttavia tacere il fatto che il bilancio complessivo delle diverse politiche di aiuto allo sviluppo non è sempre positivo. Alle Nazioni Unite, inoltre, non è riuscito fino ad ora di costruire strumenti efficaci per la soluzione dei conflitti internazionali alternativi alla guerra, e sembra esser questo il problema più urgente che la comunità internazionale deve ancora risolvere.

CAPITOLO III

L'ANNO 1989

22. Partendo dalla situazione mondiale ora descritta, e già ampiamente esposta nell'Enciclica Sollicitudo rei socialis, si comprende l'inaspettata e promettente portata degli avvenimenti degli ultimi anni. Il loro culmine certo sono stati gli avvenimenti del 1989 nei Paesi dell'Europa centrale ed orientale, ma essi abbracciano un arco di tempo ed un orizzonte geografico più ampi. Nel corso degli anni '80 crollano progressivamente in alcuni Paesi dell'America Latina, ma anche dell'Africa e dell'Asia certi regimi dittatoriali ed oppressivi; in altri casi inizia un difficile, ma fecondo cammino di transizione verso forme politiche più partecipative e più giuste. Un contributo importante, anzi decisivo, ha dato l'impegno della Chiesa per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo: in ambienti fortemente ideologizzati, in cui lo schieramento di parte offuscava la consapevolezza della comune dignità umana, la Chiesa ha affermato con semplicità ed energia che ogni uomo —quali che siano le sue convinzioni personali— porta in sé l'immagine di Dio e, quindi, merita rispetto. In tale affermazione si è spesso riconosciuta la grande maggioranza del popolo, e ciò ha portato alla ricerca di forme di lotta e di soluzioni politiche più rispettose della dignità della persona.

Da questo processo storico sono emerse nuove forme di democrazia, che offrono la speranza di un cambiamento nelle fragili strutture politiche e sociali, gravate dall'ipoteca di una penosa serie di ingiustizie e di rancori, oltre che da un'economia disastrata e da pesanti conflitti sociali. Mentre con tutta la Chiesa rendo grazie a Dio per la testimonianza, spesso eroica, che non pochi Pastori, intere comunità cristiane, singoli fedeli ed altri uomini di buona volontà hanno dato in tali difficili circostanze, prego perché egli sostenga gli sforzi di tutti per costruire un futuro migliore. E', questa, infatti una responsabilità non solo dei cittadini di quei Paesi, ma di tutti i cristiani e degli uomini di buona volontà. Si tratta di mostrare che i complessi problemi di quei popoli possono essere risolti col metodo del dialogo e della solidarietà, anziché con la lotta per la distruzione dell'avversario e con la guerra.

23. Tra i numerosi fattori della caduta dei regimi oppressivi alcuni meritano di essere ricordati in particolare. Il fattore decisivo, che ha avviato i cambiamenti, è certamente la violazione dei diritti del lavoro. Non si può dimenticare che la crisi fondamentale dei sistemi, che pretendono di esprimere il governo ed anzi la dittatura degli operai, inizia con i grandi moti avvenuti in Polonia in nome della solidarietà. Sono le folle dei lavoratori a delegittimare l'ideologia, che presume di parlare in loro nome, ed a ritrovare e quasi riscoprire, partendo dall'esperienza vissuta e difficile del lavoro e dell'oppressione, espressioni e principi della dottrina sociale della Chiesa.

Merita, poi, di essere sottolineato il fatto che alla caduta di un simile «blocco», o impero, si arriva quasi dappertutto mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia. Mentre il marxismo riteneva che solo portando agli estremi le contraddizioni sociali fosse possibile arrivare alla loro soluzione mediante lo scontro violento, le lotte che hanno condotto al crollo del marxismo insistono con tenacia nel tentare tutte le vie del negoziato, del dialogo, della testimonianza della verità, facendo appello alla coscienza dell'avversario e cercando di risvegliare in lui il senso della comune dignità umana.

Sembrava che l'ordine europeo, uscito dalla seconda guerra mondiale e consacrato dagli Accordi di Yalta, potesse essere scosso soltanto da un'altra guerra. E' stato, invece, superato dall'impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità. Ciò ha disarmato l'avversario, perché la violenza ha sempre bisogno di legittimarsi con la menzogna, di assumere, pur se falsamente, l'aspetto della difesa di un diritto o della risposta a una minaccia altrui[54]. Ringrazio ancora Dio che ha sostenuto il cuore degli uomini nel tempo della difficile prova, pregando perché un tale esempio possa valere in altri luoghi ed in altre circostanze. Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie interne, come alla guerra in quelle internazionali.

24. Il secondo fattore di crisi è certamente l'inefficienza del sistema economico, che non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani all'iniziativa, alla proprietà ed alla libertà nel settore dell'economia. A questo aspetto va poi associata la dimensione culturale e nazionale: non è possibile comprendere l'uomo partendo unilateralmente dal settore dell'economia, né è possibile definirlo semplicemente in base all'appartenenza di classe. L'uomo è compreso in modo più esauriente, se viene inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell'esistenza, come il nascere, l'amare, il lavorare, il morire. Al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio. Le culture delle diverse Nazioni sono, in fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda circa il senso dell'esistenza personale: quando tale domanda viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale delle Nazioni. Per questo, la lotta per la difesa del lavoro si è spontaneamente collegata a quella per la cultura e per i diritti nazionali.

La vera causa delle novità, però, è il vuoto spirituale provocato dall'ateismo, il quale ha lasciato prive di orientamento le giovani generazioni e in non rari casi le ha indotte, nell'insopprimibile ricerca della propria identità e del senso della vita, a riscoprire le radici religiose della cultura delle loro Nazioni e la stessa persona di Cristo, come risposta esistenzialmente adeguata al desiderio di bene, di verità e di vita che è nel cuore di ogni uomo. Questa ricerca è stata confortata dalla testimonianza di quanti, in circostanze difficili e nella persecuzione, sono rimasti fedeli a Dio. Il marxismo aveva promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell'uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci senza sconvolgere il cuore.

25. Gli avvenimenti dell' '89 offrono l'esempio del successo della volontà di negoziato e dello spirito evangelico contro un avversario deciso a non lasciarsi vincolare da principi morali: essi sono un monito per quanti, in nome del realismo politico, vogliono bandire dall'arena politica il diritto e la morale. Certo la lotta, che ha portato ai cambiamenti dell' '89, ha richiesto lucidità, moderazione, sofferenze e sacrifici; in un certo senso, essa è nata dalla preghiera, e sarebbe stata impensabile senza un'illimitata fiducia in Dio, Signore della storia, che ha nelle sue mani il cuore degli uomini. E' unendo la propria sofferenza per la verità e per la libertà a quella di Cristo sulla Croce che l'uomo può compiere il miracolo della pace ed è in grado di scorgere il sentiero spesso angusto tra la viltà che cede al male e la violenza che, illudendosi di combatterlo, lo aggrava.

Non si possono, tuttavia, ignorare gli innumerevoli condizionamenti, in mezzo ai quali la libertà del singolo uomo si trova ad operare: essi influenzano, sì, ma non determinano la libertà; rendono più o meno facile il suo esercizio, ma non possono distruggerla. Non solo non è lecito disattendere dal punto di vista etico la natura dell'uomo che è fatto per la libertà, ma ciò non è neppure possibile in pratica. Dove la società si organizza riducendo arbitrariamente o, addirittura, sopprimendo la sfera in cui la libertà legittimamente si esercita, il risultato è che la vita sociale progressivamente si disorganizza e decade.

Inoltre, l'uomo creato per la libertà porta in sé la ferita del peccato originale, che continuamente lo attira verso il male e lo rende bisognoso di redenzione. Questa dottrina non solo è parte integrante della Rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana. L'uomo tende verso il bene, ma è pure capace di male; può trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimanere ad esso legato. L'ordine sociale sarà tanto più solido, quanto più terrà conto di questo fatto e non opporrà l'interesse personale a quello della società nel suo insieme, ma cercherà piuttosto i modi della loro fruttuosa coordinazione. Difatti, dove l'interesse individuale è violentemente soppresso, esso è sostituito da un pesante sistema di controllo burocratico, che inaridisce le fonti dell'iniziativa e della creatività. Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un'organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una «religione secolare», che si illude di costruire il paradiso in questo mondo. Ma qualsiasi società politica, che possiede la sua propria autonomia e le sue proprie leggi[55], non potrà mai esser confusa col Regno di Dio. La parabola evangelica del buon grano e della zizzania (cfr. Mt 13, 24-30. 36-43) insegna che spetta solo a Dio separare i soggetti del Regno ed i soggetti del Maligno, e che siffatto giudizio avrà luogo alla fine dei tempi. Pretendendo di anticipare fin d'ora il giudizio, l'uomo si sostituisce a Dio e si oppone alla sua pazienza.

Grazie al sacrificio di Cristo sulla Croce, la vittoria del Regno di Dio è acquisita una volta per tutte; tuttavia, la condizione cristiana comporta la lotta contro le tentazioni e le forze del male. Solo alla fine della storia il Signore ritornerà nella gloria per il giudizio finale (cfr. Mt 25, 31) con l'instaurazione dei cieli nuovi e della terra nuova (cfr. 2 Pt 3, 13; Ap 21, 1), ma, mentre dura il tempo, la lotta tra il bene e il male continua fin nel cuore dell'uomo.

Ciò che la Sacra Scrittura ci insegna in ordine ai destini del Regno di Dio non è senza conseguenze per la vita delle società temporali, le quali —come dice la parola— appartengono alle realtà del tempo con quanto esso comporta di imperfetto e di provvisorio. Il Regno di Dio, presente nel mondo senza essere del mondo, illumina l'ordine dell'umana società, mentre le energie della grazia lo penetrano e lo vivificano. Così son meglio avvertite le esigenze di una società degna dell'uomo, sono rettificate le deviazioni, è rafforzato il coraggio dell'operare per il bene. A tale compito di animazione evangelica delle realtà umane sono chiamati, unitamente a tutti gli uomini di buona volontà, i cristiani ed in special modo i laici[56].

26. Gli avvenimenti dell' '89 si sono svolti prevalentemente nei Paesi dell'Europa orientale e centrale; tuttavia, hanno un'importanza universale, poiché ne discendono conseguenze positive e negative che interessano tutta la famiglia umana. Tali conseguenze non hanno un carattere meccanico o fatalistico, ma sono piuttosto occasioni offerte alla libertà umana per collaborare col disegno misericordioso di Dio che agisce nella storia.

Prima conseguenza è stato, in alcuni Paesi, l'incontro tra la Chiesa e il Movimento operaio, nato da una reazione di ordine etico ed esplicitamente cristiano contro una diffusa situazione di ingiustizia. Per circa un secolo detto Movimento era finito in parte sotto l'egemonia del marxismo, nella convinzione che i proletari, per lottare efficacemente contro l'oppressione, dovessero far proprie le teorie materialistiche ed economicistiche.

Nella crisi del marxismo riemergono le forme spontanee della coscienza operaia, che esprimono una domanda di giustizia e di riconoscimento della dignità del lavoro, conforme alla dottrina sociale della Chiesa[57]. Il Movimento operaio confluisce in un più generale movimento degli uomini del lavoro e degli uomini di buona volontà per la liberazione della persona umana e per l'affermazione dei suoi diritti; esso investe oggi molti Paesi e, lungi dal contrapporsi alla Chiesa cattolica, guarda ad essa con interesse.

La crisi del marxismo non elimina nel mondo le situazioni di ingiustizia e di oppressione, da cui il marxismo stesso, strumentalizzandole, traeva alimento. A coloro che oggi sono alla ricerca di una nuova ed autentica teoria e prassi di liberazione, la Chiesa offre non solo la sua dottrina sociale e, in generale, il suo insegnamento circa la persona redenta in Cristo, ma anche il concreto suo impegno ed aiuto per combattere l'emarginazione e la sofferenza.

Nel recente passato il sincero desiderio di essere dalla parte degli oppressi e di non esser tagliati fuori dal corso della storia ha indotto molti credenti a cercare in diversi modi un impossibile compromesso tra marxismo e cristianesimo. Il tempo presente, mentre supera tutto ciò che c'era di caduco in quei tentativi, induce a riaffermare la positività di un'autentica teologia dell'integrale liberazione umana[58]. Considerati da questo punto di vista, gli avvenimenti del 1989 risultano importanti anche per i Paesi del Terzo Mondo, che sono alla ricerca della via del loro sviluppo, come lo sono stati per quelli dell'Europa centrale ed orientale.

27. La seconda conseguenza riguarda i popoli dell'Europa. Molte ingiustizie, individuali e sociali, regionali e nazionali, sono state commesse negli anni in cui dominava il comunismo ed anche prima; molti odi e rancori si sono accumulati. E' reale il pericolo che questi riesplodano dopo il crollo della dittatura, provocando gravi conflitti e lutti, se verranno meno la tensione morale e la forza cosciente di rendere testimonianza alla verità che hanno animato gli sforzi nel tempo passato. E' da auspicare che l'odio e la violenza non trionfino nei cuori, soprattutto di coloro che lottano per la giustizia, e cresca in tutti lo spirito di pace e di perdono.

Occorrono, però, passi concreti per creare o consolidare strutture internazionali capaci di intervenire, per il conveniente arbitrato, nei conflitti che insorgono tra le Nazioni, sicché ciascuna di esse possa far valere i propri diritti e raggiungere il giusto accordo e la pacifica composizione con i diritti delle altre. Tutto ciò è particolarmente necessario per le Nazioni europee, unite intimamente tra loro nel vincolo della comune cultura e storia millenaria. Occorre un grande sforzo per la ricostruzione morale ed economica nei Paesi che hanno abbandonato il comunismo. Per molto tempo le relazioni economiche più elementari sono state distorte, ed anche fondamentali virtù legate al settore dell'economia, come la veridicità, l'affidabilità, la laboriosità, sono state mortificate. Occorre una paziente ricostruzione materiale e morale, mentre i popoli stremati da lunghe privazioni chiedono ai loro governanti risultati tangibili ed immediati di benessere ed adeguato soddisfacimento delle loro legittime aspirazioni.

La caduta del marxismo naturalmente ha avuto effetti di grande portata in ordine alla divisione della terra in mondi chiusi l'uno all'altro ed in gelosa concorrenza tra loro. Essa mette in luce più chiaramente la realtà dell'interdipendenza dei popoli, nonché il fatto che il lavoro umano per sua natura è destinato ad unire i popoli, non già a dividerli. La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se vengono ottenuti e conservati a danno di altri popoli e Nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere.

28. Per alcuni Paesi di Europa inizia, in un certo senso, il vero dopoguerra. Il radicale riordinamento delle economie, fino a ieri collettivizzate, comporta problemi e sacrifici, i quali possono esser paragonati a quelli che i Paesi occidentali del Continente si imposero per la loro ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale. E' giusto che nelle presenti difficoltà i Paesi ex-comunisti siano sostenuti dallo sforzo solidale delle altre Nazioni: ovviamente, essi devono essere i primi artefici del proprio sviluppo; ma deve esser data loro una ragionevole opportunità di realizzarlo, e ciò non può avvenire senza l'aiuto degli altri Paesi. Del resto, la presente condizione di difficoltà e di penuria è la conseguenza di un processo storico, di cui i Paesi ex-comunisti sono stati spesso oggetto, e non soggetto: essi, perciò, si trovano in tale situazione non per libera scelta o a causa di errori commessi, ma in conseguenza di tragici eventi storici imposti con la violenza, i quali hanno loro impedito di proseguire lungo la via dello sviluppo economico e civile.

L'aiuto degli altri Paesi soprattutto europei, che hanno avuto parte nella medesima storia e ne portano le responsabilità, corrisponde ad un debito di giustizia. Ma corrisponde anche all'interesse ed al bene generale dell'Europa, che non potrà vivere in pace, se i conflitti di diversa natura, che emergono come conseguenza del passato, saranno resi più acuti da una situazione di disordine economico, di spirituale insoddisfazione e disperazione.

Questa esigenza, però, non deve indurre a rallentare gli sforzi per il sostegno e l'aiuto ai Paesi del Terzo Mondo, che soffrono spesso di condizioni di insufficienza e di povertà assai più gravi[59]. Sarà necessario uno sforzo straordinario per mobilitare le risorse, di cui il mondo nel suo insieme non è privo, verso fini di crescita economica e di sviluppo comune, ridefinendo le priorità e le scale di valori, in base alle quali si decidono le scelte economiche e politiche. Ingenti risorse possono essere rese disponibili col disarmo degli enormi apparati militari, costruiti per il conflitto tra Est e Ovest. Esse potranno risultare ancora più ingenti, se si riuscirà a stabilire affidabili procedure per la soluzione dei conflitti, alternative alla guerra, ed a diffondere, quindi, il principio del controllo e della riduzione degli armamenti anche nei Paesi del Terzo Mondo, adottando opportune misure contro il loro commercio[60]. Ma soprattutto sarà necessario abbandonare la mentalità che considera i poveri —persone e popoli— come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri han prodotto. I poveri chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero. L'elevazione dei poveri è una grande occasione per la crescita morale, culturale ed anche economica dell'intera umanità.

29. Lo sviluppo, infine, non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma in senso integralmente umano[61]. Non si tratta solo di elevare tutti i popoli al livello di cui godono oggi i Paesi più ricchi, ma di costruire nel lavoro solidale una vita più degna, di far crescere effettivamente la dignità e la creatività di ogni singola persona, la sua capacità di rispondere alla propria vocazione e, dunque, all'appello di Dio, in essa contenuto. Al culmine dello sviluppo sta l'esercizio del diritto-dovere di cercare Dio, di conoscerlo e di vivere secondo tale conoscenza[62]. Nei regimi totalitari ed autoritari è stato portato all'estremo il principio del primato della forza sulla ragione. L'uomo è stato costretto a subire una concezione della realtà imposta con la forza, e non conseguita mediante lo sforzo della propria ragione e l'esercizio della propria libertà. Bisogna rovesciare quel principio e riconoscere integralmente i diritti della coscienza umana, legata solo alla verità sia naturale che rivelata. Nel riconoscimento di questi diritti consiste il fondamento primario di ogni ordinamento politico autenticamente libero[63]. E' importante riaffermare tale principio per vari motivi:

a) perché le antiche forme di totalitarismo e di autoritarismo non sono ancora del tutto debellate, ed esiste anzi il rischio che riprendano vigore: ciò sollecita ad un rinnovato sforzo di collaborazione e di solidarietà tra tutti i Paesi;

b) perché nei Paesi sviluppati si fa a volte un'eccessiva propaganda dei valori puramente utilitaristici, con la sollecitazione sfrenata degli istinti e delle tendenze al godimento immediato, la quale rende difficile il riconoscimento ed il rispetto della gerarchia dei veri valori dell'umana esistenza;

c) perché in alcuni Paesi emergono nuove forme di fondamentalismo religioso che, velatamente o anche apertamente, negano ai cittadini di fedi diverse da quelle della maggioranza il pieno esercizio dei loro diritti civili o religiosi, impediscono loro di entrare nel dibattito culturale, restringono il diritto della Chiesa a predicare il Vangelo e il diritto degli uomini, che ascoltano tale predicazione, ad accoglierla ed a convertirsi a Cristo. Nessun autentico progresso è possibile senza il rispetto del naturale ed originario diritto di conoscere la verità e di vivere secondo essa. A questo diritto è legato, come suo esercizio ed approfondimento, il diritto di scoprire e di accogliere liberamente Gesù Cristo, che è il vero bene dell'uomo[64].

CAPITOLO IV

LA PROPRIETA' PRIVATA

E L'UNIVERSALE DESTINAZIONE

DEI BENI

30. Nella Rerum novarum Leone XIII affermava con forza e con vari argomenti, contro il socialismo del suo tempo, il carattere naturale del diritto di proprietà privata[65]. Tale diritto, fondamentale per l'autonomia e lo sviluppo della persona, è stato sempre difeso dalla Chiesa fino ai nostri giorni. Parimenti, la Chiesa insegna che la proprietà dei beni non è un diritto assoluto, ma porta inscritti nella sua natura di diritto umano i propri limiti.

Mentre proclamava il diritto di proprietà privata, il Pontefice affermava con pari chiarezza che l'«uso» dei beni, affidato alla libertà, è subordinato alla loro originaria destinazione comune di beni creati ed anche alla volontà di Gesù Cristo, manifestata nel Vangelo. Infatti scriveva: «I fortunati dunque sono ammoniti...: i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce di Gesù Cristo...; dell'uso dei loro beni dovranno un giorno rendere rigorosissimo conto a Dio giudice»; e, citando san Tommaso d'Aquino, aggiungeva: «Ma se si domanda quale debba essere l'uso di tali beni, la Chiesa... non esita a rispondere che a questo proposito l'uomo non deve possedere i beni esterni come propri, ma come comuni», perché «sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge, il giudizio di Cristo»[66].

I successori di Leone XIII hanno ripetuto la duplice affermazione: la necessità e, quindi, la liceità della proprietà privata ed insieme i limiti che gravano su di essa[67]. Anche il Concilio Vaticano II ha riproposto la dottrina tradizionale con parole che meritano di essere riportate esattamente: «L'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri». E poco oltre: «La proprietà privata o un qualche potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona del tutto necessaria di autonomia personale e familiare, e devono considerarsi come un prolungamento della libertà umana... La stessa proprietà privata ha per sua natura anche una funzione sociale, che si fonda sulla legge della comune destinazione dei beni»[68]. La stessa dottrina ho ripreso prima nel discorso alla III Conferenza dell'Episcopato latino-americano a Puebla, e poi nelle Encicliche Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis[69].

31. Rileggendo tale insegnamento sul diritto di proprietà e la destinazione comune dei beni in rapporto al nostro tempo, si può porre la domanda circa l'origine dei beni che sostentano la vita dell'uomo, soddisfano i suoi bisogni e sono oggetto dei suoi diritti.

La prima origine di tutto ciò che è bene è l'atto stesso di Dio che ha creato la terra e l'uomo, ed all'uomo ha dato la terra perché la domini col suo lavoro e ne goda i frutti (cfr. Gn 1, 28-29). Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno. E' qui la radice dell'universale destinazione dei beni della terra. Questa, in ragione della sua stessa fecondità e capacità di soddisfare i bisogni dell'uomo, è il primo dono di Dio per il sostentamento della vita umana. Ora, la terra non dona i suoi frutti senza una peculiare risposta dell'uomo al dono di Dio, cioè senza il lavoro: è mediante il lavoro che l'uomo, usando la sua intelligenza e la sua libertà, riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto si è acquistata col lavoro. E' qui l'origine della proprietà individuale. E ovviamente egli ha anche la responsabilità di non impedire che altri uomini abbiano la loro parte del dono di Dio, anzi deve cooperare con loro per dominare insieme tutta la terra.

Nella storia si ritrovano sempre questi due fattori, il lavoro e la terra, al principio di ogni società umana; non sempre, però, essi stanno nella medesima relazione tra loro. Un tempo la naturale fecondità della terra appariva e di fatto era il principale fattore della ricchezza, mentre il lavoro era come l'aiuto ed il sostegno di tale fecondità. Nel nostro tempo diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali; diventa, inoltre, evidente come il lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno. Il lavoro è tanto più fecondo e produttivo, quanto più l'uomo è capace di conoscere le potenzialità produttive della terra e di leggere in profondità i bisogni dell'altro uomo, per il quale il lavoro è fatto.

32. Ma un'altra forma di proprietà esiste, in particolare, nel nostro tempo e riveste un'importanza non inferiore a quella della terra: è la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Su questo tipo di proprietà si fonda la ricchezza delle Nazioni industrializzate molto più che su quella delle risorse naturali.

Si è ora accennato al fatto che l'uomo lavora con gli altri uomini, partecipando ad un «lavoro sociale» che abbraccia cerchi progressivamente più ampi. Chi produce un oggetto, lo fa in genere, oltre che per l'uso personale, perché altri possano usarne dopo aver pagato il giusto prezzo, stabilito di comune accordo mediante una libera trattativa. Ora, proprio la capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini e le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a soddisfarli, è un'altra importante fonte di ricchezza nella società moderna. Del resto, molti beni non possono essere prodotti in modo adeguato dall'opera di un solo individuo, ma richiedono la collaborazione di molti al medesimo fine. Organizzare un tale sforzo produttivo, pianificare la sua durata nel tempo, procurare che esso corrisponda in modo positivo ai bisogni che deve soddisfare, assumendo i rischi necessari: è, anche questo, una fonte di ricchezza nell'odierna società. Così diventa sempre più evidente e determinante il ruolo del lavoro umano disciplinato e creativo e —quale parte essenziale di tale lavoro— delle capacità di iniziativa e di imprenditorialità[70].

Un tale processo, che mette concretamente in luce una verità sulla persona incessantemente affermata dal cristianesimo, deve essere riguardato con attenzione e favore. In effetti, la principale risorsa dell'uomo insieme con la terra è l'uomo stesso. E' la sua intelligenza che fa scoprire le potenzialità produttive della terra e le multiformi modalità con cui i bisogni umani possono essere soddisfatti. E' il suo disciplinato lavoro, in solidale collaborazione, che consente la creazione di comunità di lavoro sempre più ampie ed affidabili per operare la trasformazione dell'ambiente naturale e dello stesso ambiente umano. In questo processo sono coinvolte importanti virtù, come la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell'assumere i ragionevoli rischi, l'affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell'esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell'azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna.

La moderna economia d'impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi. L'economia, infatti, è un settore della multiforme attività umana, ed in essa, come in ogni altro campo, vale il diritto alla libertà, come il dovere di fare un uso responsabile di essa. Ma è importante notare che ci sono differenze specifiche tra queste tendenze della moderna società e quelle del passato anche recente. Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l'uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell'altro.

33. Non si possono, tuttavia, non denunciare i rischi ed i problemi connessi con questo tipo di processo. Di fatto, oggi molti uomini, forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all'interno di un sistema di impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale. Essi non hanno la possibilità di acquisire le conoscenze di base, che permettono di esprimere la loro creatività e di sviluppare le loro potenzialità, né di entrare nella rete di conoscenze ed intercomunicazioni, che consentirebbe di vedere apprezzate ed utilizzate la loro qualità. Essi insomma, se non proprio sfruttati, sono ampiamente emarginati, e lo sviluppo economico si svolge, per così dire, sopra la loro testa, quando non restringe addirittura gli spazi già angusti delle loro antiche economie di sussistenza. Incapaci di resistere alla concorrenza di merci prodotte in modi nuovi e ben rispondenti ai bisogni, che prima essi solevano fronteggiare con forme organizzative tradizionali, allettati dallo splendore di un'opulenza ostentata, ma per loro irraggiungibile e, al tempo stesso, stretti dalla necessità, questi uomini affollano le città del Terzo Mondo, dove spesso sono culturalmente sradicati e si trovano in situazioni di violenta precarietà, senza possibilità di integrazione. Ad essi di fatto non si riconosce dignità, e talora si cerca di eliminarli dalla storia mediante forme coatte di controllo demografico, contrarie alla dignità umana.

Molti altri uomini, pur non essendo del tutto emarginati, vivono all'interno di ambienti in cui è assolutamente primaria la lotta per il necessario e vigono ancora le regole del capitalismo delle origini, nella «spietatezza» di una situazione che non ha nulla da invidiare a quella dei momenti più bui della prima fase di industrializzazione. In altri casi è ancora la terra ad essere l'elemento centrale del processo economico, e coloro che la coltivano, esclusi dalla sua proprietà, sono ridotti in condizioni di semi-servitù[71]. In questi casi si può ancora oggi, come al tempo della Rerum novarum, parlare di uno sfruttamento inumano. Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt'altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione.

Purtroppo, la grande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo vive ancora in simili condizioni. Sarebbe, però, errato intendere questo Mondo in un senso soltanto geografico. In alcune regioni ed in alcuni settori sociali di esso sono stati attivati processi di sviluppo incentrati non tanto sulla valorizzazione delle risorse materiali, quanto su quella della «risorsa umana».

In anni non lontani è stato sostenuto che lo sviluppo dipendesse dall'isolamento dei Paesi più poveri dal mercato mondiale e dalla loro fiducia nelle sole proprie forze. L'esperienza recente ha dimostrato che i Paesi che si sono esclusi hanno conosciuto stagnazione e regresso, mentre hanno conosciuto lo sviluppo i Paesi che sono riusciti ad entrare nella generale interconnessione delle attività economiche a livello internazionale. Sembra, dunque, che il maggior problema sia quello di ottenere un equo accesso al mercato internazionale, fondato non sul principio unilaterale dello sfruttamento delle risorse naturali, ma sulla valorizzazione delle risorse umane[72].

Aspetti tipici del Terzo Mondo, però, emergono anche nei Paesi sviluppati, dove l'incessante trasformazione dei modi di produrre e di consumare svaluta certe conoscenze già acquisite e professionalità consolidate, esigendo un continuo sforzo di riqualificazione e di aggiornamento. Coloro che non riescono a tenersi al passo con i tempi possono facilmente essere emarginati; insieme con essi lo sono gli anziani, i giovani incapaci di ben inserirsi nella vita sociale e, in genere, i soggetti più deboli e il cosiddetto Quarto Mondo. Anche la situazione della donna in queste condizioni è tutt'altro che facile.

34. Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioni quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono «solvibili», che dispongono di un potere d'acquisto, e per quelle risorse che sono «vendibili», in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. E' stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano. E', inoltre, necessario che questi uomini bisognosi siano aiutati ad acquisire le conoscenze, ad entrare nel circolo delle interconnessioni, a sviluppare le loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse. Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le son proprie, esiste un qualcosa che è dovuto all'uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell'umanità.

Nei contesti di Terzo Mondo conservano la loro validità (in certi casi è ancora un traguardo da raggiungere) proprio quegli obiettivi indicati dalla Rerum novarum, per evitare la riduzione del lavoro dell'uomo e dell'uomo stesso al livello di una semplice merce: il salario sufficiente per la vita della famiglia; le assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione; la tutela adeguata delle condizioni di lavoro.

35. Si apre qui un grande e fecondo campo di impegno e di lotta, nel nome della giustizia, per i sindacati e per le altre organizzazioni dei lavoratori, che ne difendono i diritti e ne tutelano la soggettività, svolgendo al tempo stesso una funzione essenziale di carattere culturale, per farli partecipare in modo più pieno e degno alla vita della Nazione ed aiutarli lungo il cammino dello sviluppo.

In questo senso si può giustamente parlare di lotta contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l'assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell'uomo[73]. A questa lotta contro un tale sistema non si pone, come modello alternativo, il sistema socialista, che di fatto risulta essere un capitalismo di stato, ma una società del lavoro libero, dell'impresa e della partecipazione. Essa non si oppone al mercato, ma chiede che sia opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società.

La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell'azienda: quando un'azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l'unico indice delle condizioni dell'azienda. E' possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell'azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda. Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa.

Si è visto come è inaccettabile l'affermazione che la sconfitta del cosiddetto «socialismo reale» lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti —individui e Nazioni— le condizioni di base, che consentano di partecipare allo sviluppo. Tale obiettivo richiede sforzi programmati e responsabili da parte di tutta la comunità internazionale. Occorre che le Nazioni più forti sappiano offrire a quelle più deboli occasioni di inserimento nella vita internazionale, e che quelle più deboli sappiano cogliere tali occasioni, facendo gli sforzi e i sacrifici necessari, assicurando la stabilità del quadro politico ed economico, la certezza di prospettive per il futuro, la crescita delle capacità dei propri lavoratori, la formazione di imprenditori efficienti e consapevoli delle loro responsabilità[74].

Al presente sugli sforzi positivi che sono compiuti in proposito grava il problema, in gran parte ancora irrisolto, del debito estero dei Paesi più poveri. E' certamente giusto il principio che i debiti debbano essere pagati; non è lecito, però, chiedere o pretendere un pagamento, quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici. In questi casi è necessario —come, del resto, sta in parte avvenendo— trovare modalità di alleggerimento, di dilazione o anche di estinzione del debito, compatibili col fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso.

36. Conviene ora rivolgere l'attenzione agli specifici problemi ed alle minacce, che insorgono all'interno delle economie più avanzate e sono connesse con le loro peculiari caratteristiche. Nelle precedenti fasi dello sviluppo, l'uomo è sempre vissuto sotto il peso della necessità: i suoi bisogni erano pochi, fissati in qualche modo già nelle strutture oggettive della sua costituzione corporea, e l'attività economica era orientata a soddisfarli. E' chiaro che oggi il problema non è solo di offrirgli una quantità di beni sufficienti, ma è quello di rispondere ad una domanda di qualità: qualità delle merci da produrre e da consumare; qualità dei servizi di cui usufruire; qualità dell'ambiente e della vita in generale.

La domanda di un'esistenza qualitativamente più soddisfacente e più ricca è in sé cosa legittima; ma non si possono non sottolineare le nuove responsabilità ed i pericoli connessi con questa fase storica. Nel modo in cui insorgono e sono definiti i nuovi bisogni, è sempre operante una concezione più o meno adeguata dell'uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata cultura, come concezione globale della vita. E' qui che sorge il fenomeno del consumismo. Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario lasciarsi guidare da un'immagine integrale dell'uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali. Al contrario, rivolgendosi direttamente ai suoi istinti e prescindendo in diverso modo dalla sua realtà personale cosciente e libera, si possono creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente illeciti e spesso dannosi per la sua salute fisica e spirituale. Il sistema economico non possiede al suo interno criteri che consentano di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti, che ostacolano la formazione di una matura personalità. E', perciò, necessaria ed urgente una grande opera educativa e culturale, la quale comprenda l'educazione dei consumatori ad un uso responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e, soprattutto, nei professionisti delle comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche Autorità.

Un esempio vistoso di consumo artificiale, contrario alla salute e alla dignità dell'uomo e certo non facile a controllare, è quello della droga. La sua diffusione è indice di una grave disfunzione del sistema sociale e sottintende anch'essa una «lettura» materialistica e, in un certo senso, distruttiva dei bisogni umani. Così la capacità innovativa dell'economia libera finisce con l'attuarsi in modo unilaterale ed inadeguato. La droga come anche la pornografia ed altre forme di consumismo, sfruttando la fragilità dei deboli, tentano di riempire il vuoto spirituale che si è venuto a creare.

Non è male desiderare di viver meglio, ma è sbagliato lo stile di vita che si presume esser migliore, quando è orientato all'avere e non all'essere e vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare l'esistenza in un godimento fine a se stesso[75]. E' necessario, perciò, adoperarsi per costruire stili di vita, nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti. In proposito, non posso ricordare solo il dovere della carità, cioè il dovere di sovvenire col proprio «superfluo» e, talvolta, anche col proprio «necessario» per dare ciò che è indispensabile alla vita del povero. Alludo al fatto che anche la scelta di investire in un luogo piuttosto che in un altro, in un settore produttivo piuttosto che in un altro, è sempre una scelta morale e culturale. Poste certe condizioni economiche e di stabilità politica assolutamente imprescindibili, la decisione di investire, cioè di offrire ad un popolo l'occasione di valorizzare il proprio lavoro, è anche determinata da un atteggiamento di simpatia e dalla fiducia nella Provvidenza, che rivelano la qualità umana di colui che decide.

37. Del pari preoccupante, accanto al problema del consumismo e con esso strettamente connessa, è la questione ecologica. L'uomo, preso dal desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice dell'insensata distruzione dell'ambiente naturale c'è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L'uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell'opera della creazione, l'uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui[76].

Si avverte in ciò, prima di tutto, una povertà o meschinità dello sguardo dell'uomo, animato dal desiderio di possedere le cose anziché di riferirle alla verità, e privo di quell'atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l'essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create. Al riguardo, l'umanità di oggi deve essere conscia dei suoi doveri e compiti verso le generazioni future.

38. Oltre all'irrazionale distruzione dell'ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell'ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione. Mentre ci si preoccupa giustamente, anche se molto meno del necessario, di preservare gli «habitat» naturali delle diverse specie animali minacciate di estinzione, perché ci si rende conto che ciascuna di esse apporta un particolare contributo all'equilibrio generale della terra, ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un'autentica «ecologia umana». Non solo la terra è stata data da Dio all'uomo, che deve usarla rispettando l'intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l'uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato. Sono da menzionare, in questo contesto, i gravi problemi della moderna urbanizzazione, la necessità di un urbanesimo preoccupato della vita delle persone, come anche la debita attenzione ad un'«ecologia sociale» del lavoro.

L'uomo riceve da Dio la sua essenziale dignità e con essa la capacità di trascendere ogni ordinamento della società verso la verità ed il bene. Egli, tuttavia, è anche condizionato dalla struttura sociale in cui vive, dall'educazione ricevuta e dall'ambiente. Questi elementi possono facilitare oppure ostacolare il suo vivere secondo verità. Le decisioni, grazie alle quali si costituisce un ambiente umano, possono creare specifiche strutture di peccato, impedendo la piena realizzazione di coloro che da esse sono variamente oppressi. Demolire tali strutture e sostituirle con più autentiche forme di convivenza è un compito che esige coraggio e pazienza[77].

39. La prima e fondamentale struttura a favore dell'«ecologia umana» è la famiglia, in seno alla quale l'uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell'uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino. Spesso accade, invece, che l'uomo è scoraggiato dal realizzare le condizioni autentiche della riproduzione umana, ed è indotto a considerare se stesso e la propria vita come un insieme di sensazioni da sperimentare anziché come un'opera da compiere. Di qui nasce una mancanza di libertà che fa rinunciare all'impegno di legarsi stabilmente con un'altra persona e di generare dei figli, oppure induce a considerare costoro come una delle tante «cose» che è possibile avere o non avere, secondo i propri gusti, e che entrano in concorrenza con altre possibilità.

Occorre tornare a considerare la famiglia come il santuario della vita. Essa, infatti, è sacra: è il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un'autentica crescita umana. Contro la cosiddetta cultura della morte, la famiglia costituisce la sede della cultura della vita.

L'ingegno dell'uomo sembra orientarsi, in questo campo, più a limitare, sopprimere o annullare le fonti della vita ricorrendo perfino all'aborto, purtroppo così diffuso nel mondo, che a difendere e ad aprire le possibilità della vita stessa. Nell'Enciclica Sollicitudo rei socialis sono state denunciate le campagne sistematiche contro la natalità, che, in base ad una concezione distorta del problema demografico e in un clima di «assoluta mancanza di rispetto per la libertà di decisione delle persone interessate», le sottopongono non di rado «a intolleranti pressioni... per piegarle a questa forma nuova di oppressione»[78]. Si tratta di politiche che con nuove tecniche estendono il loro raggio di azione fino ad arrivare, come in una «guerra chimica», ad avvelenare la vita di milioni di esseri umani indifesi.

Queste critiche sono rivolte non tanto contro un sistema economico, quanto contro un sistema etico-culturale. L'economia, infatti, è solo un aspetto ed una dimensione della complessa attività umana. Se essa è assolutizzata, se la produzione ed il consumo delle merci finiscono con l'occupare il centro della vita sociale e diventano l'unico valore della società, non subordinato ad alcun altro, la causa va ricercata non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l'intero sistema socio-culturale, ignorando la dimensione etica e religiosa, si è indebolito e ormai si limita solo alla produzione dei beni e dei servizi[79].

Tutto ciò si può riassumere affermando ancora una volta che la libertà economica è soltanto un elemento della libertà umana. Quando quella si rende autonoma, quando cioè l'uomo è visto più come un produttore o un consumatore di beni che come un soggetto che produce e consuma per vivere, allora perde la sua necessaria relazione con la persona umana e finisce con l'alienarla ed opprimerla[80].

40. E' compito dello Stato provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato. Come ai tempi del vecchio capitalismo lo Stato aveva il dovere di difendere i diritti fondamentali del lavoro, così ora col nuovo capitalismo esso e l'intera società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che, tra l'altro, costituiscono la cornice al cui interno soltanto è possibile per ciascuno conseguire legittimamente suoi fini individuali.

Si ritrova qui un nuovo limite del mercato: ci sono bisogni collettivi e qualitativi che non possono essere soddisfatti mediante i suoi meccanismi; ci sono esigenze umane importanti che sfuggono alla sua logica; ci sono dei beni che, in base alla loro natura, non si possono e non si debbono vendere e comprare. Certo, i meccanismi di mercato offrono sicuri vantaggi: aiutano, tra l'altro, ad utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo scambio dei prodotti e, soprattutto, pongono al centro la volontà e le preferenze della persona che nel contratto si incontrano con quelle di un'altra persona. Tuttavia, essi comportano il rischio di un'«idolatria» del mercato, che ignora l'esistenza dei beni che, per loro natura, non sono né possono essere semplici merci.

41. Il marxismo ha criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l'alienazione dell'esistenza umana. Certamente, questo rimprovero è basato su una concezione errata ed inadeguata dell'alienazione, che la fa derivare solo dalla sfera dei rapporti di produzione e di proprietà, cioè assegnandole un fondamento materialistico e, per di più, negando la legittimità e la positività delle relazioni di mercato anche nell'ambito che è loro proprio. Si finisce così con l'affermare che solo in una società di tipo collettivistico potrebbe essere eliminata l'alienazione. Ora, l'esperienza storica dei Paesi socialisti ha tristemente dimostrato che il collettivismo non sopprime l'alienazione, ma piuttosto l'accresce, aggiungendovi la penuria delle cose necessarie e l'inefficienza economica.

L'esperienza storica dell'Occidente, da parte sua, dimostra che, se l'analisi e la fondazione marxista dell'alienazione sono false, tuttavia l'alienazione con la perdita del senso autentico dell'esistenza è un fatto reale anche nelle società occidentali. Essa si verifica nel consumo, quando l'uomo è implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni, anziché essere aiutato a fare l'autentica e concreta esperienza della sua personalità. Essa si verifica anche nel lavoro, quando è organizzato in modo tale da «massimizzare» soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa che il lavoratore, mediante il proprio lavoro, si realizzi di più o di meno come uomo, a seconda che cresca la sua partecipazione in un'autentica comunità solidale, oppure cresca il suo isolamento in un complesso di relazioni di esasperata competitività e di reciproca estraniazione, nel quale egli è considerato solo come un mezzo, e non come un fine.

E' necessario ricondurre il concetto di alienazione alla visione cristiana, ravvisando in esso l'inversione tra i mezzi e i fini: quando non riconosce il valore e la grandezza della persona in se stesso e nell'altro, l'uomo di fatto si priva della possibilità di fruire della propria umanità e di entrare in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli altri uomini per cui Dio lo ha creato. E', infatti, mediante il libero dono di sé che l'uomo diventa autenticamente se stesso[81], e questo dono è reso possibile dall'essenziale «capacità di trascendenza» della persona umana. L'uomo non può donare se stesso ad un progetto solo umano della realtà, ad un ideale astratto o a false utopie. Egli, in quanto persona, può donare se stesso ad un'altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è l'autore del suo essere ed è l'unico che può pienamente accogliere il suo dono[82]. E' alienato l'uomo che rifiuta di trascendere se stesso e di vivere l'esperienza del dono di sé e della formazione di un'autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio. E' alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana.

Nella società occidentale è stato superato lo sfruttamento, almeno nelle forme analizzate e descritte da Carlo Marx. Non è stata superata, invece, l'alienazione nelle varie forme di sfruttamento, quando gli uomini si strumentalizzano vicendevolmente e, nel soddisfacimento sempre più raffinato dei loro bisogni particolari e secondari, diventano sordi a quelli principali ed autentici, che devono regolare anche le modalità di soddisfacimento degli altri bisogni[83]. L'uomo che si preoccupa solo o prevalentemente dell'avere e del godimento, non più capace di dominare i suoi istinti e le sue passioni e di subordinarle mediante l'obbedienza alla verità, non può essere libero: l'obbedienza alla verità su Dio e sull'uomo è la condizione prima della libertà, consentendogli di ordinare i propri bisogni, i propri desideri e le modalità del loro soddisfacimento secondo una giusta gerarchia, di modo che il possesso delle cose sia per lui un mezzo di crescita. Un ostacolo a tale crescita può venire dalla manipolazione operata da quei mezzi di comunicazione di massa che impongono, con la forza di una ben orchestrata insistenza, mode e movimenti di opinione, senza che sia possibile sottoporre a una disamina critica le premesse su cui essi si fondano.

42. Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società? E' forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile?

La risposta è ovviamente complessa. Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d'impresa», o di «economia di mercato», o semplicemente di «economia libera». Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa.

La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C'è anzi il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all'insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.

43. La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra loro[84]. A tale impegno la Chiesa offre, come indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina sociale, che —come si è detto— riconosce la positività del mercato e dell'impresa, ma indica, nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati verso il bene comune. Essa riconosce anche la legittimità degli sforzi dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi maggiori di partecipazione nella vita dell'azienda, di modo che, pur lavorando insieme con altri e sotto la direzione di altri, possano, in un certo senso, «lavorare in proprio»[85] esercitando la loro intelligenza e libertà.

L'integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso, anche se ciò può indebolire assetti di potere consolidati. L'azienda non può esser considerata solo come una «società di capitali»; essa, al tempo stesso, è una «società di persone», di cui entrano a far parte in modo diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano col loro lavoro. Per conseguire questi fini è ancora necessario un grande movimento associato dei lavoratori, il cui obiettivo è la liberazione e la promozione integrale della persona.

Alla luce delle «cose nuove» di oggi è stato riletto il rapporto tra la proprietà individuale, o privata, e la destinazione universale dei beni. L'uomo realizza se stesso per mezzo della sua intelligenza e della sua libertà e, nel fare questo, assume come oggetto e come strumento le cose del mondo e di esse si appropria. In questo suo agire sta il fondamento del diritto all'iniziativa e alla proprietà individuale. Mediante il suo lavoro l'uomo s'impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli altri: ciascuno collabora al lavoro ed al bene altrui. L'uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della Nazione e, in definitiva, dell'umanità tutta[86]. Egli, inoltre, collabora al lavoro degli altri, che operano nella stessa azienda, nonché al lavoro dei fornitori o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si estende progressivamente. La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa, invece, illegittima, quando non viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall'espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall'illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro[87]. Una tale proprietà non ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini.

L'obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale[88]. Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti.

CAPITOLO V

STATO E CULTURA

44. Leone XIII non ignorava che una sana teoria dello Stato è necessaria per assicurare il normale sviluppo delle attività umane: di quelle spirituali e di quelle materiali, che sono entrambe indispensabili[89]. Per questo, in un passo della Rerum novarum egli presenta l'organizzazione della società secondo i tre poteri —legislativo, esecutivo e giudiziario—, e ciò in quel tempo costituiva una novità nell'insegnamento della Chiesa[90]. Tale ordinamento riflette una visione realistica della natura sociale dell'uomo, la quale esige una legislazione adeguata a proteggere la libertà di tutti. A tal fine è preferibile che ogni potere sia bilanciato da altri poteri e da altre sfere di competenza, che lo mantengano nel suo giusto limite. E', questo, il principio dello «Stato di diritto», nel quale è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini.

A questa concezione si è opposto nel tempo moderno il totalitarismo, il quale, nella forma marxista-leninista, ritiene che alcuni uomini, in virtù di una più profonda conoscenza delle leggi di sviluppo della società, o per una particolare collocazione di classe o per un contatto con le sorgenti più profonde della coscienza collettiva, sono esenti dall'errore e possono, quindi, arrogarsi l'esercizio di un potere assoluto. Va aggiunto che il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l'uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell'altro. Allora l'uomo viene rispettato solo nella misura in cui è possibile strumentalizzarlo per un'affermazione egoistica. La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla[91].

45. La cultura e la prassi del totalitarismo comportano anche la negazione della Chiesa. Lo Stato, oppure il partito, che ritiene di poter realizzare nella storia il bene assoluto e si erge al di sopra di tutti i valori, non può tollerare che sia affermato un criterio oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei governanti, il quale, in determinate circostanze, può servire a giudicare il loro comportamento. Ciò spiega perché il totalitarismo cerca di distruggere la Chiesa o, almeno, di assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato ideologico[92].

Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad assorbire in se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità religiose e le stesse persone. Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cfr. At 5, 29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di sovranità.

46. La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno[93]. Essa, pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato.

Un'autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l'educazione e la formazione ai veri ideali, sia della «soggettività» della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare che l'agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l'atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.

Né la Chiesa chiude gli occhi davanti al pericolo del fanatismo, o fondamentalismo, di quanti, in nome di un'ideologia che si pretende scientifica o religiosa, ritengono di poter imporre agli altri uomini la loro concezione della verità e del bene. Non è di questo tipo la verità cristiana. Non essendo ideologica, la fede cristiana non presume di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà socio-politica e riconosce che la vita dell'uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non perfette. La Chiesa, pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona, ha come suo metodo il rispetto della libertà[94].

Ma la libertà è pienamente valorizzata soltanto dall'accettazione della verità: in un mondo senza verità la libertà perde la sua consistenza, e l'uomo è esposto alla violenza delle passioni ed a condizionamenti aperti od occulti. Il cristiano vive la libertà (cfr. Gv 8, 31-32) e la serve proponendo continuamente, secondo la natura missionaria della sua vocazione, la verità che ha conosciuto. Nel dialogo con gli altri uomini egli, attento ad ogni frammento di verità che incontri nell'esperienza di vita e nella cultura dei singoli e delle Nazioni, non rinuncerà ad affermare tutto ciò che gli hanno fatto conoscere la sua fede ed il corretto esercizio della ragione[95].

47. Dopo il crollo del totalitarismo comunista e di molti altri regimi totalitari e «di sicurezza nazionale», si assiste oggi al prevalere, non senza contrasti, dell'ideale democratico, unitamente ad una viva attenzione e preoccupazione per i diritti umani. Ma proprio per questo è necessario che i popoli che stanno riformando i loro ordinamenti diano alla democrazia un autentico e solido fondamento mediante l'esplicito riconoscimento di questi diritti[96]. Tra i principali sono da ricordare: il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia ed a accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona[97].

Anche nei Paesi dove vigono forme di governo democratico non sempre questi diritti sono del tutto rispettati. Né ci si riferisce soltanto allo scandalo dell'aborto, ma anche a diversi aspetti di una crisi dei sistemi democratici, che talvolta sembra abbiano smarrito la capacità di decidere secondo il bene comune. Le domande che si levano dalla società a volte non sono esaminate secondo criteri di giustizia e di moralità, ma piuttosto secondo la forza elettorale o finanziaria dei gruppi che le sostengono. Simili deviazioni del costume politico col tempo generano sfiducia ed apatia con la conseguente diminuzione della partecipazione politica e dello spirito civico in seno alla popolazione, che si sente danneggiata e delusa. Ne risulta la crescente incapacità di inquadrare gli interessi particolari in una coerente visione del bene comune. Questo, infatti, non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad un'equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un'esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona[98].

La Chiesa rispetta la legittima autonomia dell'ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l'una o l'altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo, che essa offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo incarnato[99].

48. Queste considerazioni generali si riflettono anche sul ruolo dello Stato nel settore dell'economia. L'attività economica, in particolare quella dell'economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario, sicurezza circa le garanzie della libertà individuale e della proprietà, oltre che una moneta stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito dello Stato, pertanto, è quello di garantire questa sicurezza, di modo che chi lavora e produce possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà. La mancanza di sicurezza, accompagnata dalla corruzione dei pubblici poteri e dalla diffusione di improprie fonti di arricchimento e di facili profitti, fondati su attività illegali o puramente speculative, è uno degli ostacoli principali per lo sviluppo e per l'ordine economico.

Altro compito dello Stato è quello di sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani nel settore economico; ma in questo campo la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società. Non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l'intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli. Ciò, tuttavia, non significa che esso non abbia alcuna competenza in questo ambito, come hanno affermato i sostenitori di un'assenza di regole nella sfera economica. Lo Stato, anzi, ha il dovere di assecondare l'attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi.

Lo Stato, ancora, ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo. Ma, oltre a questi compiti di armonizzazione e di guida dello sviluppo, esso può svolgere funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito. Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente l'ambito dell'intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile.

Si è assistito negli ultimi anni ad un vasto ampliamento di tale sfera di intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno Stato di tipo nuovo: lo «Stato del benessere». Questi sviluppi si sono avuti in alcuni Stati per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di povertà e di privazione indegne della persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato del benessere, qualificato come «Stato assistenziale». Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un'inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune[100].

Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso. Si aggiunga che spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossico-dipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno.

49. In questo campo la Chiesa, fedele al mandato di Cristo, suo Fondatore, è da sempre presente con le sue opere, per offrire all'uomo bisognoso un sostegno materiale che non lo umili e non lo riduca ad esser solo oggetto di assistenza, ma lo aiuti a uscire dalla precaria sua condizione, promovendone la dignità di persona. Con viva gratitudine a Dio bisogna segnalare che la carità operosa non si è mai spenta nella Chiesa ed anzi registra oggi un multiforme e confortante incremento. Al riguardo, merita speciale menzione il fenomeno del volontariato, che la Chiesa favorisce e promuove sollecitando tutti a collaborare per sostenerlo e incoraggiarlo nelle sue iniziative.

Per superare la mentalità individualista, oggi diffusa, si richiede un concreto impegno di solidarietà e di carità, il quale inizia all'interno della famiglia col mutuo sostegno degli sposi e, poi, con la cura che le generazioni si prendono l'una dell'altra. In tal modo la famiglia si qualifica come comunità di lavoro e di solidarietà. Accade, però, che quando la famiglia decide di corrispondere pienamente alla propria vocazione, si può trovare priva dell'appoggio necessario da parte dello Stato e non dispone di risorse sufficienti. E urgente promuovere non solo politiche per la famiglia, ma anche politiche sociali, che abbiano come principale obiettivo la famiglia stessa, aiutandola, mediante l'assegnazione di adeguate risorse e di efficienti strumenti di sostegno, sia nell'educazione dei figli sia nella cura degli anziani, evitando il loro allontanamento dal nucleo familiare e rinsaldando i rapporti tra le generazioni[101].

Oltre alla famiglia, svolgono funzioni primarie ed attivano specifiche reti di solidarietà anche altre società intermedie. Queste, infatti, maturano come reali comunità di persone ed innervano il tessuto sociale, impedendo che scada nell'anonimato ed in un'impersonale massificazione, purtroppo frequente nella moderna società. E nel molteplice intersecarsi dei rapporti che vive la persona e cresce la «soggettività della società». L'individuo oggi è spesso soffocato tra i due poli dello Stato e del mercato. Sembra, infatti, talvolta che egli esista soltanto come produttore e consumatore di merci, oppure come oggetto dell'amministrazione dello Stato, mentre si dimentica che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato né allo Stato, poiché possiede in se stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire. L'uomo è, prima di tutto, un essere che cerca la verità e si sforza di viverla e di approfondirla in un dialogo che coinvolge le generazioni passate e future[102].

50. Da tale ricerca aperta della verità, che si rinnova ad ogni generazione, si caratterizza la cultura della Nazione. In effetti, il patrimonio dei valori tramandati ed acquisiti è sempre sottoposto dai giovani a contestazione. Contestare, peraltro, non vuol dire necessariamente distruggere o rifiutare in modo aprioristico, ma vuol significare soprattutto mettere alla prova nella propria vita e, con tale verifica esistenziale, rendere quei valori più vivi, attuali e personali, discernendo ciò che nella tradizione è valido da falsità ed errori o da forme invecchiate, che possono esser sostituite da altre più adeguate ai tempi.

In questo contesto, conviene ricordare che anche l'evangelizzazione si inserisce nella cultura delle Nazioni, sostenendola nel suo cammino verso la verità ed aiutandola nel lavoro di purificazione e di arricchimento[103]. Quando, però, una cultura si chiude in se stessa e cerca di perpetuare forme di vita invecchiate, rifiutando ogni scambio e confronto intorno alla verità dell'uomo, allora essa diventa sterile e si avvia a decadenza.

51. Tutta l'attività umana ha luogo all'interno di una cultura e interagisce con essa. Per un'adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l'uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini. Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autodominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune. Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell'uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino. E' a questo livello che si colloca il contributo specifico e decisivo della Chiesa in favore della vera cultura. Essa promuove le qualità dei comportamenti umani, che favoriscono la cultura della pace contro modelli che confondono l'uomo nella massa, disconoscono il ruolo della sua iniziativa e libertà e pongono la sua grandezza nelle arti del conflitto e della guerra. La Chiesa rende un tale servizio predicando la verità intorno alla creazione del mondo, che Dio ha posto nelle mani degli uomini perché lo rendano fecondo e più perfetto col loro lavoro, e predicando la verità intorno alla redenzione, per cui il Figlio di Dio ha salvato tutti gli uomini e, al tempo stesso, li ha uniti gli uni agli altri, rendendoli responsabili gli uni degli altri. La Sacra Scrittura ci parla continuamente di attivo impegno per il fratello e ci presenta l'esigenza di una corresponsabilità che deve abbracciare tutti gli uomini.

Questa esigenza non si ferma ai confini della propria famiglia, e neppure della Nazione o dello Stato, ma investe ordinatamente tutta l'umanità, sicché nessun uomo deve considerarsi estraneo o indifferente alla sorte di un altro membro della famiglia umana. Nessun uomo può affermare di non essere responsabile della sorte del proprio fratello (cfr. Gn 4, 9; Lc 10, 29-37; Mt 25, 31-46)! L'attenta e premurosa sollecitudine verso il prossimo, nel momento stesso del bisogno, oggi facilitata anche dai nuovi mezzi di comunicazione che hanno reso gli uomini più vicini tra loro, è particolarmente importante in relazione alla ricerca degli strumenti di soluzione dei conflitti internazionali alternativi alla guerra. Non è difficile affermare che la potenza terrificante dei mezzi di distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze, e la sempre più stretta connessione, esistente tra i popoli di tutta la terra, rendono assai arduo o praticamente impossibile limitare le conseguenze di un conflitto.

52. I pontefici Benedetto XV ed i suoi successori hanno lucidamente compreso questo pericolo[104], ed io stesso, in occasione della recente drammatica guerra nel Golfo Persico, ho ripetuto il grido: «Mai più la guerra!». No, mai più la guerra, che distrugge la vita degli innocenti, che insegna ad uccidere e sconvolge egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi, rendendo più difficile la giusta soluzione degli stessi problemi che l'hanno provocata! Come all'interno dei singoli Stati è giunto finalmente il tempo in cui il sistema della vendetta privata e della rappresaglia è stato sostituito dall'impero della legge, così è ora urgente che un simile progresso abbia luogo nella Comunità internazionale. Non bisogna, peraltro, dimenticare che alle radici della guerra ci sono in genere reali e gravi ragioni: ingiustizie subite, frustrazioni di legittime aspirazioni, miseria e sfruttamento di moltitudini umane disperate, le quali non vedono la reale possibilità di migliorare le loro condizioni con le vie della pace.

Per questo, l'altro nome della pace è lo sviluppo[105]. Come esiste la responsabilità collettiva di evitare la guerra, così esiste la responsabilità collettiva di promuovere lo sviluppo. Come a livello interno è possibile e doveroso costruire un'economia sociale che orienti il funzionamento del mercato verso il bene comune, allo stesso modo è necessario che ci siano interventi adeguati anche a livello internazionale. Perciò, bisogna fare un grande sforzo di reciproca comprensione, di conoscenza e di sensibilizzazione delle coscienze. E' questa l'auspicata cultura che fa crescere la fiducia nelle potenzialità umane del povero e, quindi, nella sua capacità di migliorare la propria condizione mediante il lavoro, o di dare un positivo contributo al benessere economico. Per far questo, però, il povero —individuo o Nazione— ha bisogno che gli siano offerte condizioni realisticamente accessibili. Creare tali occasioni è il compito di una concertazione mondiale per lo sviluppo, che implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere, di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano[106].

Ciò può comportare importanti cambiamenti negli stili di vita consolidati, al fine di limitare lo spreco delle risorse ambientali ed umane, permettendo così a tutti i popoli ed uomini della terra di averne in misura sufficiente. A ciò si deve aggiungere la valorizzazione dei nuovi beni materiali e spirituali, frutto del lavoro e della cultura dei popoli oggi emarginati, ottenendo così il complessivo arricchimento umano della famiglia delle Nazioni.

CAPITOLO VI

L'UOMO E' LA VIA DELLA CHIESA

53. Di fronte alla miseria del proletariato Leone XIII diceva: «Affrontiamo con fiducia questo argomento e con pieno nostro diritto... Ci parrebbe di mancare al nostro ufficio se tacessimo»[107]. Negli ultimi cento anni la Chiesa ha ripetutamente manifestato il suo pensiero, seguendo da vicino la continua evoluzione della questione sociale, e non ha certo fatto questo per recuperare privilegi del passato o per imporre una sua concezione. Suo unico scopo è stata la cura e responsabilità per l'uomo, a lei affidato da Cristo stesso, per questo uomo che, come il Concilio Vaticano II ricorda, è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa e per cui Dio ha il suo progetto, cioè la partecipazione all'eterna salvezza. Non si tratta dell'uomo «astratto», ma dell'uomo reale, «concreto» e «storico»: si tratta di ciascun uomo, perché ciascuno è stato compreso nel mistero della redenzione e con ciascuno Cristo si è unito per sempre attraverso questo mistero[108]. Ne consegue che la Chiesa non può abbandonare l'uomo, e che «questo uomo è la prima via che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione..., la via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'incarnazione e della redenzione»[109].

E', questa, solo questa l'ispirazione che presiede alla dottrina sociale della Chiesa. Se essa l'ha a mano a mano elaborata in forma sistematica, soprattutto a partire dalla data che commemoriamo, è perché tutta la ricchezza dottrinale della Chiesa ha come orizzonte l'uomo nella sua concreta realtà di peccatore e di giusto.

54. La dottrina sociale oggi specialmente mira all'uomo, in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne. Le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per interpretare la centralità dell'uomo dentro la società e per metterlo in grado di capir meglio se stesso, in quanto «essere sociale». Soltanto la fede, però, gli rivela pienamente la sua identità vera, e proprio da essa prende avvio la dottrina sociale della Chiesa, la quale, valendosi di tutti gli apporti delle scienze e della filosofia, si propone di assistere l'uomo nel cammino della salvezza.

L'Enciclica Rerum novarum può essere letta come un importante apporto all'analisi socio-economica della fine del secolo XIX, ma il suo particolare valore le deriva dall'essere un Documento del Magistero, che ben si inserisce nella missione evangelizzatrice della Chiesa insieme con molti altri Documenti di questa natura. Da ciò si evince che la dottrina sociale ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione: in quanto tale, annuncia Dio ed il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l'uomo a se stesso. In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di ciascuno e, in particolare, del «proletariato», della famiglia e dell'educazione, dei doveri dello Stato, dell'ordinamento della società nazionale e internazionale, della vita economica, della cultura, della guerra e della pace, del rispetto alla vita dal momento del concepimento fino alla morte.

55. La Chiesa riceve il «senso dell'uomo» dalla divina Rivelazione. «Per conoscere l'uomo, l'uomo vero, l'uomo integrale, bisogna conoscere Dio», diceva Paolo VI, e subito dopo citava santa Caterina da Siena, che esprimeva in preghiera lo stesso concetto: «Nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia»[110].

Pertanto, l'antropologia cristiana è in realtà un capitolo della teologia e, per la stessa ragione, la dottrina sociale della Chiesa, preoccupandosi dell'uomo, interessandosi a lui e al suo modo di comportarsi nel mondo, «appartiene... al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale»[111]. La dimensione teologica risulta necessaria sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana. Il che vale —conviene rilevarlo— tanto nei confronti della soluzione «atea», che priva l'uomo di una delle sue componenti fondamentali, quella spirituale, quanto nei confronti delle soluzioni permissive e consumistiche, le quali con vari pretesti mirano a convincerlo della sua indipendenza da ogni legge e da Dio, chiudendolo in un egoismo che finisce per nuocere a lui stesso ed agli altri.

Quando annuncia all'uomo la salvezza di Dio, quando gli offre e comunica la vita divina mediante i sacramenti, quando orienta la sua vita con i comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo, la Chiesa contribuisce all'arricchimento della dignità dell'uomo. Ma essa, come non può mai abbandonare questa sua missione religiosa e trascendente in favore dell'uomo, così si rende conto che la sua opera incontra oggi particolari difficoltà ed ostacoli. Ecco perché si impegna sempre con nuove forze e con nuovi metodi all'evangelizzazione che promuove tutto l'uomo. Anche alla vigilia del terzo Millennio, essa rimane «il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana»[112], come ha sempre cercato di fare sin dall'inizio della sua esistenza, camminando insieme con l'uomo lungo tutta la storia. L'Enciclica Rerum novarum ne è un'espressione significativa.

56. Nel centesimo anniversario di quest'Enciclica, desidero ringraziare tutti coloro che si sono impegnati a studiare, approfondire e divulgare la dottrina sociale cristiana. A questo fine è indispensabile la collaborazione delle Chiese locali, ed io auguro che la ricorrenza sia motivo di un rinnovato slancio per il suo studio, diffusione ed applicazione nei molteplici ambiti.

Desidero, in particolare, che essa sia fatta conoscere e sia attuata nei diversi Paesi dove, dopo il crollo del socialismo reale, si manifesta un grave disorientamento nell'opera di ricostruzione. A loro volta, i Paesi occidentali corrono il pericolo di vedere in questo cedimento la vittoria unilaterale del proprio sistema economico, e non si preoccupano, perciò, di apportare ad esso le dovute correzioni. I Paesi del Terzo Mondo, poi, si trovano più che mai nella drammatica situazione del sottosviluppo, che ogni giorno si aggrava.

Leone XIII, dopo aver formulato i principi e gli orientamenti per la soluzione della questione operaia, scrisse una parola decisiva: «Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe render più difficile la cura di un male già tanto grave», aggiungendo anche: «Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mai mancare in nessun modo l'opera sua»[113].

57. Per la Chiesa il messaggio sociale del Vangelo non deve esser considerato una teoria, ma prima di tutto un fondamento e una motivazione per l'azione. Spinti da questo messaggio, alcuni dei primi cristiani distribuivano i loro beni ai poveri, testimoniando che, nonostante le diverse provenienze sociali, era possibile una convivenza pacifica e solidale. Con la forza del Vangelo, nel corso dei secoli, i monaci coltivarono le terre, i religiosi e le religiose fondarono ospedali e asili per i poveri, le confraternite, come pure uomini e donne di tutte le condizioni, si impegnarono in favore dei bisognosi e degli emarginati, essendo convinti che le parole di Cristo: «Ogni volta che farete queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40), non dovevano rimanere un pio desiderio, ma diventare un concreto impegno di vita.

Oggi più che mai la Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà credibilità nella testimonianza delle opere, prima che nella sua coerenza e logica interna. Anche da questa consapevolezza deriva la sua opzione preferenziale per i poveri, la quale non è mai esclusiva né discriminante verso altri gruppi. Si tratta, infatti, di opzione che non vale soltanto per la povertà materiale, essendo noto che, specialmente nella società moderna, si trovano molte forme di povertà non solo economica, ma anche culturale e religiosa. L'amore della Chiesa per i poveri, che è determinante ed appartiene alla sua costante tradizione, la spinge a rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso tecnico-economico, la povertà minaccia di assumere forme gigantesche. Nei Paesi occidentali c'è la povertà multiforme dei gruppi emarginati, degli anziani e malati, delle vittime del consumismo e, più ancora, quella dei tanti profughi ed emigrati; nei Paesi in via di sviluppo si profilano all'orizzonte crisi drammatiche, se non si prenderanno in tempo misure internazionalmente coordinate.

58. L'amore per l'uomo e, in primo luogo, per il povero, nel quale la Chiesa vede Cristo, si fa concreto nella promozione della giustizia. Questa non potrà mai essere pienamente realizzata, se gli uomini non riconosceranno nel bisognoso, che chiede un sostegno per la sua vita, non un importuno o un fardello, ma l'occasione di bene in sé, la possibilità di una ricchezza più grande. Solo questa consapevolezza infonderà il coraggio per affrontare il rischio ed il cambiamento impliciti in ogni autentico tentativo di venire in soccorso dell'altro uomo. Non si tratta, infatti, solo di dare il superfluo, ma di aiutare interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, ad entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano. Ciò sarà possibile non solo attingendo al superfluo, che il nostro mondo produce in abbondanza, ma soprattutto cambiando gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società. Né si tratta di distruggere strumenti di organizzazione sociale che han dato buona prova di sé, ma di orientarli secondo un'adeguata concezione del bene comune in riferimento all'intera famiglia umana. Oggi è in atto la cosiddetta «mondializzazione dell'economia», fenomeno, questo, che non va deprecato, perché può creare straordinarie occasioni di maggior benessere. Sempre più sentito, però, è il bisogno che a questa crescente internazionalizzazione dell'economia corrispondano validi Organi internazionali di controllo e di guida, che indirizzino l'economia stessa al bene comune, cosa che ormai un singolo Stato, fosse anche il più potente della terra, non è in grado di fare. Per poter conseguire un tale risultato, occorre che cresca la concertazione tra i grandi Paesi e che negli Organismi internazionali siano equamente rappresentati gli interessi della grande famiglia umana. Occorre anche che essi, nel valutare le conseguenze delle loro decisioni, tengano sempre adeguato conto di quei popoli e Paesi che hanno scarso peso sul mercato internazionale, ma concentrano i bisogni più vivi e dolenti e necessitano di maggior sostegno per il loro sviluppo. Indubbiamente, in questo campo rimane molto da fare.

59. Perché, dunque, si attui la giustizia ed abbiano successo i tentativi degli uomini per realizzarla, è necessario il dono della grazia, che viene da Dio. Per mezzo di essa, in collaborazione con la libertà degli uomini, si ottiene quella misteriosa presenza di Dio nella storia che è la Provvidenza.

L'esperienza di novità vissuta nella sequela di Cristo esige di esser comunicata agli altri uomini nella concretezza delle loro difficoltà, lotte, problemi e sfide, perché siano illuminate e rese più umane dalla luce della fede. Questa, infatti, non aiuta soltanto a trovare le soluzioni, ma rende umanamente vivibili anche le situazioni di sofferenza, perché in esse l'uomo non si perda e non dimentichi la sua dignità e vocazione.

La dottrina sociale, inoltre, ha un'importante dimensione interdisciplinare. Per incarnare meglio in contesti sociali, economici e politici diversi e continuamente cangianti l'unica verità sull'uomo, tale dottrina entra in dialogo con le varie discipline che si occupano dell'uomo, ne integra in sé gli apporti e le aiuta ad aprirsi verso un orizzonte più ampio al servizio della singola persona, conosciuta ed amata nella pienezza della sua vocazione.

Accanto alla dimensione interdisciplinare, poi, è da ricordare la dimensione pratica e, in un certo senso, sperimentale di questa dottrina. Essa si situa all'incrocio della vita e della coscienza cristiana con le situazioni del mondo e si manifesta negli sforzi che singoli, famiglie, operatori culturali e sociali, politici e uomini di Stato mettono in atto per darle forma e applicazione nella storia.

60. Annunciando i principi per la soluzione della questione operaia, Leone XIII scriveva: «La soluzione di un problema così arduo richiede il concorso e l'efficace cooperazione anche di altri»[114]. Egli era convinto che i gravi problemi, causati dalla società industriale, potevano essere risolti soltanto mediante la collaborazione tra tutte le forze. Questa affermazione è diventata un elemento permanente della dottrina sociale della Chiesa, e ciò spiega, tra l'altro, perché Giovanni XXIII indirizzò la sua Enciclica sulla pace anche a «tutti gli uomini di buona volontà».

Papa Leone, tuttavia, constatava con dolore che le ideologie del tempo, specialmente il liberalismo e il marxismo, rifiutavano questa collaborazione. Nel frattempo molte cose sono cambiate, specialmente negli anni più recenti. Il mondo odierno è sempre più consapevole che la soluzione dei gravi problemi nazionali e internazionali non è soltanto questione di produzione economica o di organizzazione giuridica o sociale, ma richiede precisi valori etico-religiosi, nonché cambiamento di mentalità, di comportamento e di strutture. La Chiesa si sente, in particolare, responsabile di offrire questo contributo, e —come ho scritto nell'Enciclica Sollicitudo rei socialis— c'è la fondata speranza che anche quel gruppo numeroso che non confessa una religione possa contribuire a dare il necessario fondamento etico alla questione sociale[115].

Nello stesso Documento ho pure rivolto un appello alle Chiese cristiane e a tutte le grandi religioni del mondo, invitando ad offrire l'unanime testimonianza delle comuni convinzioni circa la dignità dell'uomo, creato da Dio[116]. Sono persuaso, infatti, che le religioni oggi e domani avranno un ruolo preminente per la conservazione della pace e per la costruzione di una società degna dell'uomo.

D'altra parte, la disponibilità al dialogo e alla collaborazione vale per tutti gli uomini di buona volontà e, in particolare, per le persone ed i gruppi che hanno una specifica responsabilità nel campo politico, economico e sociale, a livello sia nazionale che internazionale.

61. All'inizio della società industriale, fu «il giogo quasi servile» che obbligò il mio predecessore a prendere la parola in difesa dell'uomo. A tale impegno nei cento anni trascorsi la Chiesa è rimasta fedele! Infatti, è intervenuta nel periodo turbolento della lotta di classe dopo la prima guerra mondiale, per difendere l'uomo dallo sfruttamento economico e dalla tirannia dei sistemi totalitari. Ha posto la dignità della persona al centro dei suoi messaggi sociali dopo la seconda guerra mondiale, insistendo sulla destinazione universale dei beni materiali, su un ordine sociale senza oppressione e fondato sullo spirito di collaborazione e di solidarietà. Ha poi ribadito costantemente che la persona e la società non hanno bisogno soltanto di questi beni, ma anche dei valori spirituali e religiosi. Inoltre, rendendosi conto sempre meglio che troppi uomini vivono non nel benessere del mondo occidentale, ma nella miseria dei Paesi in via di sviluppo, e subiscono una condizione che è ancora quella del «giogo quasi servile», essa ha sentito e sente l'obbligo di denunciare tale realtà con tutta chiarezza e franchezza, benché sappia che questo suo grido non sarà sempre accolto favorevolmente da tutti.

A cento anni dalla pubblicazione della Rerum novarum la Chiesa si trova tuttora davanti a «cose nuove» e a nuove sfide. Perciò, il centenario deve confermare nell'impegno tutti gli uomini di buona volontà e, in particolare, i credenti.

62. Questa mia Enciclica ha voluto guardare al passato, ma soprattutto è protesa verso il futuro. Come la Rerum novarum, essa si colloca quasi alla soglia del nuovo secolo ed intende, con l'aiuto di Dio, prepararne la venuta.

La vera e perenne «novità delle cose» in ogni tempo viene dall'infinita potenza divina, che dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21, 5). Queste parole si riferiscono al compimento della storia, quando Cristo «consegnerà il regno a Dio Padre..., perché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15, 24. 28). Ma il cristiano sa bene che la novità, che attendiamo nella sua pienezza al ritorno del Signore, è presente fin dalla creazione del mondo e, più propriamente, da quando Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo e con lui e per lui ha fatto una «nuova creazione» (2 Cor 5, 17; Gal 6, 15).

Nel concludere, ringrazio ancora Dio onnipotente, che ha dato alla sua Chiesa la luce e la forza di accompagnare l'uomo nel cammino terreno verso il destino eterno. Anche nel terzo Millennio la Chiesa sarà fedele nel fare propria la via dell'uomo, consapevole che non procede da sola, ma con Cristo, suo Signore. E' lui che ha fatto propria la via dell'uomo e lo guida anche quando questi non se ne rende conto.

Maria, la Madre del Redentore, la quale rimane accanto a Cristo nel suo cammino verso e con gli uomini, e precede la Chiesa nel pellegrinaggio della fede, accompagni con materna intercessione l'umanità verso il prossimo Millennio, in fedeltà a Colui che, «ieri come oggi, è lo stesso e lo sarà sempre» (cfr. Eb 13, 8), Gesù Cristo, nostro Signore, nel cui nome tutti benedico di cuore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 1º maggio —memoria di San Giuseppe lavoratore— dell'anno 1991, decimoterzo di pontificato.

Joannes Paulus PP. II

[1] Leone XIII, Lett. Enc. Rerum novarum (15 maggio 1891): Leonis XIII P.M. Acta, XI, Romae 1892, 97-144.

[2] Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno (15 maggio 1931): AAS 23 (1931), 177-228; Pio XII, Messaggio radiofonico del 1 giugno 1941: AAS 33 (1941), 195-205; Giovanni XXIII, Lett. Enc. Mater et Magistra (15 maggio 1961): AAS 53 (1961), 401-464; Paolo VI, Epist. Ap. Octogesima adveniens (14 maggio 1971): AAS 63 (1971), 401-441.

[3] Cfr. Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno, III, l. c., 228.

[4] Lett. Enc. Laborem exercens (14 settembre 1981): AAS 73 (1981), 577-647; Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987): AAS 80 (1988), 513-586.

[5] Cfr. S. Ireneo, Adversus haereses, I, 10, 1; III, 4, 1: PG 7, 549 s.; 855 s.; S. Ch. 264, 154 s.; 211, 44-46.

[6] Leone XIII, Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 132.

[7] Cfr., ad es., Leone XIII, Epist. Enc. Arcanum divinae sapientiae (10 febbraio 1880): Leonis XIII P.M. Acta, II, Romae 1882, 10-40; Epist. Enc. Diuturnum illud (29 giugno 1881): Leonis XIII P.M. Acta, II, Romae 1882, 269-287; Lett. Enc. Libertas praestantissimum (20 giugno 1888): Leonis XIII P.M. Acta, VIII, Romae 1889, 212-246; Epist. Enc. Graves de communi (18 gennaio 1901): Leonis XIII P.M. Acta, XXI, Romae 1902, 3-20.

[8] Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 97.

[9] Ibid.: l. c., 98.

[10] Cfr. ibid.: l. c., 109 s.

[11] Cfr. ibid.: descrizione delle condizioni di lavoro; associazioni operaie anti-cristiane: l. c., 110 s.; 136 s.

[12] Ibid.: l. c., 130; cfr. anche 114 s.

[13] Ibid.: l. c., 130.

[14] Ibid.: l. c., 123.

[15] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 1, 2, 6: l. c., 578-583; 589-592.

[16] Cfr. Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 99-107.

[17] Cfr. ibid.: l. c., 102 s.

[18] Cfr. ibid.: l. c., 101-104.

[19] Cfr. ibid.: l. c., 134 s.; 137 s.

[20] Ibid.: l. c., 135.

[21] Cfr. ibid.: l. c., 128-129.

[22] Ibid.: l. c., 129.

[23] Ibid.: l. c., 129.

[24] Ibid.: l. c., 130 s.

[25] Ibid.: l. c., 131.

[26] Cfr. Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo.

[27] Cfr. Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 121-123.

[28] Cfr. ibid.: l. c., 127.

[29] Ibid.: l. c., 126 s.

[30] Cfr. Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo; Dichiarazione sull'eliminazione di ogni forma di intolleranza e discriminazione fondate sulla religione o sulle convinzioni.

[31] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae; Giovanni Paolo II, Lettera ai Capi di Stato (1º settembre 1980): AAS 72 (1980), 1252-1260; Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1988: AAS 80 (1988), 278-286.

[32] Cfr. Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 99-105; 130 s.; 135.

[33] Ibid.: l. c., 125.

[34] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 38-40: l. c., 564-569; cfr. anche Giovanni XXIII, Lett. Enc. Mater et Magistra, l. c., 407.

[35] Cfr. Leone XIII, Lett.Enc. Rerum novarum: l. c., 114-116; Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno, III, l. c., 208; Paolo VI, Omelia per la chiusura dell'Anno Santo (25 dicembre 1975): AAS 68 (1976), 145; Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1977: AAS 68 (1976), 709.

[36] Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 42: l. c., 572.

[37] Cfr. Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 101 s.; 104 s.; 130 s.;

[38] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 24.

[39] Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 99.

[40] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 15, 28: l. c., 530; 548 ss.

[41] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 11-15: l. c., 602-618.

[42] Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno, III: l. c., 213.

[43] Cfr. Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 121-125.

[44] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 20: l. c., 629-632; Discorso all'Organizzazione Internazionale del Lavoro (O.I.T.) a Ginevra (15 giugno 1982): Insegnamenti V/2 (1982), 2250-2266; Paolo VI, Discorso alla medesima Organizzazione (10 giugno 1969): AAS 61 (1969), 491-502.

[45] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 8: l. c., 594-598.

[46] Cfr. Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno: l. c., 178-181.

[47] Cfr. Epist. Enc. Arcanum divinae sapientiae (10 febbraio 1880): Leonis XIII P.M. Acta, II, Romae 1882, 10-40; Epist. Enc. Diuturnum illud (29 giugno 1881): Leonis XIII P.M. Acta, II, Romae 1882, 269-287; Epist. Enc. Immortale Dei (1º novembre 1885): Leonis XIII P.M. Acta, V, Romae 1886, 118-150; Lett. Enc. Sapientiae Christianae (10 gennaio 1890): Leonis XIII P.M. Acta, X, Romae 1891, 10-41; Epist. Enc. Quod Apostolici muneris (28 dicembre 1878): Leonis XIII P.M. Acta, I, Romae 1881, 170-183; Lett. Enc. Libertas praestantissimum (20 giugno 1888): Leonis XIII P.M. Acta, VIII, Romae 1889, 212-246.

[48] Cfr. Leone XIII, Lett. Enc. Libertas praestantissimum: l. c., 224-226.

[49] Cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1980: AAS 71 (1979), 1572-1580.

[50] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 20: l. c., 536 s.

[51] Cfr. Giovanni XXIII, Lett. Enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), III: AAS 55 (1963), 286-289.

[52] Cfr. Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, del 1948; Giovanni XXIII, Lett. Enc. Pacem in terris, IV: l. c., 291-296; «Atto Finale» della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), Helsinki 1975.

[53] Cfr. Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 61-65: AAS 59 (1967), 287-289.

[54] Cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1980: l. c., 1572-1580.

[55] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 36; 39.

[56] Cfr. Esort. Ap. Christifideles laici (30 dicembre 1988), 32-44: AAS 81 (1989), 431-481.

[57] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 20: l. c., 629-632.

[58] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione Libertatis conscientia (22 marzo 1986): AAS 79 (1987), 554-599.

[59] Cfr. Discorso nella sede del Consiglio della C.E.A.O. in occasione del X anniversario dell'«Appello per il Sahel» (Ouagadougou, Burkina Faso, 29 gennaio 1990): AAS 82 (1990), 816-821.

[60] Cfr. Giovanni XXIII, Lett. Enc. Pacem in terris, III: l. c., 286-288.

[61] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 27-28: l. c., 547-550; Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 43-44: l. c., 278 s.

[62] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 29-31: l. c., 550-556.

[63] Cfr. Atto di Helsinki e Accordo di Vienna; Leone XIII, Lett. Enc. Libertas praestantissimum: l. c., 215-217.

[64] Cfr. Lett. Enc. Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 7: "L'Osservatore Romano", 23 gennaio 1991.

[65] Cfr. Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 99-107; 131-133.

[66] Ibid.: l. c., 111-113 s.

[67] Cfr. Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno, II: l. c., 191; Pio XII, Messaggio Radiofonico del 1º giugno 1941: l. c., 199; Giovanni XXIII, Lett. Enc. Mater et Magistra: l. c., 428-429; Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 22-24: l. c., 268 s.

[68] Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 69; 71.

[69] Cfr. Discorso ai Vescovi Latinoamericani a Puebla (28 gennaio 1979), III, 4: AAS 71 (1979), 199-201; Lett. Enc. Laborem exercens, 14: l. c., 612-616; Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 42: l. c., 572-574.

[70] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 15: l. c., 528-531.

[71] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 21: l. c., 632-634.

[72] Cfr. Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 33-42: l. c., 273-278.

[73] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 7: l. c., 592-594.

[74] Cfr. ibid., 8; l. c., 594-598.

[75] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 35; Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 19: l. c., 266 s.

[76] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 34: l. c., 559 s.; Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990: AAS 82 (1990), 147-156.

[77] Cfr. Esort. Ap. Reconciliatio et Paenitentia (2 dicembre 1984), 16: AAS 77 (1985), 213-217; Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno, III, l. c., 219.

[78] Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 25: l. c., 544.

[79] Cfr. ibid., 34: l. c., 559 s.

[80] Cfr. Lett. Enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286-289.

[81] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 24.

[82] Cfr. ibid., 41.

[83] Cfr. ibid., 26.

[84] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 36; Paolo VI, Lett. Ap. Octogesima adveniens, 2-5: l. c., 402-405.

[85] Cfr. Lett. Enc. Laborem exercens, 15: l. c., 616-618.

[86] Cfr. ibid., 10: l. c., 600-602.

[87] Cfr. ibid., 14: l. c., 612-616.

[88] Cfr. ibid., 18: l. c., 622-625.

[89] Cfr. Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 126-128.

[90] Cfr. ibid., l. c., 121 s.

[91] Cfr. Leone XIII, Lett. Enc. Libertas praestantissimum: l. c., 224-226.

[92] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 76.

[93] Cfr. ibid., 29; Pio XII, Radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1944: AAS 37 (1945), 10-20.

[94] Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae.

[95] Cfr. Lett. Enc. Redemptoris missio, 11: "L'Osservatore Romano", 23 gennaio 1991.

[96] Cfr. Lett. Enc. Redemptor hominis, 17: l. c., 270-272.

[97] Cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1988: l. c., 1572-1580; Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1991: "L'Osservatore Romano", 19 dicembre 1990; Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1-2.

[98] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 26.

[99] Cfr. ibid., 22.

[100] Cfr. Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno, I: l. c., 184-186.

[101] Cfr. Esort. Ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 45: AAS 74 (1982), 136 s.

[102] Cfr. Allocuzione all'UNESCO (2 giugno 1980): AAS 72 (1980), 735-752.

[103] Cfr. Lett. Enc. Redemptoris missio, 39; 52: "L'Osservatore Romano", 23 gennaio 1991.

[104] Cfr. Benedetto XV, Esort. Ubi primum (8 settembre 1914): AAS 6 (1914), 501 s.; Pio XI, Radiomessaggio a tutti i fedeli cattolici e a tutto il mondo (29 settembre 1938): AAS 30 (1938), 309 s.; Pio XII, Radiomessaggio a tutto il mondo (24 agosto 1939), 333-335; Giovanni XXIII, Lett. Enc. Pacem in terris, III: l. c., 285-289; Paolo VI, Discorso all'O.N.U. (4 ottobre 1965): AAS 57 (1965), 877-885.

[105] Cfr. Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 76-77: l. c., 294 s.

[106] Cfr. Esort. Ap. Familiaris consortio, 48: l. c., 139 s.

[107] Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 107.

[108] Cfr. Lett. Enc. Redemptor hominis, 13: l. c., 283.

[109] Ibid., 14: l. c., 284 s.

[110] Paolo VI, Omelia all'ultima sessione pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II (7 dicembre 1965): AAS 58 (1966), 58.

[111] Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 41: l. c., 571.

[112] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 76; cfr. Giovanni Paolo II Lett. Enc. Redemptor hominis, 13: l. c., 283.

[113] Lett. Enc. Rerum novarum: l. c., 143.

[114] Ibid.: l. c., 107.

[115] Cfr. Lett. Enc. Sollicitudo rei socialis, 38: l. c., 564-566.

[116] Cfr. ibid., 47: l. c., 582.

Romana, n. 12, Gennaio-Giugno 1991, p. 67-111.

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